lunedì 19 novembre 2018





Raccontare e raccontarsi: laboratorio di scrittura creativa

Docente: Maria Rosa Giannalia


In questo laboratorio, chiunque abbia la voglia di scrivere di se stesso o strutturare un racconto breve, potrà imparare a farlo.
Il laboratorio è destinato a tutti coloro che hanno sempre desiderato misurarsi con questa forma espressiva per comunicare agli altri il proprio immaginario e dare forma ai propri desideri del raccontare a parole.

Il laboratorio si articola in 12 incontri di due ore ciascuno in un orario comodo anche per chi lavora: dalle 18.00 alle 20.00, all’interno degli accoglienti locali dell’associazione Maestr’ale di Cagliari in via Sonnino n. 65, che già da diverso tempo ci ospita.
Il calendario si può visualizzare qui di seguito.

Cosa intendiamo quando parliamo di scrittura creativa?

Definire precisamente cosa si intende con l’espressione “scrittura creativa” non è semplice. Possiamo qui orientativamente dire che la scrittura creativa è una particolare forma di scrittura che ha come scopo l’invenzione delle immagini per parole, destinata ad un pubblico di lettori che possano fruirne per diletto personale.
Nel corso del nostro laboratorio impareremo a strutturare , progettare e scrivere la nostra autobiografia a partire da un oggetto evocativo della nostra infanzia o adolescenza, oppure da una fotografia. Partendo da questi oggetti inizieremo a rievocare, immaginare e sistemare letterariamente i nostri ricordi per renderli fruibili e interessanti per i lettori.
Impareremo anche a strutturare , progettare e scrivere un racconto attraverso la teoria e la prassi della scrittura letteraria.
Il laboratorio è suddiviso in tre momenti sequenziali ed integrati tra loro, corrispondenti alla durata di tre mesi.


Primo momento:

Inventare

Durante il primo mese tratteremo dell’invenzione di una storia: anche quando desideriamo raccontare fatti realmente accaduti, il racconto esige una trasformazione letteraria: trasferire i fatti di cui si fa esperienza in una forma che possa accattivare il lettore e inchiodarlo alla lettura dalla prima all’ultima parola. Questa possibilità ci è data proprio dalla scrittura letteraria che non è una scrittura per informare né per comunicare notizie e fatti accaduti, ma per emozionare e coinvolgere sentimentalmente il lettore e suscitarne l’empatia. In un racconto si inventano: il paesaggio, l’ambiente , i personaggi, gli avvenimenti, la trama.


Secondo momento:

Disporre

La disposizione di tutti gli elementi succitati assume un’importanza grandissima nella costruzione di un testo. Chi scrive deve decidere sulla forma da dare al racconto: quali avvenimenti presentare prima e quali dopo, in quali tempi collocare i personaggi e come intrecciarne le relazioni, quali espedienti di trama utilizzare ( colpo di scena, agnizione dell’identità di uno o più personaggi, flashback…).


Terzo momento:

Quale stile adoperare

La scelta dello stile dipende non solo da ciò che si vuole comunicare ma da come lo si vuol comunicare. Scegliere le parole, il registro linguistico, la punteggiatura, dà l’opportunità di rendere interessante il testo per il lettore, di coinvolgerlo intimamente nella narrazione sollecitandone l’identificazione con i personaggi e con la storia. Gli elementi di stile si avvalgono della retorica, vale a dire delle forme del comunicare, la cui efficacia è riscontrabile fin dai primordi della letteratura e di cui gli scrittori classici  sono i maestri. Per questo motivo, durante tutta la durata del laboratorio, prenderemo in esame dei testi esemplari tratti dalle opere dei più grandi maestri classici e moderni per analizzare le tecniche e , possibilmente, imparare da loro.


  
Calendario degli incontri


Mercoledì 30 gennaio    2019
Ore 18.00-20.00

Via Sonnino  n.65 Cagliari
Mercoledì 6 febbraio     2019

Ore 18.00-20.00

Via Sonnino  n.65 Cagliari
Mercoledì 13 febbraio   2019

Ore 18.00-20.00

Via Sonnino  n.65 Cagliari
Mercoledì 20 febbraio   2019

Ore 18.00-20.00

Via Sonnino  n.65 Cagliari
Mercoledì 27 febbraio   2019

Ore 18.00-20.00

Via Sonnino  n.65 Cagliari
Mercoledì 6 marzo        2019

Ore 18.00-20.00

Via Sonnino  n.65 Cagliari
Mercoledì 13 marzo      2019

Ore 18.00-20.00

Via Sonnino  n.65 Cagliari
Mercoledì 20 marzo      2019

Ore 18.00-20.00

Via Sonnino  n.65 Cagliari
Mercoledì 27 marzo      2019

Ore 18.00-20.00

Via Sonnino  n.65 Cagliari
Mercoledì 3 aprile         2019

Ore 18.00-20.00

Via Sonnino  n.65 Cagliari
Mercoledì  10 aprile      2019
Ore 18.00-20.00

Via Sonnino  n.65 Cagliari
Mercoledì 17 aprile       2019
Ore 18.00-20.00

Via Sonnino  n.65 Cagliari




I partecipanti saranno seguiti, per tutta la durata del corso, dalla docente che curerà la comunicazione e l’interazione  online attraverso la creazione di una mailinglist, una chat dedicata e un gruppo chiuso in facebook.


Dove ?

Il corso avrà luogo presso i locali dell’associazione  Maestr’Ale in via Sonnino n. 65 a Cagliari


Quanto costa?

Il corso ha un costo di soli 90 euro complessivi che copriranno, a titolo di contributo liberale alle spese, i costi dell’ attivazione e della gestione on-line. La cifra indicata si verserà in un’unica soluzione anticipata all’atto dell’iscrizione.

Per informazioni rivolgersi telefonicamente al n. 3493235986
oppure scrivere al seguente indirizzo di p.e. maria.giannalia@tiscali.it


mercoledì 1 agosto 2018

La sagra della ciliegia: la Sicilia tra storia, profumi e sapori.


di Rosetta Martorana.
Tutte le foto sono di proprietà della sig.ra Martorana






  




S. ALFIO: 



Anche quest’anno ( 30 giugno e 1 luglio )  si è svolta la sagra della ciliegia nella cittadina di s. Alfio scegliendo il suo nucleo principale nella Piazza Duomo, dove solitamente vengono allestiti diversi stands per la degustazione e quindi l’acquisto dei prodotti della gastronomia siciliana. Lungo la vicina via Coviello prende posto la famosa infiorata che, quest’anno, è giunta alla sua VIII edizione. Insieme all’infiorata di Noto e di Genzano (Roma) quella di S. Alfio risulta tra le più belle d’Italia. Nell’agricoltura catanese la Ciliegia dell’Etna occupa un posto di eccellenza a marchio DOP e viene prodotta in molti comuni vicini al vulcano estendendosi dalla costa fino ai 1600 metri d’altitudine.
Il paese di S. Alfio deve il suo nome alla tradizione religiosa dei tre fratelli, Alfio, Filadelfo e Cirino che furono deportati e condannati a morte in Sicilia.
Nativi di Vaste in Puglia, nella prima metà del III secolo, furono vittime delle persecuzioni contro i cristiani che li videro protagonisti di un viaggio avventuroso e mitico che toccò diversi centri come Roma, Pozzuoli, Messina, Taormina, Lentini, Trecastagni (questo centro nella sua toponimia ricorda i tre martiri “TRES CASTI AGNI”), Catania ed infine nuovamente  Lentini dove il ministro Tertullo li condannò a morte; di questa cittadina sono infatti i santi patroni.
Nel passato il paese di S. Alfio era una delle sette “torri” della contea di Mascali e solo nel 1923 diventò un comune autonomo; vantò una florida attività agricola e commerciale grazie alla produzione  di un vino scuro e ad alto tasso alcolico che piaceva ai Cavalieri di Malta.
Relativamente al Duomo di S. Alfio nel XVII secolo ebbe inizio l’edificazione della prima chiesa che poi sarà incorporata in quella attuale.  Nel rifacimento della facciata fu ingrandita la piazzetta anche per facilitare l’uscita e l’entrata della “vara” dei tre santi e  furono aggiunte le due navate laterali portando a tre le porte d’accesso.
I lavori di completamento e modifica, realizzati nel XVIII secolo, videro la  partecipazione della popolazione che diede il suo contributo lavorativo gratuitamente. La costruzione della parte superiore fu completata nel 1867, come viene riportato in una lapide commemorativa.     
Nel 1894 iniziarono i lavori di completamento all’interno con gli altari in marmo, le balaustre, la crociera centrale del pavimento, il pulpito e la pittura del trionfo dei tre Santi.
 La campana del campanile “Maria” è considerata la più grande della Sicilia, pesa 45 KG e porta l’immagine dei tre Santi in bassorilievo.
A S. Alfio, oltre al duomo, troviamo la chiesa del Calvario che risale al1878 e che fu edificata per il culto del venerdì santo e la chiesa di Nucifori che sorge nell’omonimo quartiere. Fu progettata nel 1957 e conserva al suo interno il busto della madonna di Tindari.

CASTAGNO DEI CENTO CAVALLI


Nel bosco di Carpineto sito nel Comune di S.Alfio si trova il “castagno dei cento cavalli” di m. 22 di diametro e m.22 d’altezza; a lui è legata una leggenda  che vede protagonista la regina napoletana Giovanna I d’Angiò (1343-1381) che fu coinvolta in una battuta di caccia con i suoi 100 cavalieri, ma furono tutti sorpresi da un forte e improvviso temporale che li costrinse a riparare sotto le chiome del castagno fino alla conclusione del temporale. 
Fonti storiche ben accreditate smentirono la presenza della regina Giovanna d’Angiò in Sicilia e cosi la fervida fantasia della tradizione popolare la rimpiazzò con la regina Giovanna d’Aragona o con l’imperatrice Isabella d’Inghilterra, aggiungendo delle note piccanti alla vicenda:  la bella sovrana avrebbe colà trascorso una piacevole notte amorosa con i 100 cavalieri, durante il temporale.
Entrando nell’ambito storico, vero e proprio, abbiamo notizie documentate di questo albero: infatti Antonio Filoteo ci riporta alcune notizie nel lontano 1611 e Pietro Carrera in una sua opera di botanica del 1636 riferisce che poteva riparare 30 cavalli con la sua ombra.
Lo studioso Giuseppe Recupero portò avanti la tesi dell’unicità della pianta e nel 1766 documentò lo stato d’abbandono della casa posta sotto le fronde del castagno.
Il 21 agosto 1745 fu pubblicato il primo atto del “Tribunale dell’Ordine del Real Patrimonio di Sicilia” con cui si tutelava istituzionalmente il Castagno dei cento cavalli ed il vicino Castagno-Nave. Questo è il primo documento in assoluto di TUTELA AMBIENTALE IN SICILIA.
La trasmissione SUPER QAURK di Piero Angela ha studiato il DNA dei vari ceppi ed ha concluso che è unico e che il castagno potrebbe avere la circonferenza più grande del mondo.
Tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre del 2006 l’UNESCO dichiara l’albero;” MONUMENTO MESSAGGERO DI PACE”.
Quest’ albero ha poi un fascino quasi mistico e surreale perché, grazie al gioco di luci e alla conformazione della corteccia, si possono individuare delle figure come l’orso, il cervo, il  coccodrillo, il viso di Gesù, il profilo di un viso che bacia Gesù,  la locusta e tante altre che arricchiscono la conoscenza di questo fenomeno naturale e ne risaltano il profilo artistico.     

MILO (Il buen retiro di Lucio Dalla)

Nelle zone viciniori ci sono altri centri degni di nota, come Milo, un paese ricco di storia e tradizione. Giovanni d’Aragona, fratello del re Pietro II, lo aveva eletto come residenza estiva e nel 1340 fece costruire la chiesa di S. Andrea attorno alla quale si è sviluppato un centro abitato in piena armonia con il paesaggio circostante.
Milo , essendo a 750 m. s.l.m. gode di un clima fresco d’estate e di un vasto panorama che si può godere dal belvedere antistante la chiesa di S. Andrea.          
Come tutti i paesi etnei anche Milo vanta una produzione agricola basata sui vini corposi di questa zona che annovera dei prodotti d’eccellenza come quelli dell’azienda vitivinicola “Barone di Villagrande”. Nel 1968 venne riconosciuta la D.O.C. ETNA, la prima Denominazione di Origine Controllata in Sicilia. Il disciplinare fu scritto da Carlo Nicolosi Asmundo, docente universitario nonché genitore dell’attuale barone titolare dell’azienda.
Nelle campagne di Milo il cantante Lucio Dalla, innamorato del paesaggio e della posizione del paese, costruì una villa dove si rifugiava e dove era ispirato per le sue composizioni.
A due chilometri da Milo si trova Finazzo con le sue caratteristiche segherie, vista l’abbondanza dei boschi che assicurò lavoro a tanti boscaioli e artigiani del legno. Un’altra risorsa economica del passato furono le “niviere” che permisero il commercio della neve particolarmente nel periodo estivo.
Nel momento in cui ci si mette in viaggio per conoscere ed esplorare nuovi posti ci si rende conto delle bellezze e delle ricchezze culturali e tradizionali che offre la nostra terra ed in modo particolare la Sicilia per noi Siciliani e non.
L’ “Accademia”, con la direzione di Bartolo Sammartino e l’ organizzazione  di Carmelo Impellizzeri, offre  sempre l’opportunità di cogliere un “quid” in più ; per questo infatti gli itinerari da loro organizzati sono definiti “I LUOGHI DELL’ANIMA”.



 




giovedì 7 giugno 2018

Píntame angelitos negros


Poche volte mi è capitato di ascoltare  con passione e commozione un testo così bello come quello che stamattina ho sentito nell'interpretazione di Margarita Medina, un'allieva del corso di scrittura autobiografica per stranieri presso l'associazione Arcoiris di Quartu Sant'Elena. Margarita è una donna minuta, timida  e con uno sguardo dolcissimo, ma quando ha iniziato a leggere la poesia si è infiammata di un vigore  scenico che ha prodotto in tutti noi un ammirato silenzio. I miei occhi sono andati per loro conto e lacrime di commozione mi hanno appannato lo sguardo. Non mi succede molto spesso, sia per l'età che preserva da banali meraviglie, sia per poesie troppo diffuse e per questo prive dello stupore della prima volta.

Tutti noi abbiamo ascoltato e apprezzato la canzone di Fausto Leali: Angeli neri, ma pochi di noi conoscono il testo intero e soprattutto l'autore di questa bella poesia:  si tratta di Andrés Eloy Blanco, poeta argentino, appartenente al gruppo venezuelano della generazione del '68, che scrisse questo testo  pubblicato nel 1958, 
Questa poesia si può ben considerare un inno contro la discriminazione razziale. E' molto conosciuta in tutti i paesi di lingua spagnola e il testo fu musicato da Manuel Alvarez Renterìa in un ritmo di bolero. Il cantante che ne interpretò lo spirito fu Manuel Infante e successivamente Antonio Machìn.
Canzone in lingia originale qui
Riporto qui il testo in lingua spagnola e la traduzione in italiano

Píntame angelitos negros 

di Andrés Eloy Blanco


¡Ah mundo! La negra Juana,
¡la mano que le pasó!
Se le murió su negrito,
sí, señor.

—Ay, compadrito del alma,
¡Tan sano que estaba el negro!
Yo no le acataba el pliegue,
yo no le miraba el hueso;
como yo me enflaquecía,
lo medía con mi cuerpo,
se me iba poniendo flaco
como yo me iba poniendo.
se me murió mi negrito;
dios lo tendría dispuesto;
ya lo tendrá colocao
como angelito de Cielo.
—Desengáñese, comadre,
que no hay angelitos negros.
Pintor de santos de alcoba,
pintor sin tierra en el pecho,
que cuando pintas tus santos
no te acuerdas de tu pueblo,
que cuando pintas tus Vírgenes
pintas angelitos bellos,
pero nunca te acordaste
de pintar un ángel negro.
Pintor nacido en mi tierra,
con el pincel extranjero,
pintor que sigues el rumbo
de tantos pintores viejos,
aunque la Virgen sea blanca,
píntame angelitos negros.
¿No hay un pintor que pintara
angelitos de mi pueblo?
Yo quiero angelitos blancos
con angelitos morenos.
Ángel de buena familia
no basta para mi cielo.
Si queda un pintor de santos,
si queda un pintor de cielos,
que haga el cielo de mi tierra,
con los tonos de mi pueblo,
con su ángel de perla fina,
con su ángel de medio pelo,
con sus ángeles catires,
con sus ángeles morenos,
con sus angelitos blancos,
con sus angelitos indios,
con sus angelitos negro,
que vayan comiendo mango
por las barriadas del cielo.


Traduzione

Ah! mondo, la nera Giovanna
ha avuto un brutto destino!
Il suo bimbo nero è morto.
Sì, signore.

-Ah, compare dell'anima,
così integro era il mio corpo nero!
Io non ho visto nel mio corpo 
i segni del disfacimento!
L'ho protetto col mio corpo,
ma mi stavo indebolendo,
mi stavo ammalando,
il mio bambino mi è morto!
Dio lo ha voluto con sé
e lo ha posto nel cielo
come un angelo.

-Non illuderti, comare,
ché non ci sono angeli neri!

Pittore di santi di camere da letto,
pittori di gente ricca e nobile,
quando dipingi i tuoi santi
non ti ricordi del tuo popolo,
quando dipingi le tue vergini,
dipingi angeli belli,
però non ti sei ricordato 
di dipingere angeli neri.

Non c'è un pittore che ha dipinto
angeli della mia terra?
Io voglio che ci siano angeli bianchi 
ma anche angeli neri.
Gli angeli di famiglie ricche
non sono sufficienti per il mio cielo.
Se rimane un pittore di santi,
se c'è un pittore del paradiso,
lasciagli dipingere il paradiso
con i colori della mia terra,
con i colori del mio popolo,
con i suoi angeli di perle,
con i suoi angeli dai capelli corti,
con i capelli biondi,
con i capelli scuri,
con i suoi angeli indios,
con i suoi angeli neri,
che vanno mangiando manghi
nelle strade del paradiso.

sabato 26 maggio 2018

Due Tragedie greche : Edipo a Colono ed Eracle

di Rosetta Martorana


Inizia con questo bel reportage e con le due recensioni che seguono, la collaborazione con Rosetta Martorana alla quale do il benvenuto mio e di tutti i lettori del mio blog per questa e per altre scritture di cui ci farà partecipi in queste pagine.




NOTIZIE  SUL TEATRO GRECO  DI  SIRACUSA  E  RECENSIONI  SULLE TRAGEDIE

Quest’anno ricorre il 54° festival del teatro greco di Siracusa, splendida città siciliana sulla costa ionica che è famosa per il parco archeologico della Neapolis che racchiude l’anfiteatro romano, il teatro greco e l’orecchio di Dionisio, una grotta scavata nel calcare a forma di orecchio umano.
L’Istituto Nazionale del Dramma Antico (INDA) a partire  dal 1914 inaugurò le annuali rappresentazioni di opere greche che, a parte le interruzioni legate alle vicende storiche come i conflitti mondiali, continuano ad oggi ad essere allestite con maestria e professionalità richiamando un pubblico internazionale che ,non solo gode dello spettacolo artistico, ma ammira le bellezze naturali e storiche di una città come Siracusa.
La prima fase di costruzione del teatro greco risale al V secolo a.C. e rifatto nel III secolo a.C. per subire delle trasformazioni in epoca romana. E’ stato documentato che la forma a semicerchio diventerà canonica alla fina del IV secolo a.C. in quanto prima aveva delle gradinate rettilinee. La forma a semicerchio era ed è a tutto vantaggio dell’acustica, di cui s’interessò il tiranno Gerone II al momento della ristrutturazione tra il 238 a.C. e il 215 a.C.
Secondo la tradizione greca l’attività teatrale era concessa a tutti i cittadini, anche ai più poveri, grazie al fondo istituzionale creato per questo tipo di attività (Theorikon). Durante la dominazione romana le attività teatrali persero d’importanza perché sostituite dagli spettacoli dei gladiatori.




Dalla fine degli anni “70” ho personalmente seguito, con la cadenza biennale e poi annuale , perché  così era organizzato il calendario delle rappresentazioni, le varie opere greche che si sono avvicendate, trasmettendo sempre delle forti sensazioni e dei profondi stati d’animo che ti trasportano nelle vicende narrate, nella psiche e nel pathos dei personaggi. Tutto questo immerso in un paesaggio naturale unico e di rara sensazione fisica e spirituale che raggiunge il suo culmine al momento del tramonto quando le luci sceniche si sostituiscono con dolcezza agli ultimi raggi solari. Chiunque dovrebbe provare l’atmosfera che vi si respira, particolarmente quando il vocio degli spettatori lascia lo spazio al silenzio che precede la recitazione.         






                                  Edipo a Colono di Sofocle



Prima di affrontare questa tragedia è necessario fare un accenno ad “ Edipo re “ che narra di un re amato dal popolo per il suo carisma, ma che nell’arco di un solo giorno conosce il suo drammatico passato che lo vede autore dell’assassinio del padre Laio e genitore di figli che sono frutto dell’ amore incestuoso con la madre Giocasta. Edipo, appresa la notizia del gravissimo atto di ybris di cui inconsapevolmente si era macchiato, si autopunisce accecandosi e lasciando la sua Tebe per andare in esilio ed espiare la colpa procuratagli dal Fato.
Edipo, cieco e mendicante, nel suo vagare, arriva nel bosco di Colono, accompagnato e guidato dalla figlia Antigone; un oracolo ha predetto che morirà a Colono. Il coro dei vecchi ateniesi in un primo momento cerca d’allontanarlo, ma mosso da pietà desiste. Ismene , l’altra figlia di Edipo, arriva ed annuncia la lotta dei fratelli Eteocle e Polinice per il dominio di Tebe. Viene rivelato l’oracolo da Ismene, in base al quale Edipo, vivo o morto, avrebbe salvato i suoi alleati; ecco perché essi avrebbero cercato il suo favore o lo avrebbero avuto in loro potere. Gli dei inviano un tuono improvviso come segno dell’imminente morte di Edipo.
La rappresentazione di “ Edipo a Colono” si svolge in una scenografia essenziale, in cui campeggia un busto maschile visto di schiena che alla fine sarà la tomba di Edipo e che vuole rappresentare l’umano che dà le spalle al presente ed il volto all’aldilà; gli attori indossano  degli abiti contemporanei per la continuità temporale del dramma della morte. L’allestimento teatrale rispetta fedelmente le caratteristiche dell’eroe, “avido di vendetta ed egoista”, vittima del Fato che lo vuole parricida e incestuoso; biasima gli dei, augura la morte fratricida ai figli Eteocle e Polinice, impreca e maledice ogni aspetto della vita. 
Si poteva correre il rischio di un “ happy ending” attraverso una “ interpretatio christiana” con esiti pacifici ed armoniosi, ma non è avvenuta nel rispetto dello stile sofocleo che alla fine conduce Antigone verso Tebe dove, tutti sappiamo, la fine che l’attende.
Il filo conduttore è la rivendicazione dell’innocenza, o meglio dell’incolpevolezza, di Edipo che è stato un “prescelto” degli dei che lo hanno condannato a vivere un ruolo altamente tragico.



                              Eracle  di Euripide

Mentre Eracle è impegnato nell’Ade a lottare contro Cerbero, il tiranno Lico gli ruba il trono di Tebe e decide di uccidere la di lui moglie (Megara), i figli ed il padre (Anfitrione). I Tebani implorano la salvezza dei condannati a morte e, quando ogni speranza sembra perduta, torna Eracle portando con sé Teseo, strappato al mondo dei morti. Eracle uccide il malvagio Lico, salvando i suoi familiari, ma la dea Era, per vendetta nei confronti di Anfitrione con cui aveva avuto una relazione, fa impazzire Eracle con l’intervento di Iris e Lissa, la quale personifica la rabbia. Eracle completamente folle uccide la moglie ed i figli salvando Anfitrione, solo per volontà di Atena. I corpi dei morti sono onorati dal padre Anfitrione e Teseo convince l’amico Eracle a purificarsi per il tramite della sopportazione della vita così piena di dolore. 
La scenografia di questa tragedia è caratterizzata da una grande parete frontale con le foto di persone defunte, mentre alla base ci sono delle tombe/lavacri con acque purificatrici dove si immergeranno Megara ed i figli prima di morire ed infine Eracle dietro suggerimento di Teseo.
Un’altra caratteristica di questa opera sofoclea sta nel continuo movimento dei corpi che culmina nel coro degli anziani tebani accompagnati ritmicamente dal suono dei tamburi  che dominano la scena dal punto di vista acustico. Il coro femminile ed i personaggi di Iris e Lissa si esprimono con una gestualità che ben esprime il pathos del momento. Le attrici, oltre alla recitazione dai toni alti e incisivi, ricorrono anche loro alla gestualità che è il “fil rouge” scenico.
Ciò che colpisce è l’interpretazione tutta al femminile (con l’eccezione del coro maschile) che ha dato un tocco particolare a tutta la rappresentazione. Infatti la regista Emma Dante, ha voluto sviluppare dell’eroe la fragilità che  lo rende paradossalmente virile in quanto fruitore di una forza interiore e non fisica e brutale. Abbandonando i panni di un semidio, Eracle è un essere umano: egli appartiene al mondo dei vivi e a quello dei morti da dove torna.
Euripide introduce la novità del posticipare la follia di Eracle alle sue “fatiche”, contrariamente a quanto avviene nella tradizione dove le prove a cui l’eroe si sottopone sono strumento di espiazione. In questo modo Eracle entra in scena come un fantasma che nella prima parte uccide il tiranno Lico, ma nella seconda parte si trasforma in una marionetta omicida manovrata da Era.                                                                                                                                      


domenica 22 aprile 2018

Il circo Agor- di Giuseppe Perricone



A otto o nove anni sono stato innamorato di una giovanissima acrobata di circo. Pupetta era la figlia del proprietario. Il circo era uno di quelli che si fermano soltanto nei piccoli borghi di provincia ed era piccolissimo anche se per me, che non ne avevo visto mai altri, era il massimo.
Ogni anno svernava nel mio paese e quando arrivava montava il tendone nella spianata antistante la scuola elementare e tutti i pomeriggi gli “artisti”, animali compresi, sfilavano per le vie del paese invitando la gente a intervenire al fantasmagorico spettacolo che si sarebbe tenuto la sera.
Il mio problema era: chi doveva accompagnarmi? Mio padre non poteva, visto che tornava tardi da Palermo dove lavorava e la mattina doveva alzarsi ancora col buio per prendere la corriera che doveva riportarcelo. Soluzione: mi ci avrebbe portato qualcuno dei miei cugini più grandi, Franco o Lorenzo, o entrambi. Due ragazzoni, i miei cugini, alti e robusti di circa vent’anni che vivevano con nostra nonna chè i genitori e il resto dei fratelli (cinque) erano emigrati in America qualche anno prima.
Sulle prime non ne volevano sentire.
-“Che dobbiamo andarci a fare,” - dicevano - “a vedere quattro sfasolati ?” - Non ne valeva la pena secondo loro.
“Pinò, - mi chiamavano così, - vuoi venire stasera al circo?”
Si, questo invito, me lo rivolsero il giorno dopo la “prima”. Era di domenica. Quella mattina nella banchina, così è chiamata la piazza del mio paese, li avevo sorpresi mentre con altri amici sfottevano Turiddu, detto il guercio per via di un occhio di vetro, poiché la sera prima era andato al circo. Loro dicevano che non ci sarebbero mai andati a meno che non fossero stati costretti. La mia costernazione era immensa, chè i miei mai mi avrebbero lasciato andare da solo di sera. Mentre tornavamo a casa di nonna, Turiddu che abitava nella stessa strada continuava a vantare lo spettacolo del circo ed era talmente entusiasta di una acrobata Pupetta che gli brillava l’unico occhio sano, o era l’altro? mentre ne parlava. Notai che quando accennava a Pupetta guardava me allusivamente e, ammiccando ... “picciotti è bravissima, capitemi!” Io capivo soltanto che Turiddu voleva convincere i miei cugini ad andare al circo e ovviamente speravo che riuscisse nel suo intento. Ma quelli erano irremovibili anche se ora, dopo tutti gli ammiccamenti di Turiddu, sembravano un po’ più ammorbiditi. Ma no, solo se costretti sarebbero andati a vedere cose che manco i picciriddi ne volevano sapere, continuavano a ripetere. Non era vero, intervenni io, io ero picciriddu e ne volevo sapere. Come se loro frequentassero abitualmente il lidò di Parigi. Li ho odiati. Mentre eravamo a tavola dalla nonna stavo per impetrare la grazia da mio padre quando mi sentii rivolgere quell’invito da Lorenzo. Pensavo mi prendesse in giro. No, diceva sul serio. Ne fui certo quando mia nonna si offrì di pagare lei il mio biglietto e i due bellimbusti accettarono i soldi. Non vedevo l’ora che scurasse. Per fortuna era inverno e scurava abbastanza presto. All’orario stabilito passammo a chiamare Turiddu. “Potete pensare quello che volete ma io ci vado ogni sera” - aveva, infatti, concluso la mattina, prima di accomiatarsi da noi. “Ah, alla fine vi siete convinti a vedere lo spettacolo che manco i picciriddi vogliono vedere?”. “Ma no” - risposero quelli – “Pinuzzu (sono sempre io) piangeva e mia nonna ha voluto che lo portassimo al circo.” Capito? Ero il loro alibi per salvare la faccia con gli amici. Infatti mi guardarono male quando io protestai che non era vero che piangevo e che anzi stavo per chiederlo a mio padre che sicuramente mi avrebbe accontentato visto che era domenica.
Fu lo spettacolo più bello che avessi mai visto fino ad allora, sebbene fossi rimasto un po’ deluso per la mancanza del trapezio (qualche tempo prima avevo visto il film con la Lollobrigida, Burt Lancaster e Tony Curtis). Per la prima volta vidi animali che avevo solo visto nel libro di scuola o in qualche fumetto: un dromedario, uno scimpanzé che ovviamente si chiamava Cita (o Chitah?) e un lungo serpente col quale si esibiva un’avvenente danzatrice. I pagliacci mi fecero ridere a crepapelle. Un prestigiatore che era anche il presentatore, il direttore e il proprietario del circo ci intrattenne a lungo con i suoi miracoli di magia. A sentire il presentatore ognuno di questi artisti proveniva da una diversa parte del mondo, dalla Russia, dall’Ungheria, dalla Spagna tutti Paesi questi che conoscevo attraverso i libri di scuola ma che solo ora che ne vedevo alcuni degli abitanti erano diventati reali.  I miei cugini tuttavia rimanevano impassibili, fino a quando non vennero fuori quattro acrobati spericolatissimi, tre uomini e una donna. Lei era una ragazzina di non più di diciott’anni. Me ne innamorai non appena la vidi. Stavo in apprensione per lei ogni qualvolta si esibiva in qualche numero spericolato, anche se stando all’enfasi che metteva il presentatore nell’annunciarli tutti i numeri erano pericolosissimi, anche quello di due cagnolini che sotto la sapiente guida di un vecchio con una lunga barba bianca a tratti riuscivano a camminare sulle zampe posteriori. Avevo il cuore in gola per l’ansia quando lei in piedi sull’estremità di un asse che poggiando il suo centro su un fulcro la catapultava per aria dopo che un suo collega si era lanciato dalle spalle di un terzo sull’altra estremità della stessa asse e lei dopo un doppio salto mortale all’indietro atterrava in piedi sulle spalle del quarto acrobata. Purtroppo il numero degli acrobati si esaurì subito con mio sommo disappunto. “Ed ecco ora a voi la più grande contorsionista che si sia mai esibita in un circo” - diceva il presentatore – “Dall’Ungheria ... Pupetta !” Allora, per me e per tutti gli altri coltissimi spettatori era plausibile che una Ungherese si chiamasse Pupetta. Mi rallegrai quando scoprii che l’improbabile ungherese Pupetta non era altri che la stessa ragazza che si era esibita poco prima nel doppio salto mortale. Il numero che eseguì fu stupefacente. Sembrava che tutti i suoi arti fossero snodabili, ognuno di essi indipendente dal resto del corpo. Riusciva a piegarsi indietro fino a far spuntare la testa attraverso le gambe divaricate. Sembra la Trinacria esclamai. I miei cugini furono d’accordo ché erano di sentimenti separatisti. Nella loro stanza a casa di nonna tenevano appesa al muro la bandiera della Sicilia indipendente. Eravamo tutti entusiasti, separatisti compresi. Poi ci furono i cavallerizzi che con le loro piroette sul dorso di due cavalli riuscirono ad attrarre la mia attenzione nonostante la mia mente fosse rimasta a Pupetta. Tutto lo spettacolo durò circa due ore e quando finì mi aspettavo che ce ne saremmo tornati a casa. Invece no. I miei cugini, Turiddu e altri tre o quattro giovanotti a quanto pare dovevano congratularsi con gli artisti. Anch’io volevo congratularmi ma, “tu si picciriddu, - mi dissero, - e poi non ci possiamo andare tutti insieme.” Questa seconda causale potevo anche capirla ma non riuscivo a trovare un nesso tra la mia età e il fatto che non potevo congratularmi pure io. Notai che i giovanotti alla spicciolata si avviavano per le congratulazioni verso il punto da cui entravano ed uscivano gli artisti, alcuni dei quali, i maschi, erano già nella pista per rimettere tutto in ordine in previsione dello spettacolo della sera successiva. Stranamente nessuno dei giovanotti si congratulò con loro. Io rimasi con Lorenzo, mentre Franco e Turiddu andarono con la prima tornata di congratulatori. Sicuramente si erano divertiti più di quanto avessero dimostrato durante lo spettacolo perché stiedero un bel pezzo a congratularsi. Pensai che avessero dato anche una mano d’aiuto a sistemare gli attrezzi del circo perché quando finalmente vennero fuori qualcuno si stava rimettendo la giacca o il cappotto. Io non mi annoiavo, ero contento anzi perché mi trovavo ancora nello stesso luogo dove stava Pupetta e, chissà, poteva venire fuori ad aiutare i suoi colleghi affaccendati a ripulire la pista e allora sarei sfuggito alle grinfie di Lorenzo e nonostante l’età pure io le avrei fatto le mie congratulazioni per la sua bellissima esibizione. Lei avrebbe notato il mio ardire e si sarebbe innamorata di me e quando io avrei avuto, questa volta si, l’età giusta ci saremmo sposati e sarei andato col circo, che era un lavoro dove mi sarei sempre divertito e avrei guadagnato di che vivere, senza contare che sarei stato sempre in giro per il mondo ... l’Ungheria, ... la Russia, ... la Spagna ....
Ero assorto in queste fantasticherie quando i separatisti si passarono le consegne Lorenzo a congratularsi e Franco con me. Quelli della prima tornata intanto se ne andarono a casa e rimanemmo Turiddu io e il mio carceriere. Lorenzo se la prese proprio comoda e quando finalmente uscì disse che era stato con Pupetta e con la danzatrice col serpente ma questa volta senza, perché lui gliene aveva portato un altro più bello del suo. Io non me ne ero accorto che Lorenzo avesse portato un serpente e sì che a casa della nonna di animali ce n’erano, cani (i miei cugini erano cacciatori esperti), furetti, gatti, galline, uccelli in gabbia, ma mai avevo visto un serpente a casa. Disse pure mentre tornavamo che Pupetta gli aveva ripetuto il numero della trinacria e questa volta aveva fatto partecipare pure lui e tutti giù a ridere, tanto che contagiarono pure me. Non riuscivo ad immaginare Lorenzo, grande e grosso, piegato all’indietro a farsi spuntare la testa fra le gambe. Mi sarebbe piaciuto vederlo dissi e qua tutti e tre i bellimbusti a ridere fino a piegarsi in due e io con loro anche se non ne capii il motivo. Quasi tutte le sere andavamo al circo con mia somma struggente felicità. I numeri di tutti gli altri dopo le prime sere mi annoiavano anzi mi sembravano interminabili tanto quanto le esibizioni di Pupetta mi sembravano brevissime.

Alla fine di ogni spettacolo le consuete congratulazioni dei giovanotti mentre io me ne restavo seduto al mio posto sotto lo sguardo vigile del cerbero separatista di turno, con l’unica magra consolazione che era quella di stare ancora per qualche minuto il più vicino possibile alla mia adorata “Dulcinea”, casta pura e nobile quanto lo era quell’altra.


venerdì 2 febbraio 2018

1Q84 di Murakami Aruki: alcune osservazioni

1Q84 dello scrittore giapponese Murakami Aruki è un romanzo che intriga ed effettivamente inchioda alla pagina il lettore, anche il più scafato. Su di me ha avuto un effetto di coinvolgimento tale che non ho saputo smettere di leggere in modo sistematico e sequenziale fino all'ultima pagina. Questo però non vuole essere da parte mia una introduzione ad un giudizio di valore.
Andiamo con ordine: la trama è piuttosto complicata. Si narra di due giovani, Aomame e Tengo, che, nel corso di tutto il romanzo, non si incontrano mai. Anzi la narrazione procede per capitoli ben separati in cui, alternativamente, vengono narrati le azioni della protagonista femminile, Aoname e del protagonista maschile, Tengo. Neanche alla fine del romanzo ci sarà un'agnizione se non nel ricordo di entrambi.
Aomame, protagonista femminile, esercita due mestieri: il primo, alla luce del sole,  come fisioterapista in una palestra di Tokio, il secondo, solitario e nascosto, come killer per un mandante solo: una rispettabile signora dell'alta borghesia giapponese.
Tengo è un editor di una casa editrice di Tokio assai importante, alle dipendenze di un editore tanto implacabile quanto determinato nel condurre a termine l'edizione di un libro molto particolare dal titolo : La crisalide d'aria opera di una ragazzina diciassettenne di nome Fukaeri.
I due procedono nelle loro azioni come due parallele che mai si incontreranno se non nel sogno.
I due giovani sono segnati dalla solitudine che non viene minimamente scalfita neppure dai rapporti sessuali occasionali, per Aomame, o, nel caso di Tengo,stabili e prolungati con una donna sposata, assurta al ruolo di amante.
A Tengo viene affidato un compito: riscrivere di sana pianta il libro La crisalide d'aria per l'incapacità della sua autrice di sapere scrivere correttamente vista la dislessia e la disgrafia che la abita.
Durante questa operazione di scrittura, Tengo si immerge in un ambiente surreale e affascinante al tempo stesso, che è l'ambiente di Fukaeri la ragazzina inquietante per la quale il protagonista sente una profonda attrazione.
Aomame invece, nel suo ruolo di efficientissima killer, con tailleur firmato e tacchi a spillo, non si distrae mai dai suoi compiti per i quali viene ben pagata e che, alla fine della narrazione, vanno a confluire esattamente nella eliminazione di uno strano uomo, mezzo santone e mezzo superuomo, intrigante soggetto-oggetto di una comunità religiosa che lo adora come una persona sacra.
Aomame è ossessionata dal ricordo di un unico ragazzo conosciuto durante l'infanzia: Tengo, di cui si è innamorata e che non riesce mai più a dimenticare. Aomame fin dall'inizio della sua avventura personale, non smette mai di essere inquieta. La sua è una inquietudine esistenziale che la divorerà fino alla fine.
Tengo, anche lui, serba perenne il ricordo di una bambina di dieci anni, appunto Aomame, unica ad avergli saputo infondere un sentimento di amore profondo. I due non si cercano per tutta la durata del romanzo e neppure si trovano: compiono le loro rispettive missioni, portando avanti la loro esistenza fino alla conclusione annunciata dall'autore a metà percorso narrativo.
Che libro è questo? Non è una storia d'amore, nè di avventura. E neppure di fantasy. Ci sono, nel corso di tutta la narrazione, delle presenze evocate, i little people, così vengono chiamati da Fukaeri certi esserini misteriosi in grado di produrre cloni perfetti di alcuni dei personaggi del libro.
L'ottica in cui si muove Murakami è  spiazzante: lascia il lettore occidentale avviluppato in una narrazione in cui trovare il fulcro centrale e l'avvicendamento delle azioni è piuttosto complicato. Ci sono molte azioni che rimangono incomprensibili alla ragione narrativa: il continuo fermare l'azione per raccontare a ritroso la storia pregressa dei personaggi, per esempio. 
Murakami ha una tecnica particolare nella focalizzazione dei personaggi: sembra che questi non abbiano spessore psicologico poiché l'autore non scava nel profondo, almeno non con le tecniche narrative cui siamo abituati. Però i protagonisti assumono rilievo e anima attraverso la narrazione dei fatti e delle azioni. Sembra quasi che  Murakami voglia presentare queste sue creature letterarie inserendole in una realtà plausibile di cui egli cura tutti i particolari per creare la massima coerenza e verosimiglianza nei confronti di una vicenda che , viceversa, è continuamente proiettata nella distorsione della distopia che il lettore, tuttavia, può abitare razionalmente all'interno del patto narrativo.
Il linguaggio, costruito attraverso un registro linguistico medio, che non indulge mai né alle iperboli del parlato né al lirismo affabulatorio, crea ambienti apparentemente confortevoli che sanno però improvvisamente trasformarsi in spazi malefici  e stranianti.
I due principali protagonisti praticano fino in fondo due percorsi differenti fino alla drammaticità del finale in cui né Tengo né Aomame raggiungeranno il loro traguardo, perché, a ben vedere, nessuno  dei due ha un traguardo da raggiungere.