lunedì 26 gennaio 2015

Fenomenologia del riso

Pubblico qui di seguito un contributo di Stefano Giannalia che apre un'altra sezione del blog riservata alla rubrica "AFORISMI"



Cos’è il riso?
Il riso è tutto ciò che ci suscita allegria è divertimento mentale, è ciò che spinge la nostra bocca ad emettere una risata, che può essere ridotta e contenuta o larga e senza freni.

                Può il riso, emettere sentenze?
Il riso e quindi la risata emettono sentenze morali:  il riso di scherno è refrattario ai buoni sentimenti come critica negativa al prossimo, il riso d’ironia invece ribalta il dramma e il tragico, facendo diventare comico che ride della fantasticheria dell’assurdo o del surreale.

                Come reagisce un pubblico davanti all’attore?
Gli spettatori reagiscono davanti al comico modulando la risata che nasce, aumenta e muore con il gesto o con la parola dell’attore – maschera.
               
  Cosa fa la risata?

La risata disturba, eccede nel rumore, quasi soffoca chi ne sta abusando,  contagia chi sta accanto, rallegra lo spirito frantumato, spesso però le risate sono sciocche o ebbre d’alcol, chi ne allunga la durata è messo in disparte allontanato come chi non capisce il ruolo o il fine del gesto comico.

venerdì 23 gennaio 2015

Sulla formazione degli insegnanti


 rivolta dal Miur a tutte le scuole, propone ancora una volta una formazione in reti consociate  cui potranno afferire i diversi istituti per convogliare risorse umane ed economiche e procedere ad una formazione dei docenti cosiddetta “a cascata”.
I docenti delle scuole italiane conoscono molto bene l’espressione “a cascata” e quanto essa voglia significare in termini di  fattibilità e di efficacia. La formazione in rete è sempre in cascata, vale a dire che è indirizzata alla formazione di uno/due  docenti per scuola i quali poi, all’interno del proprio istituto, dovranno farsi carico di diffondere capillarmente tra i colleghi quanto appreso durante la loro formazione all’interno della detta rete di scuole.
Fin qui  la cosa non stupisce, in quanto questo modello di formazione è stato quello più praticato da una trentina d’anni a questa parte. Ma ha funzionato solo in minima parte  e solo laddove la formazione è stata organizzata in tutte le sue modalità e con tempi ben scanditi e istituzionalizzati. Uno di questi esempi di formazione a cascata è stato, negli anni 2005/2007, il Piano Nazionale Poseidon attivato dall’INDIRE che, a partire dai primi docenti formati in corsi blended (in presenza e on-line) , ha visto, nella seconda fase,  una effettiva ricaduta su un numero quadruplo di docenti, rispetto al numero iniziale. Tale formazione era mirata ai docenti dell’area linguistica  E si trattava di una formazione per docenti in servizio.
Chi volesse avere un’idea precisa della strutturazione del modello di formazione del Piano Nazionale Poseidon può andare a vedere il link: http://archivio.pubblica.istruzione.it/docenti/allegati/poseidon.pdf

Ma già alla terza fase c’è stata una prima, notevole battuta d’arresto in quanto non sempre e non tutti i docenti iscritti hanno concluso la loro formazione. E questo ancora nella fase nazionale.
Dopo queste prime tre fasi, il piano prevedeva la disseminazione delle competenze acquisite  al livello delle singole regioni. Non so come sia andata nelle altre regioni in Italia, ma so che, per esempio in Sardegna, regione di cui ho esperienza personale, questa ultima fase è stata pressoché fallimentare. I numeri ufficiali possono essere controllati nelle sedi degli Uffici scolastici regionali.
Questo Piano  Nazionale Poseidon, concepito con l’ausilio delle associazioni disciplinari in collaborazione con esperti sia universitari che della scuola media, e con le risorse dei fondi strutturali europei per i PON, ha messo in campo una formazione di altissima qualità sia nel merito che nel metodo. Prova ne sia il fatto che tutti i docenti che vi hanno partecipato e che hanno portato a termine la loro formazione, se ne sono molto giovati per l’acquisizione di competenze professionali elevate, che nella quasi totalità dei casi ha portato ad un miglioramento nella ricaduta didattica delle discipline insegnate.
In questo modello di formazione c’è stata la confluenza tra competenze disciplinari da parte dei formatori e buona volontà e determinazione da parte dei docenti formati che non si sono arresi di fronte alle difficoltà iniziali di vario venere ( ad es. competenze informatiche richieste, cariche di lavoro, quantità di ore previste e obbligatorie di formazione e impegno individuale a cambiare mentalità e a mettere a disposizione degli altri colleghi le proprie abilità e competenze).
Non mi sembra esagerato affermare che tale formazione è stata, insieme a pochi altri progetti nazionali di formazione, quella che può ritenersi a buona ragione, una formazione di eccellenza.

Ci sono stati altri piani di formazione dei docenti in servizio a livello nazionale, per es. i progetti DIGIscuola, dimensionati a livello regionale, ma non hanno certo avuto il medesimo impatto metodologico e didattico del Piano Poseidon citato.
Innumerevoli sono poi stati i progetti di formazione  messi in atto o da singole scuole o da reti di scuole, ma per quanto riguarda la mia esperienza quasi quarantennale , non ho mai sentito i docenti esprimere pareri positivi che testimoniassero l’efficacia di queste tipologie di formazione.
Io credo che al docente interessato e desideroso di affinare le proprie competenze, interesserebbe molto una formazione mirata, possibilmente di tipo disciplinare, che lo possa mettere in grado di acquisire e padroneggiare gli strumenti didattici finalizzati all’insegnamento.
Personalmente ritengo che sia questo il tipo di formazione che serve ad un docente in servizio. Tutte le altre attività che rimandano agli aspetti organizzativi delle attività scolastiche in generale, non sono, o meglio, non debbono essere di competenza specifica ( o peggio, unica ) dei docenti. Possono invece essere affidati magari ad altri docenti che , per scelta, rinuncino ad una parte di ore di insegnamento per dedicarsi ad attività di tipo organizzativo. Non credo sia efficace che un medesimo  docente si faccia carico contemporaneamente di svolgere attività didattica e altre attività organizzative, che, richiedendo grande impegno e dispendio di tempo, fatalmente lo portano a distrarsi dal compito specifico della didattica.
Per lo specifico e altissimo ruolo educativo che il docente assume nel momento in cui insegna in classe, egli deve essere competente non solo nella disciplina che insegna, ma anche nella modalità didattica da mettere in campo per fare in modo che gli alunni apprendano. E prima di tutto apprendano lo specifico disciplinare.  E’ questo il primo compito del docente. E credo possa essere anche l’unico. Poiché solo nell’apprendimento di qualità, l’alunno potrà affinare le sue competenze e padroneggiare a sua volta gli strumenti che lo metteranno in grado di gestire le proprie conoscenze  e competenze con spirito critico e di sapere orientarsi e organizzarsi in autonomia per tutto l’arco della sua vita.

E allora, ritornando alla nota ministeriale del 27 novembre 2014, quale modello di formazione viene previsto dal MIUR? Basta scorrere nell’allegato A della citata nota min. per vedere che nessuna voce specifica è stata riservata alla formazione nella didattica disciplinare. Si parla di tutt’altro.
Nei singoli punti in cui vengono declinati nel dettaglio le  aree di interesse della formazione ( nell’allegato indicati con a, b, c, d, f, g, ) si parla di orientamento, di collegamenti con gli enti pubblici, di formazione dei docenti sulle tecnologie informatiche etc…, ma non una sola parola viene spesa per la formazione sulla didattica degli specifici disciplinari.

Si potrà obiettare: questo è l’ambito che riguarda la formazione iniziale dei docenti.
Ma qual è l’attuale percorso di formazione iniziale?
Il Miur dopo avere chiuso le SSIS, di cui parlerò qui di seguito, e dopo alcuni anni di interregno, in cui veniva sospeso il percorso SSIS  in attesa di un nuovo e definitivo percorso istituzionale, ha attivato il cosiddetto TFA (Tirocinio Formativo Attivo) inserito nell’ultimo biennio della laurea magistrale, in cui i futuri docenti fanno esperienza di tirocinio direttamente nelle scuole sotto la supervisione di un Tutor docente (a scuola) e un tutor organizzatore ( all’università) . Questo percorso ha sostituito le SSIS ( Scuola di Specializzazione per la formazione degli Insegnanti nella scuola Secondaria)  che prevedevano un percorso biennale di formazione post-lauream.

Le SSIS erano il luogo attivo in cui  i futuri docenti dedicavano tutto il loro tempo ad imparare ad insegnare. Esse prevedevano due momenti di formazione: una teorica, riservata ad insegnamenti di discipline di area comune ( psicologia, pedagogia, didattica generale, …) affidata ai docenti universitari, e l’altra interamente dedicata al tirocinio. Questa parte era a sua volta suddivisa in due momenti: il tirocinio osservativo (  detto anche diretto), da svolgere direttamente a scuola dentro le classi insieme al docente delle classi stesse, che assumeva il ruolo di tutor nei confronti del tirocinante, e il tirocinio elaborativo ( detto anche indiretto), sotto la direzione di un docente supervisore esperto in didattica disciplinare,  in cui i futuri docenti discutevano criticamente, analizzando e rielaborando i percorsi didattici osservati in classe, di tutte le dinamiche poste in essere all’interno delle classi, dinamiche che si determinavano all’interno delle attività didattiche quotidiane nelle classi osservate. Ed essendo questo un lavoro di osservazione reale e diretta, poteva servire, e in effetti serviva, da materia prima per la rielaborazione critica dell’attività di classe, cioè di tutti gli aspetti, didattici, pedagogici, psicologici, relazionali, prossemici e della valutazione. Vale a dire un patrimonio di materiali autentici su cui i futuri docenti potevano strutturare la loro formazione reale. Tale formazione prevedeva alla fine del percorso, un’assunzione di responsabilità con la classe osservata: ogni tirocinante coronava la fine del suo percorso con lo svolgimento di una unità di apprendimento rivolta alla classe osservata, durante la quale il tirocinante avrebbe messo in atto quanto appreso fino a quel momento.

A parte le critiche, talvolta giustificate, rivolte a alcuni insegnamenti generalmente universitari che mostravano di essere dei doppioni rispetto agli stessi insegnamenti seguiti nel percorso di laurea, le SSIS rispondevano efficacemente alla loro finalità: preparare i futuri docenti al non facile compito di insegnanti, direttamente sul posto, cioè nelle scuole,  e attraverso lo studio e la pratica di tutte le attività connesse al ruolo docente.
Non saprei dire quanto di tutto quel patrimonio sia rimasto nell’attuale percorso del TFA, che oltretutto viene svolto all’interno dei due anni del corso di laurea magistrale e sicuramente con un numero di ore molto ridotto. Rimane indubbiamente provato che i docenti, dopo il percorso delle SSIS, acquisivano una esperienza didattica in grado di eliminare quel grande gap esistente tra chi , dopo il conseguimento della laurea, andava direttamente ad insegnare, magari dopo un concorso nazionale o regionale, senza alcuna esperienza sul campo, e chi invece andava ad insegnare dopo avere fatto questo percorso di formazione così impegnativo ma anche professionalmente efficace.
Osservare tutto ciò è facile, basti vedere nelle scuole le modalità con cui si relazionano con le classi i docenti formati e i docenti non formati. Poiché, ahimé, come spesso avviene in Italia, ci sono sempre diversi canali di ingresso anche nel mondo della scuola: quelli che arrivano attrezzati a proprie spese e con grande fatica e preparazione e quelli invece che arrivano direttamente dopo i concorsi a cattedra, magari bravissimi per quanto riguarda gli specifici disciplinari, ma senza alcuna preparazione nel merito della didattica.
Perché, e questo ogni docente esperto lo sa molto bene, un conto è sapere e un conto è sapere insegnare quello che si sa. Non sempre tutto quello che si sa si riesce ad insegnare, ma tutto quello che si sa insegnare bene, costituirà il patrimonio comune e duraturo della nostra società.

Tornando quindi alla nota ministeriale di cui sopra, lo stesso linguaggio del documento, confuso e difficile anche nelle strutture sintattiche, non prelude a buoni ed efficaci risultati, perché si vede chiaramente, come ha ben dimostrato l’efficace articolo di Rita Bortone http://www.scuolaeamministrazione.it/it/category/rubriche/didattica-e-organizzazione/

dall’inequivocabile sottotitolo: Disonestà di lingua, vuoto di idee o che altro?,  manca una vera e chiara idea di formazione. Ma ciò che soprattutto manca è la volontà di non investire  risorse finanziarie  reali nella scuola , in mancanza delle quali qualsiasi discorso risulta davvero privo di sostanza. E anche  molto deprimente.  

domenica 11 gennaio 2015

Recensione del libro di Bianca Mannu "I racconti di Bianca"

Recensione del libro di Bianca Mannu I racconti di Bianca- Edizione Thoth- Catanzaro, 2014 pagg.110 Euro 10,00

Questa ultima opera di Bianca Mannu, ultima in ordine di tempo,  è una raccolta di sei racconti.
Si tratta di quattro racconti in prima persona, un racconto in forma epistolare e l’ultimo, che chiude la serie, in forma di apparente oggettività tramite un narratore esterno.
Le sei donne protagoniste dei racconti scandagliano in profondità la consapevolezza delle rispettive esistenze, in situazioni diverse,  tutte legate dall'angoscia della quotidianità che incalza le loro vite. Fiela, Mimma, Lina, l'io narrante del quarto racconto, Aba, Marta, si riconducono ad un’unica donna, all’archetipo di donna che si  macchia di una gravissima  colpa difficilmente assolvibile: avere squarciato il velo che ricopre la propria vita e avere svelato ciò che ogni donna in realtà  rappresenta per sé.  Scannerizzando le proprie vite, apparentemente diverse, le sei protagoniste ricercano e trovano il nucleo essenziale del proprio esistere. E fatalmente si accorgono  di non esistere o meglio di esistere solo in quanto “che cosa” e non in quanto “chi”.  E questo preciso e nudo sentimento del proprio io, rivelando la mancanza del “ perché “ della propria condizione, le precipita in un’angoscia crudele senza alcuna possibile via di fuga. Persino nei pensieri caotici e infantili di Fiela, protagonista del primo racconto, tale angoscia risulta essere l’elemento cardine che tiene unite tutte le personalità schizofreniche della giovane protagonista.
" Un tipo col camice bianco e con una specie di fionda infilata a collana sul collo, assicura che mi chiamo Giuseppa Antonia Bisolfa, nata, mi pare, a Zerfaliu nel 1950 (ma io non mi ricordo e dunque non confermo) da una certa Antonia Palitta del luogo e da Pietro Bisolfa di lugo di Romagna, persone e luoghi che non credo di avere mai sentito nominare e di cui non ricordo neppure 
un'ombra ". 
Questo l' incipit del primo racconto che con  puntigliosità e  precisione maniacale per definire e contornare luoghi e persone, introduce il lettore nelle visioni schizoidi di Fiela che tenta di districarsi attraverso il labirinto delle  molteplici sue allucinazioni alla ricerca di un bandolo che la riconduca al senso della sua esistenza.
I racconti procedono per tesi e argomentazioni e conferiscono allo sviluppo narrativo  quasi l’andamento di dimostrazioni filosofiche atte però a non dare  risposte ma a complicare le domande esistenziali. Lo stile è quello peculiare di Bianca Mannu: una prosa aulica, raffinatissima e accurata nelle scelte lessicali. Il lettore non è adescato dall’arte della scrittrice, ma invitato alla sua tavola a gustare insieme a lei i piatti  di una raffinata e sapiente espressione letteraria.