domenica 31 luglio 2016

Vuoi chattare con me?


                                                                La foto viene da qui

Sempre più spesso mi succede che, aprendo la mia posta elettronica, trovi dei messaggi con questo oggetto: Roberto è il tuo smart macht. Dagli un’occhiata.
Se, incuriosita, guardo,  mi appare un’immagine di un uomo, tra i 60 e i 70 anni e sul lato destro della sua foto la frase Roberto vuole chattare con te oppure Roberto cerca donne tra i 50 e i 70 anni, oppure ancora solo una frase generica del tipo: ciao, ti va di chattare?, o infine nulla. Foto e basta.
Tutto ciò mi porta a fare riflessioni che spaziano tra il chiedermi cosa cerchi Roberto  da donne tra i cinquanta e i settanta anni e che cosa pensa di trovare in questa sua spasmodica ricerca.
Capisco i cinquanta: parecchie star della TV si profondono in affermazioni rincuoranti e rassicuranti, soprattutto per se stesse: la donna a cinquanta  anni, dicono.  è ancora un fiore, nel pieno della sua giovinezza, del suo charme, della sua vitalità sessuale.
Ma a settanta? Cosa si aspetta un uomo da una donna di settanta anni?
E poi perché una settantenne che, si presume, abbia una famiglia, dei figli, dei nipoti, e per il carico d’età non sia più suscettibile agli allettamenti di sconosciuti, per lo meno se è riuscita a tesaurizzare le sue esperienze in fatto di uomini, debba proprio andare ad impiegare il suo tempo con un Roberto sessantasettenne o , non so, un Giorgio sessantanovenne? Per parlare di cosa?
Mi ricordo che, intorno alla metà degli anni ’90, quando questo genere di comunicazioni era una  novità , si entrava in una chat room e lì si trovavano numerosi perditempo che  scambiavano frasi del tipo: quanti anni hai, come sei vestita, che lavoro fai e altri particolari che potete immaginare, spingendo la propria curiosità fino al limite della decenza. In genere erano tutti giovani magari un po’ frustrati.  Ma giovani.
Adesso la rete è appannaggio di tutti, anche dei novantenni. I quali, per carità, possono saggiare la propria abilità con questi media e magari averne grande soddisfazioni, per lo meno in termini di svago o di cultura.
Ma mi piacerebbe capire cosa cercano tutte queste persone a, che possiamo realisticamente definire anziane, nella ricerca di contatti in rete.
Se gli va bene, presumo possano trovare qualche signorina che avrà i suoi buoni motivi per lanciarsi in uno scambio intellettual-chic con un uomo di sessantacinque-settantanni.
Questo lo presumo io, naturalmente.
Ma mi do un certo beneficio d’inventario. 
Capisco un po’ meno il sessanta-settantenne che cerca donne coetanee. Di cosa possono parlare in chat?
Mi figuro conversazioni sulla interpretazione figurale della Divina Commedia o sulla kantiana critica del giudizio. O altre cose similari. 
Poi ci sono anche degli annunci di uomini relativamente giovani che cercano di chattare con donne tra i sessanta e i settanta anni. Ammesso che le signore in questione rispondano, cosa direbbero  loro? 
Mi sorge il dubbio che tutto questo possa essere un’ennesima trovata della rete, per sollecitare e incrementare la partecipazione dell’utenza per ammannire, durante le chattate, vagoni di pubblicità.
Perché altrimenti, come si spiegherebbe questo reiterato interesse, da parte della stessa rete, che periodicamente continua ad inviare, senza sosta alcuna e senza scoraggiamenti di sorta, ulteriori altri avvisi? Con un unico messaggio: Roberto o Giorgio, o Federico o Andrea o chiunque altro, sta aspettando la tua risposta.
Io vorrei dire a questa pletora di uomini, se esistono nella realtà: fatevene una ragione, non avrete mai risposte. Almeno è quello che mi piacerebbe avvenisse.
Mi è lecito a questo punto pensare che ancora questo Roberto, o come cavolo si chiamino tutti gli altri, non abbiano trovato il posto dove meritano di andare e, in questa speranza, con un ultimo disperato click, continuerò a cestinare le loro richieste.
E questa la chiamano comunicazione.

lunedì 25 luglio 2016

Che me ne faccio del latino?

Nella Repubblica di domenica 17 luglio 2016, un articolo di Mariapia Veladiano ”Quella scelta al ribasso che alla lunga non paga”, fa riflettere i lettori sul calo di qualità dei licei italiani dopo la riforma che ha introdotto, nei licei scientifici, l’abolizione del latino come insegnamento curricolare, a favore di altri insegnamenti dimensionati più sugli aspetti tecnico-scientifici che su quelli umanistici. La Veladiano conclude la sua analisi dicendo che una ricerca di maggiore “leggerezza” della scuola italiana non può prescindere dalla qualità dei contenuti disciplinari. E in particolare afferma “ qui viene da pensare che non sia ancora avvenuta nella didattica del latino una rivoluzione come quella che ha felicemente rivoluzionato la didattica delle lingue moderne”.
Io vorrei prendere spunto proprio da quest’ultima affermazione per analizzare cosa si è fatto nella scuola e in particolare nei licei, da una ventina d’anni a questa parte a proposito dell’insegnamento del latino e del perché, a mio avviso, ci sia stato un vistoso spostamento degli studenti italiani, prima dai tecnici verso i licei e poi dai licei tradizionali a quelli riformati.
Inizio da quest’ultima questione. 
L’esodo che abbiamo conosciuto dagli istituti tecnici verso i licei, inizia intorno più o meno alla fine degli anni novanta, quando il diploma rilasciato a conclusione del corso di studi tecnici e professionali, non permetteva più l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, così come era avvenuto tra gli anni ’70 e ’80, quando ancora la crisi economica non si era abbattuta con violenza sulle nostre attività industriali e aziendali.
Il diploma rilasciato dagli istituti tecnici, che era considerato, nella seconda metà del secolo scorso, una qualifica abbastanza importante, testimone effettivo di una competenza teorica e pratica  rispondente ai bisogni del mercato del lavoro, con il precipitare della nostra economia, perse progressivamente importanza poiché non più spendibile né nell’immediato né nel futuro.
Pertanto, una parte degli studenti che fino ad allora afferiva a questa tipologia di istituti, ritenne di dovere completare la propria formazione con una qualifica maggiore attraverso un regolare corso di studi universitari e il conseguente diploma di laurea; un’altra parte, forse la più consistente, abbandonò ogni velleità di ricerca di lavoro in linea con la propria qualifica e iniziò a cercare un lavoro qualsiasi, purché retribuito.
Indipendentemente dalla congruenza tra le preferenze personali e le scelte del corso di studi medi superiori, una buona parte di giovani continuò il proprio percorso formativo negli istituti tecnici, perché lo sbarramento nei licei, rappresentato dalla consistenza oraria dell’insegnamento delle materie umanistiche, veniva ritenuto sia troppo difficile sia non efficace nella prospettiva di lavoro.
E’ avvenuto che tali istituti tecnici e ancor più gli istituti professionali, avendo perduto la loro finalità formativa immediatamente spendibile, prestarono il fianco ad una svalutazione di quei corsi di studi in senso stretto e ad una maggiore praticabilità in senso lato da parte di quegli studenti che in un modo o nell’altro pensavano di dovere concludere col diploma di scuola media superiore la loro formazione scolastica.

Ed è a questo punto allora che una certa parte di studenti, magari sollecitati dalle famiglie che volevano a tutti i costi per i propri figli un diploma di qualità, iniziano a cambiare rotta, cercando nella frequenza dei licei quello status sociale e formativo che ormai scarseggiava negli altri istituti superiori. Ma qui naturalmente il barrage ai licei scientifici era costituito dallo studio del latino. L’insegnamento del latino in questi licei, non si è mai caratterizzato con un approccio alla lingua e alla cultura diverso da quello posto in essere nel liceo classico.
Diciamo che il curricolo caratterizzante del percorso liceale è stato centrato su due aspetti essenziali: l’insegnamento della lingua latina che, almeno nell’intenzione del legislatore, doveva essere finalizzata alla lettura diretta dei classici e lo studio della civiltà latina attraverso percorsi antologici.
Forse solo una questione di quota oraria dedicata al latino costituiva, di fatto, la differenza tra classico e scientifico. Meno preponderante è stata invece la quota-ore nei licei delle scienze umane e nel liceo linguistico, dove pure si insegna questa materia.
Ogni docente di latino sa quanto sia ostico il percorso di lingua e grammatica per gli studenti, basti, per questo, vedere gli esiti finali quadrimestrali della maggior parte di essi, anche se , di fatto, alla fine dell’anno, motu pede, molti studenti vengono ugualmente promossi alla classe successiva.
Ma quanto formativo rimane questo percorso? A detta degli studenti il latino è una materia inutile che fa perdere tempo, che costringe a spremersi le meningi in un esercizio tanto inefficace quanto vano, del quale molti di loro non afferrano la necessità.
A questo punto allora la domanda che si impone è: ma perchè iscriversi al liceo? Perché gli studenti non scelgono altri percorsi più consoni alla loro disposizione mentale e alle loro preferenze? 

Da una parte l’istituzione-scuola ha dato una risposta molto semplicistica e squalificante abolendo tout court il latino da alcuni indirizzi del liceo scientifico, con conseguente e  graduale svuotamento e svilimento della strutturazione generale di quell’idea di liceo, dall’altra non operando una vera e propria rivoluzione nella didattica del latino, di cui parla la Veladiano.
Sarebbe come dire che , per evitare gli incidenti automobilistici, dovessimo abolire le auto e andare tutti a piedi.

Ma in che modo avrebbe potuto darsi questa rivoluzione?
E’ questo il problema più spinoso e più difficile da affrontare e che , a mio avviso, né i docenti, né l’istituzione, vogliono e sanno affrontare veramente. Perché? Quali sono gli impedimenti che frenano tale rivoluzione? Uno solo e grandissimo forse: il cambiamento di mentalità e di prospettiva, il mettersi in gioco ogni giorno sperimentando, sulla base degli studi di didattica che pure sono stati fatti con grande perizia e coraggio da alcuni docenti in questi ultimi vent’anni ( cito qui solo una delle tante risorse disponibili in rete ).
Studi che non sono “aria fritta” per dirla con l’espressione che spesso viene utilizzata  da molte parti interessate a proposito della formazione. 
Ma soprattutto, mi chiedo,  perché i percorsi di formazione dei docenti sono così tanto trascurati? Eppure le istituzioni preposte hanno investito risorse umane ed economiche veramente cospicue in questi ultimi anni, ma la ricaduta è sempre, inesorabilmente, drammaticamente pari allo zero.
Qualcosa non va bene. 
Più di qualcosa: è l’idea stessa di scuola che lo stato non potenzia, investendo male  e  solo attraverso quei pezzettini, quei contentini, quei pannicelli caldi che sprecano solo risorse ma che non servono a nulla.

Altrimenti perché ancora oggi una buona parte dei docenti di latino si ostina a insegnare con protervia la declinazione di rosa-rosae, invece di presentare agli studenti quel grande, immenso e accattivante  patrimonio culturale rappresentato dalla lettura dei classici in una lingua che gli studenti possano comprendere? L’italiano, per esempio? E da lì partire per una riflessione a ritroso sulla cultura e sulla lingua che molte università straniere ci invidiano?
Per concludere, quindi, le “scorciatoie all’impegno”, di cui parla Mariapia Veladiano, non sono solo quelle degli studenti, ma di molti docenti e della scuola stessa che non è capace di ripensare se stessa nei termini di valorizzazione di ciò che c’è nel nostro patrimonio culturale, prima che nei termini di abolizione di ciò che è faticoso.


lunedì 11 luglio 2016

Apprendere ai tempi di internet: una sfida?



                                                                                     la foto viene da qui
Apprendere ai tempi di internet: una sfida?


Che l’apprendimento sia ormai per buona parte sganciato  dai luoghi istituzionali di riferimento,  imprescindibili per la mia  generazione , è un fatto assodato. Non si fa che ripetere questo concetto ad ogni occasione ufficiale e no, nei libri dedicati alla formazione dei docenti come anche nelle trasmissioni televisive , nei giornali divulgativi e in quelli di massa, perfino nei rotocalchi.
La scuola ha preso atto di ciò già da molto tempo, tanto è vero che quelle che fino a venti anni fa, nelle riviste specializzate, erano indicate con l’espressione nuove tecnologie informatiche  ora sono citate molto più semplicemente come tecnologie. L’uso di queste tecnologie, entrato come prassi assodata nella nostra vita quotidiana e nel nostro lavoro, è una di quelle cose che  molti di noi non avrebbero mai immaginato di potere usare in un passato anche molto recente.
Oggi , pensare di farne a meno, è una possibilità che non sfiora la mente di nessuno: comunichiamo, lavoriamo, ci divertiamo, viaggiamo, ci incontriamo, apprendiamo con internet. E se qualche volta , per un guasto improvviso del nostro pc o del nostro cellulare, siamo costretti a farne a meno, ci sentiamo sperduti e stranieri nello stesso mondo di cui poco prima eravamo parte integrante.
E’ dunque conseguente che, massimamente nell’ambito dell’apprendimento scolastico, di internet non si possa più fare a meno.
Tanta letteratura esistente in merito, ci dice come muoverci con queste tecnologie, come struttuare lezioni e Unità di apprendimento, come rendere accattivante e partecipativa una lezione con la LIM, come rendere gli studenti attori principali del loro stesso apprendimento.
Chi   di noi docenti ha fatto l’esperienza di strutturare la propria attività didattica affidandone una parte o tutta alla costruzione collettiva dell’apprendimento da parte degli studenti nei laboratori informatici, sa , per esperienza, quanto tempo ci vuole perché lo studente possa rendersi conto di quali sono i suoi obiettivi, di come li deve perseguire e in che modo deve accedere alla rete per raccogliere, tra tutte le informazioni disponibili, quelle  funzionali al proprio compito.
Fino a dieci anni fa, si parlava di Webquest, in cui , oltre alle indicazioni di carattere contenutistico, venivano forniti anche le procedure da seguire per, eventualmente, risolvere un compito o fare una ricerca (per una idea in merito rimando al sito: http://www.edscuola.it/archivio/comprensivi/webquest.htm).
Prima ancora che introdurre dei modelli di ricerca e affidarne l’utilizzo agli studenti, credo vadano fatte alcune considerazioni : siamo proprio sicuri che lo studente sappia cercare e discernere nella rete ciò che gli serve? E tra tutte le informazioni che gli servono, siamo sicuri che egli abbia la capacità di reperire ciò che è più funzionale e scartare ciò che non lo è affatto? O ciò che sembra funzionale, ma che poi consente solo di perdersi in un eccesso di informazioni che sembrano tutte importanti?
Oggi l’insegnante è gravato da un compito di docenza ben più grave di quello di un suo collega di venti o trenta anni fa. L’accesso facilitato alle informazioni può permettere,  a chi non ha strumenti adeguati , di perdersi nei labirinti della rete.
Il concetto stesso di “apprendimento” ,una volta affidato alla conoscenza dei contenuti e alla competenza del loro uso per elaborare una personale cultura, è stato completamente rivoluzionato dall’introduzione del Web come imprescindibile strumento di studio.
Allo studente che si accosta ad un compito, non viene più richiesta una “conoscenza semplice” e una competenza circoscritta, per il fatto che entrambe le cose non sono efficaci né per elaborare una conoscenza in breve tempo,  ad es. nell’arco di un quadrimestre scolastico, né  in tempi lunghi, ad es. alla fine del corso degli studi intrapresi.
E dunque , cosa si richiede allo studente? Se il suo obiettivo è la conoscenza delle attività svolte durante il corso dell’anno, finalizzata al superamento dell’esame di stato o al passaggio alla classe successiva,  il successo conseguito può essere anche fallimentare ai fini di ciò che servirà, allo stesso studente, una volta completati gli studi, per la ricerca di un’attività lavorativa.
Nella nostra società, infatti, quasi mai avviene ciò che avveniva fino a quaranta o anche trent’anni fa: svolgere effettivamente un lavoro in linea con il proprio corso di studi.
I giovani oggi si devono inventare il lavoro, e anche la semplice ricerca richiede duttilità, capacità di individuare tra le tante strade percorribili, ancorché lontane dalla propria specializzazione,  quella che potrà permettere di capire quali potranno essere gli sviluppi futuri in linea con i propri interessi, con ciò che si sa fare,  con ciò che si potrebbe imparare ancora a fare, con la propria creatività. In altre parole: la lungimiranza e la pianificazione. Quelle capacità che fanno sì che un giovane possa intravedere, in mezzo ai labirinti caotici delle attività possibili, frammentate e complesse del presente, la propria attività futura, in modo  che questa possa veramente essere in linea non solo con le aspettative, ma soprattutto con le proprie capacità.
Credo che questa capacità debba essere appresa a scuola. Anzi, credo che questa sia la conoscenza principale che serve ad uno studente, verso la quale  dovrebbe essere indirizzato il processo di insegnamento dei docenti.
Sapere scegliere tra i labirinti informatici, le informazioni, poche e circoscritte, ma mirate a ciò che serve veramente, è questa  una competenza a cui dovrebbe essere orientato ogni insegnamento disciplinare. In questo senso oggi è molto più complesso il mestiere del docente, poiché quest’ultimo fa fatica ad abbandonare i paradigmi appresi  nella lunga tradizione didattica del nostro paese. I quali, in modo pervicace ed obsoleto, vengono posti in essere continuamente dalle nostre istituzioni, che, se da una parte propongono nuovi orientamenti curricolari,  dall’altra fanno fatica ad abbandonare il consueto, il tradizionale, blandendo in qualche modo il docente e confortandolo nelle sue metodologie, anziché sollecitarlo verso nuove visioni didattiche. Le quali, sono probabilmente sì meno rassicuranti ma , tuttavia,  necessitati dai tempi.