sabato 18 giugno 2022

Il treno dei bambini

 


di Viola Ardone- Einaudi Stile Libero 2019



Recensione di Maria Rosa Giannalia


 

Il romanzo di Viola Ardone pubblicato nel 2019 da Einaudi stile libero, si ispira ad una storia vera: una storia di solidarietà  organizzata dal partito comunista e dall’UDI che realizzò lo spostamento temporaneo, nel 1946 dopo la devastazione della guerra, dal sud Italia verso l’Emilia Romagna di migliaia di bambini, con conseguente affidamento a famiglie accoglienti, per essere salvati dalla miseria e dalla fame.

 

Amerigo, piccolo scugnizzo napoletano, vive con la madre Antonietta in un basso di Napoli. Passa le giornate osservando le scarpe dei passanti e attribuendo un punteggio per ogni scarpa sana fino a totalizzare il massimo dei punti. Questo suo passatempo alternato con i giochi insieme agli altri suoi amichetti dei bassi, apre lo scenario su una città poverissima nell'atmosfera del dopoguerra con una grande fame e miseria di tutta la popolazione povera e senza alcun mezzo di sostentamento.

Per questi bambini viene approntato un treno ad opera delle donne dell'UDI sostenute dal PCI, che li condurrà verso Modena dove essi troveranno famiglie accoglienti ed affettuose.

In una di queste famiglie si situa Amerigo, protagonista del romanzo, il quale, conosciuto il benessere, si accorge di quanto sia  misera la condizione sua e della madre. Per questo, al suo ritorno a Napoli, si trova a non potere più sopportare quella condizione di estrema miseria e scappa per raggiungere la famiglia accogliente a Modena dalla quale si fa adottare col consenso della madre Antonietta.

Da adulto Amerigo tornerà a Napoli per darle l'ultimo saluto. Ma la madre è già morta e Amerigo si aggirerà per quegli stessi vicoli dove scoprirà che la povertà e l'infelicità da cui era scappato non potrà essere risolta se non con un atto d'amore verso quella stessa famiglia che ha ripudiato per tutta la vita.

  

L’autrice Viola Ardone è relativamente giovane ed è alla sua terza esperienza di scrittura. Questo è, a mio avviso, un elemento da tenere presente nell’analisi del testo.

Non c’è dubbio che la fortuna del libro nasca dal racconto assai toccante dell’avventura toccata ad un gruppo di bambini dello stesso rione dei bassi napoletani tra cui si trova lo stesso protagonista, Amerigo, che narra in prima persona tutta la vicenda occorsa a sé e ai suoi amici, bambini tra i sei e i dieci anni. Fortuna data anche dal fatto che l’episodio autentico non era stato mai narrato in chiave romanzata.

La narrazione procede quindi dal punto di vista di Amerigo per tutte le tre prime parti del romanzo, mentre nella quarta parte è un Amerigo adulto che parla in un dialogo immaginario con la madre appena morta. Il narrato, per bocca del piccolo Amerigo, procede attraverso uno stile  e un registro linguistico tipico degli scugnizzi napoletani che, vissuti nella miseria, devono arrabattarsi anche per il pane quotidiano. E Amerigo non fa eccezione: egli è perfettamente inserito in questo contesto e assolutamente inconsapevole della sua condizione di povero  figlio di una giovanissima madre incapace di dargli l’affetto che il piccolo si aspetta. Affetto che la madre tuttavia sa dargli a sprazzi attraverso gesti quotidiani ben sottolineati dalle parole del bambino . Antonietta non è una madre anaffettiva, è una madre povera di beni e di sentimenti. Non sa neppure svelare la sua vera paternità al piccolo il quale, per questo, andrà  per tutta la vita alla ricerca di una stabilità che solo la cognizione della propria nascita può conferire anche agli ultimi nella scala sociale.

Le parole  che Amerigo usa per narrare sono ingenue, fresche, costitutive del linguaggio degli scugnizzi, attraversato da espressioni che conservano il ritmo del dialetto napoletano, come la stessa autrice afferma in questa intervista. 

Questa scrittura conferisce alle prime tre parti del romanzo un realismo poetico che l’autrice riesce ad organizzare in un unicuum narrativo nel quale il lettore si immerge con piacere.

L’autrice rende assai bene , con le parole dell’infanzia, di quella infanzia, il senso della meraviglia di fronte a possibili altri mondi affettivi ai quali i piccoli non sono abituati e al senso di gioia e di appagamento nel partecipare di quel mondo diverso, più ricco, dove predomina abbondanza di cibo e di cure, dove i piccoli possono finalmente dismettere i panni dei “finti adulti” e diventare quello che realmente sono : bambini con desideri  e aspirazioni da bambini.

Che l’allontanamento dalla loro realtà miserabile dei bassi napoletani verso un mondo più vivibile, occasione generosamente offerta dalla popolazione dell’Emilia Romagna, sia un’arma a doppio taglio per questi piccoli, è tuttavia un fatto ineludibile con il quale essi dovranno, al loro ritorno, dopo avere conosciuto il benessere, confrontarsi ,immersi nuovamente in  quella vita di stenti che avevano pensato essere scomparsa per sempre.

Nell’immaginario infantile, questo ritorno è tanto più avvilente quanto più, come è il caso di Amerigo, la”famiglia di origine” è anni luce lontana dal paradiso che i bambini hanno conosciuto e abitato per sei bellissimi mesi.

Il caso di Amerigo è eclatante: l’oggetto simbolo della sua vita rinnovata , un violino che gli era stato regalato dalla famiglia di accoglienza, sparisce da sotto il letto dove lui l’aveva religiosamente custodito. La madre ha necessità di cibo e non esita a venderlo, compiendo un atto la cui conseguenza immagina benissimo ma che tuttavia ritiene indispensabile per la sopravvivenza sua e del figlio.

Le azioni compiute da Amerigo, consequenziali a questo episodio ( la fuga da Napoli alla volta di Modena, il rifugio definitivo presso quella famiglia e il ripudio della madre dopo la nascita del fratellino Agostino) lo segneranno per tutta la vita. Alla povertà e alla miseria non si sfugge:  entrambe diventano connotative nella vita di Amerigo che ne porterà i tratti per tutta la vita e non riuscirà a liberarsene neanche da adulto quando, già affermato violinista, affrancato dal bisogno, ritornerà a Napoli per un ultimo saluto alla madre morta.

Nella  quarta parte del romanzo, meno spontanea e riuscita forse delle altri tre parti, l’autrice vuole riscattare la condizione di perdita del bambino Amerigo, perdita con la quale egli ha dovuto fare i conti lungo il corso della sua vita. Per questo l’adulto Amerigo torna a Napoli nella speranza di rendere l’ultimo saluto alla madre e attraversa quegli stessi vicoli, cammina su quelle stesse pietre, riconosce i segni della sua infanzia passata che gli si rovescia addosso esattamente nella sua integrità.

Egli si difende: mente circa la sua vera identità  con chi fa le viste di riconoscerlo, mente  sul suo lavoro, mente sul suo cognome, ribadendo che lui si chiama Benvenuti, mente sul suo stato civile, mente persino sulla paternità presunta di due figli per scrollarsi di dosso quel suo passato di miseria, perché la miseria, quando la si è provata, diventa un tratto caratteristico dell’anima e si trasforma in paura che non molla mai la sua preda, pronta a ripresentarsi al solo apparire di un oggetto, di una persona , di un ricordo.

A questa paura l’adulto Amerigo vuole sfuggire ma senza successo: essa lo accompagna lungo tutta la sua permanenza in quella sua città natale.

A questo punto, il romanzo avrebbe potuto avere la sua conclusione, in coerenza con l’atmosfera evocata nelle precedenti tre parti. In tal senso in questa parte conclusiva anche l’uso della seconda persona all’interno del modificato registro linguistico , acquista un senso funzionale alla storia, perché il colloquio di Amerigo con la madre prescinde anche dal lettore ed acquista autonomia nella volontà del riscatto attraverso una muta richiesta di perdono.

Peccato che l’autrice non si sia saputa sottrarre ad una  conclusione scontata: il lieto fine che, con la probabile adozione del nipotino rimasto solo, dopo l’arresto dei genitori, lo assolve e lo salva.

Il lettore magari ne sarà felice, ma questa conclusione sottrae autenticità e coerenza alla storia narrata.