lunedì 27 maggio 2019

La terza età delle donne: il principio



Arriva un momento in cui stai facendo cose ordinarie, anche banali. Ad esempio stai entrando in una banca, che so, a chiedere un mutuo per comprare la tua unica e sola casa dopo una faticosa vita di traslochi in case rabberciate alla meno peggio, magari dopo che hai deciso di separarti da un marito ingombrante e faticoso.
Una banca è , in un certo senso, come una chiesa. Entrarci comporta raccoglimento, compunzione, attenzione anche a ciò che ti metti addosso. Devi dare l’impressione di essere una persona affidabile. Quindi niente cose eccessivamente frivole ma neanche raffazzonate. Il giusto equilibrio che dica subito, a colpo d’occhio, che sei una donna elegante, seria, affidabile, lavoratrice, equilibrata e anche bella. E che ci tieni al tuo aspetto.
Quindi.        
Quindi, con tutta la carica che ti dà il desiderio di potere acquistare finalmente non dico la casa dei tuoi sogni, ché è da tanto che ci hai rinunciato definitivamente,  ma perlomeno una casa comoda con il riscaldamento, dopo anni di abbigliamenti casalinghi degni di un igloo, in una zona silenziosa dove i vicini non decidano di farti sentire a volume spiegato, a tutte le ore del giorno, le ultime novità di Sanremo, insomma una casa decente degna di questo nome, parcheggi la tua utilitaria e varchi la soglia del santuario. Ti sei guardata anche allo specchietto dell’auto, prima di incamminarti e hai visto che non sei troppo male e magari ti dai un ultimo ritocco di rossetto.
Insomma, adesso sei lì, in quel luogo sacro, dove una porta a vetri alta e pesante, ti restituisce la tua immagine. Tu lo sai, ovvio, che sei una donna qualsiasi , pure un po’ sprovveduta, ma all’esterno…oh,  hai l'aspetto di una guerriera pronta all’assalto.
Apri e vedi, nell’androne,  un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquanta che tu sei pronta ad archiviare tra quellichenontiinteresserannomaineanchemorta.
Sei abituata ad avere addosso gli sguardi degli uomini che , si sa, anche senza volerlo, le donne le guardano sempre, purché ben messe e con parvenza di giovinezza. Ma tu sai che devi tirare dritta per la tua strada, come sempre hai fatto dalla pubertà in poi, senza ricambiare né sguardi né parole, facendo finta di nulla.
E invece non succede niente. Il tizio non ti lascia neppure passare per prima, ma oltrepassa l’ingresso senza neppure reggerti la porta, anzi lasciandotela quasi sbattere in faccia.
Sbigottita, non sai se per la sorpresa o per la cattiva educazione,  entri a tua volta, fermando con una veloce bracciata la porta, entri e quando sei dall’altra parte, ti giri ad accompagnare la vetrata e vedi lo stesso tizio che, con passo veloce, raggiunge una giovane donna, alta, bionda, alla quale daresti sì e no, neanche trent’anni. E’ vero, hai molti pensieri per la testa, soprattutto quello, importante, per il quale sei andata proprio in quella banca e archivii tutta la faccenda in uno sgabuzzino mentale in cui ti proponi di non entrare mai più.
Allora vai dritta verso l’ascensore. Sei sola, devi arrivare al quinto piano per raggiungere il direttore al quale esporre cautamente la tua richiesta di mutuo. In garanzia hai pensato di potere portare il tuo stipendio (sei una buona lavoratrice), il tuo status sociale ( una donna ancora giovane, mediamente colta, in grado di potere lavorare per molti anni, una sola figlia a carico e niente marito che, con i tempi che corrono, è una cosa assai buona, perché, secondo come è messa la tua famiglia, ti tocca mantenere anche lui)  e infine il tuo charme, o quello che pensi di avere ancora.
Vieni accolta da un’impiegata che ti fa accomodare in una orribile saletta con il niente intorno, neppure un giornale, né una pianta, niente di niente, ma solo un freddo  il dottore la prega di attendere, arriva subito.
Ti siedi, ti guardi in giro, non c’è nulla che possa attrarre il tuo sguardo, neanche la finestra che dà sul retro in un cortile stretto dove l’unica immagine è quella di un muro con alcune crepe nell’intonaco dalle quali si intravedono delle macchie di muffa. Aspetti. Agguanti il tuo cellulare, unica risorsa in questo frangente, compulsi nell’ordine: posta, messaggi, facebook. Ti accorgi che nessuno ti ha scritto mail, nella box ci sono solo pubblicità di vacanze a Dubai in alberghi da mille euro a notte, di prodotti dimagranti, di offerte imperdibili  per l’acquisto di una nuova automobile, di fb che ti informa che Sempronio Vivamaria ti ha taggato in un suo post, messaggi di conoscenti che ti informano di incontri e serate ai quali ti guarderai bene dal partecipare, post in fb che sembrano scritti da Pierini Formaggini anziché da uomini e donne maturi, e altre cose così. Aspetti. Aspetti, e ancora aspetti. E’ passata quasi un’ora e pensi: cavolo, sembra di essere dal dottore o in una fila che, so, dell’INPS, non certo in una banca. Finalmente una presenza: viene introdotta nella tua stessa saletta, dalla medesima impiegata, una ragazza, giovane, questa volta bruna, i capelli lisci con taglio irregolare, grandi occhi color nocciola, minigonna e stivale borchiato. Sembra appena uscita da Vogue. Saluta, si siede nella poltroncina vicino alla tua e si dispone pure lei all’attesa.
Dopo ancora cinque lunghi minuti, finalmente ecco il direttore, un tipo tarchiato, occhialuto, un po’ di pancia prominente messa in mostra dal biancore di una camicia  spiegazzata ai fianchi.

Tiri un sospiro di sollievo e, mentre pensi che sia finita quella attesa ignobile e inadatta al luogo e alla tua persona, fai per alzarti e andargli incontro. Quello, come se non ci fossi, va dritto dritto verso la brunetta, la saluta calorosamente, la invita ad entrare nel suo ufficio, poi, rivolgendosi a te: “ Mi scusi, signora, è una faccenda di pochi minuti e poi sono subito da lei!”.

martedì 21 maggio 2019

L'otium, ovvero l'arte del non-fare

di Maria Rosa Giannalia


                         La foto viene da qui


 Uno dei problemi della terza età, quando ormai si è definitivamente lasciato il lavoro, quando i figli sono andati via di casa e fortunatamente non ci imbrigliano nei loro molteplici bisogni (per esempio affidandoci i loro pargoli per diversi giorni o per tutta la settimana) o quando dobbiamo continuare ad occuparci della casa e di tutte le minute incombenze ad essa collegate, che richiedono molte ore, rimane finalmente un tempo abbastanza lungo per noi. Il fatto è che spesso non siamo abituati. Non siamo abituati, dico, non a gestire il tempo, ché quello impariamo presto a farlo, subito dopo  l’adolescenza, ma a gestirlo in funzione solo NOSTRA. 

   E’ talmente strana questa cosa che, quando càpita, si sentiamo come frastornati. Si affollano alla mente tante di quelle belle attività nuove da realizzare, che non sappiamo da dove iniziare e soprattutto COME iniziare. Non ci viene in mente, ad esempio, di iniziare e basta. Nella nostra precedente vita avevamo orari prestabiliti, compiti assegnati,  colleghi e colleghe incombenti, dirigenti  che ci tenevano il fiato sul collo. E tutto ciò ci ha abituato a non pensare il tempo come interno a noi, come una categoria nella quale non dovessimo sempre  parcellizzare e organizzare ogni gesto della nostra giornata.  Eravamo abituati a fare entrare dentro l’involucro temporale tutte le nostre  necessità di lavoro  e personali adattandoci ai ritmi precostituiti.

   E’ normale, quindi,  che di fronte al tempo allargato e vuoto di impegni che ci si apre davanti, sentiamo come un senso di perdita e di smarrimento: vorremmo gestirlo ma ci mancano i riferimenti. I riferimenti di prima non  esistono più, e, conseguentemente, dovremmo crearcene di nuovi, organizzando in funzione solo nostra, le ore, le settimane, i mesi.
   Capita quindi che abbiamo la sensazione di PERDERE TEMPO. Senza riflettere che il tempo non esiste al di fuori di noi e non possiamo perdere una cosa che non esiste.
  Ecco perché abbiamo necessità , adesso, di imparare a concepire il tempo in maniera distesa, in funzione solo di ciò che  ci serve, non per fare , ma per pensare. Anche il pensiero autonomo richiede un sacco di tempo e, per attivarlo, è necessario coltivare la mente attraverso buone letture, buoni film, buoni spettacoli, belle attività anche manuali, ma anche attraverso buone conversazioni. Il confronto ci permette infatti di non isolarci, in un tempo in cui ci viene a mancare tutto l’entourage lavorativo che, anche se, a suo tempo , ci risultava faticoso, ci garantiva una rete di rapporti sociali importanti per la nostra realizzazione.
   E’ arrivato un altro tempo, diverso, in cui dobbiamo crearci le nostre  attività e dare loro un altro senso, senza altra necessità che quella del nostro piacere personale.
Allora perché non iscriversi a qualche associazione di persone che condividono gli stessi nostri interessi? Perché non riservare qualche giorno alla settimana per incontrarsi piacevolmente con le amiche e gli amici e OZIARE? L’ozio ha una grande valenza perché, sgombrando la mente  dalla necessità, ci aiuta a riflettere sui valori fondanti del genere umano. Non per nulla i latini ritenevano l’OTIUM la più bella di tutte le attività contrapponendolo al NEGOTIUM che  marcava la sfera “del fare” cioè di tutte le azioni necessitate.
   Ma solo l’Otium è un privilegio, in quanto dà respiro alla mente ed eleva l’animo verso finalità alte.

E questo i nostri padri latini lo sapevano bene!




mercoledì 1 maggio 2019

Antonio Tabucchi: Tristano muore ed. Universale Economica Feltrinelli




Recensione di Maria Rosa Giannalia


Si tratta di un’opera assai complessa ancorché breve: nella finzione letteraria del protagonista morente  che convoca  un famoso scrittore presso di sé nella sua casa in Toscana, per raccontargli la sua vera esperienza di partigiano affinché egli, lo scrittore, possa scriverla e serbarne memoria, l’autore coinvolge totalmente il lettore  trascinandolo con sé attraverso tutta la rivisitazione  che egli intende fare delle sue esperienze amorose, politiche e di combattente partigiano. Tutto ciò solo ed esclusivamente dal suo mutevole punto di vista.
Questo patto narrativo, una volta accettato dal lettore, risulta estremamente vincolante per quest’ultimo: non gli permetterà più, una volta iniziata la lettura , di perdere il bandolo della matassa,  costringendolo a seguire tutte le evoluzioni narrative che il protagonista intraprende con la tecnica del flusso di coscienza.
Il protagonista, malato terminale, sul suo letto di morte, in preda a pochi momenti di lucidità intervallati da altri straniati e distorti dalla morfina, inizia il suo racconto.
E’ un racconto allucinato, in cui egli ripercorre tutta la sua esperienza di partigiano a partire dalla guerra in Grecia dove era stato mandato come militare  fascista, quindi come “invasore” fino ad arrivare, attraverso una serie di  azioni di guerra, quasi tutte individuali, a rifiutare la logica di quella guerra cui il suo paese, l’Italia fascista, lo aveva costretto, per schierarsi quasi subito a fianco degli “invasi” quando, in Grecia, uccide un militare nazista che si era reso protagonista di un atto di estrema crudeltà sparando prima ad un ragazzino e poi ad una vecchia.
La sua vicenda si conclude in Italia dove  combatterà da partigiano contro i nazifascisti e riuscirà ad annientare un intero plotone  di nazisti praticamente da solo meritando la medaglia di guerra e il titolo di eroe.
Queste imprese sono strettamente intrecciate agli amori della sua vita: due donne, la greca Dafne (chiamata anche Mavrì Elià), e  l’americana Marilyn (chiamata anche Rosamunda/Guagliona), donne che il protagonista ha amato in modo diverso e che hanno segnato la sua vita e infine anche la tedesca Frau, amica/governante che lo assiste con un ruvido amore fraterno per tutto il corso della sua vita nella casa in Toscana in cui egli si ritira, la casa dei suoi genitori.
La narrazione ha un percorso ricorsivo: i temi, innumerevoli, che vengono proposti via via, non si esauriscono in una singola analisi, ma ricompaiono continuamente componendosi e frantumandosi e ricomponendosi in immagini sempre nuove come all’interno di un caleidoscopio che mostra prospettive continuamente diverse dalle quali potere evincere una lettura molteplice.
E così il flusso narrativo permette al protagonista di parlare della valenza della scrittura:

"…E invece il mondo è fatto di atti, azioni… cose concrete che però poi passano, perché l’azione, scrittore, si verifica, succede… e succede solo in quel preciso momento lì, e poi svanisce, non c’è più, fu. E per restare ci vogliono le parole, che continuino a farla essere, la testimonino. Non è vero che verba volant. Verba manent. Di tutto ciò che siamo, di tutto ciò che fummo, restano le parole che abbiamo detto, le parole che tu ora scrivi, scrittore, e non ciò che io feci in quel dato luogo e in quel dato momento del tempo. Restano le parole… le mie… soprattutto le tue… le parole che testimoniano. Il verbo non è al principio, è alla fine, scrittore. Ma chi testimonia per il testimone? Il punto è questo, nessuno testimonia per il testimone… Felice, infelice, sai, non è questo il problema che mi pongo, scrittore, quello che mi consola è che nella grande addizione, nella vostra odiosa addizione piena di cifre, io non ci figuro come un’unità fra tutte le altre, nella somma non sono stato contato, bene, mi volevate pari ed ero dispari, vi ho fatto sbagliare i calcoli… È la mia poesia del lunedì, o del martedì… quella della domenica l’ho dimenticata perché non mi piaceva, e ti regalo questa…

Della libertà e di quanto inganno ci sia nell’imposizione della libertà:

"…un uomo libero, la tua parola è sacra e nessuno può distruggere la tua parola, e questa è la vera libertà, è per questo che ci siamo battuti fin da sempre tutti noi che amiamo la libertà, affinché tu possa parlare, affinché tu possa esprimere il tuo pensiero libero, parla, la mia civiltà te lo permette, tu sei qui per parlare, devi parlare, apri la bocca, scaccia le mosche dalla bocca e parla, non mi guardare con quello sguardo ebete, fammi il piacere,"

Della storia e del suo significato intrinseco e anche del suo valore per l’individuo:

Ma perché mai dobbiamo pensare che la vita sia o così o cosà, te lo sei mai chiesto, scrittore? Io credo che te lo sei chiesto, e forse è per questo che ti ho chiamato. Ma lui a quel tempo il futuro lo vedeva diviso in due, perché pensava che la storia fosse divisa in due, idiota, non sapeva che la storia la facciamo noi, ce la costruiamo con le nostre mani, è una nostra invenzione, e ne potremmo fare un’altra, se solo volessimo, se solo non ci lasciassimo convincere dalla storia che lei è o così o cosà, se solo avessimo la forza di dirle, signora storia, lei non è niente, non faccia tanto l’arrogante, lei è solo una mia ipotesi, e se non le spiace ora la invento come preferisco. Ma per dire questo bisogna essere vecchi, e inutili, quasi cadaveri come sono io, quando hai capito che lei era un’illusione, un fantasma, ormai non puoi più farla, è già stata fatta. La storia è come l’amore, è una musica, e tu sei il musicista, e mentre la suoni sei di un’abilità enorme, un interprete che soffia a pieni polmoni nella sua trombetta o sfrega con rapimento il suo archetto sulle corde… magnifico, un’esecuzione perfetta, applausi. Ma non conosci lo spartito. Quello lo capisci dopo, molto più tardi, ma ormai la musica è svanita…

E di tanti altri aspetti esistenziali fino al più importante di tutti, l’ultimo, la paura e il senso della morte:

La vera paura è quando l’ora è fissata e sai che sarà inevitabile…è una strana paura, si prova una sola volta nella vita, e non si proverà mai più, è come una vertigine, come se si spalancasse una finestra sul niente, e lì il pensiero si annega davvero come se si annientasse. E’ questa la vera paura…[…] C’è un amore religioso della morte che ha qualcosa di necrofilo, quasi che si amasse più un cadavere di un vivo…Una bella morte…la morte non è mai bella, la morta è laida, sempre, è la negazione della vita…Dicono che la morte è un mistero, ma il fatto di essere esistito è un mistero maggiore, apparentemente è banale, e invece è così misterioso…

Infine due osservazioni riguardanti lo stile : non ci sono nel testo figure retoriche che non siano necessitate ai fini dell’efficacia narrativa. Ogni espressione, ogni parola, ogni verbo, sono estremamente calibrati e inseriti in un tutto organico che collega indissolubilmente forma e contenuto e porta il lettore a “sentire” il protagonista narrante dal di dentro, a condividere i suoi stessi pensieri e i suoi punti di vista, a perdersi insieme a lui in questo tourbillon di immagini e emozioni , sentimenti ricorsivi che dicono e poi contraddicono ogni affermazione, ogni analisi, ogni fatto.
E’ un libro , certo, difficile, ma a mio parere, è uno di quei libri fondanti nella carriera di un lettore.