mercoledì 23 settembre 2015

La formazione dell'insegnante di lettere (dal blog Vibrisse di Giulio Mozzi)

La formazione dell’insegnante di Lettere, 2 / Maria Rosa Giannalia

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[Questo è il secondo articolo della rubrica La formazione dell’insegnante di lettere, che uscirà ogni (si spera) mercoledì. Gli insegnanti che volessero partecipare possono scrivere al mio indirizzo, scrivendo nella riga dell’oggetto: “La formazione dell’insegnante di lettere”. Ringrazio Maria Rosa per la disponibilità. gm]
Non ricordo di preciso a quale età, ma ricordo benissimo dove è nata la mia passione per l’insegnamento. Avevo quattro, forse cinque anni, frequentavo, al mio piccolo paese, in provincia di Palermo, una scuola materna privata, gestita da una suora che, non si seppe mai se per forza o per scelta, si era congedata dal convento, mantenendo però l’abito e il titolo: madre Letizia si chiamava. Madre Letizia aveva una grande casa che apparteneva alla sua famiglia e che aveva adibito a scuola parificata sia materna che elementare. Una sola sezione per la materna e una multi classe per le elementari. I più anziani tra noi si ricorderanno delle multi classe: ci si trovavano bambini di età diverse, con una sola maestra che faceva del suo meglio per seguire un po’ tutti.
Io non ero ancora entrata in prima, ma sapevo già scrivere le vocali e di queste riempivo pagine e pagine dei miei quaderni con la copertina nera e i bordi rossi. Andare a scuola mi piaceva moltissimo, ammiravo molto la mia maestra. Era una “signora anziana”. Chissà quanti anni avrà avuto. Forse venticinque o trenta, non me lo ricordo. Ricordo solo i suoi capelli biondi e gli occhi azzurri e la sua dolcezza, diametralmente opposta ai modi di madre Letizia che si riservava il compito di direttrice ed era severissima e un poco mitomane per quanto riguarda la sua persona. Voleva imporci il culto di sé e ci chiedeva spesso, durante i minuti della ricreazione, se riuscissimo a vedere l’aureola che aveva dietro la testa. Io non la vedevo, ma dicevo di sì per pura piaggeria o forse per timore.
La mia maestra invece era affettuosa e comprensiva. Si chiamava Elena, il suo nome lo ricordo e mi pareva bellissimo. Quell’anno decisi che anch’io da grande avrei fatto la maestra. Come lei. E decisi anche che non avrei voluto fare nessun altro mestiere. Così a casa riunivo spesso i miei tre fratellini, allineavo le sedie davanti a me e facevo la maestra. Distribuivo loro delle matite e dei fogli di carta che finivano presto pestati per terra e ridotti in tanti pezzettini. Mia madre mi sgridava sempre perché sporcavo la stanza appena pulita, qualche volta prendevo pure degli sculaccioni. Ma quel vizio non lo persi mai.
Nel corso dei miei studi medi, cambiai idea: non volevo più fare la maestra ma la professoressa. Non avevo però scelto ancora le materie perché la matematica non mi piaceva, il latino neppure, meno che mai la musica per la quale avevo una vera e propria avversione, perché non riuscivo proprio a capire il senso degli spartiti e neppure riuscivo a scrivere le note musicali (all’epoca la musica si insegnava in quel modo lì). Mi piacevano solo i racconti e le poesie che imparavo a memoria con una velocità eccessiva, perché non mi bastava memorizzarle, ma pretendevo di ripeterle a chiunque mi capitasse a tiro per condividerne la bellezza e il ritmo.
Questa cosa di ripetere ciò che imparavo, non mi passò con l’età. Ricordo che, quando mi riconciliai con il latino, in seconda media, grazie ad una professoressa bravissima che riuscì a farmelo amare – era una suora domenicana, ho frequentato infatti medie e liceo in istituti religiosi – ripetevo a uno zio che faceva finta di ascoltarmi, quanta differenza ci fosse tra il latino e la nostra lingua. E cercavo di spiegargli come gli antichi romani facessero a parlare tra di loro con tutto quel sistema di desinenze assente nella nostra lingua italiana. Non ricordo se le mie spiegazioni fossero corrette, né se quello zio fosse in grado di capire qualcosa in proposito, ma il fatto solo di potere parlare e spiegare mi tolse ogni dubbio su quali materie avrei insegnato. E da quel momento ogni occasione fu buona per parlare a chiunque di tutto ciò che andavo imparando. Molto spesso i miei familiari si annoiavano e mi evitavano inventandosi giochi e impegni vari. L’unico che mi stava sempre a sentire era quello zio, ma credo, perché costretto dal suo lavoro: faceva il sarto e passava tutti i pomeriggi a tagliare le stoffe dei vestiti che le sue aiutanti poi confezionavano. E dunque non si poteva allontanare dall’ampio bancone dove io poggiavo anche i miei libri. L’altro che invece mi stava a sentire per davvero era mio padre. Ma lui faceva il muratore e in casa ci stava pochissimo. Tuttavia molte delle sue sere le spendeva con me. Gli piacevano le lingue, sia il latino che il francese e si appassionava alla filosofia delle cui teorie apprese io gli ero prodiga durante gli anni del mio liceo. E, soprattutto, mi chiedeva continue spiegazioni. Una goduria.
Sia il ginnasio che il liceo non furono per me particolarmente esaltanti. I miei insegnanti non riuscirono mai a raggiungere la competenza della mia maestra Elena e mi insegnarono poco. Molte cose le imparavo per curiosità e per conto mio perché studiare mi piaceva moltissimo, mi faceva volare fuori da quell’ambiente asfittico in cui vivevo e nel quale non avevo compagni né amici con cui parlare dei libri che leggevo e delle scoperte che andavo facendo, delle idee che anch’io sentivo di avere e che mai avrei saputo esprimere come gli autori che studiavo.
L’università non fu formativa per la mia futura professione. Pochissimi i professori che si dedicavano alla didattica. Molti di loro erano più attenti alla trasmissione dei loro saperi, piuttosto che all’apprendimento dei loro allievi. Il primo anno di università, alla facoltà di lettere di Palermo, fu un vero disastro. Era l’anno 1968, le facoltà erano occupate, si facevano lezioni a singhiozzo e si dormiva nelle aule. Si parlava di tutto, specialmente di politica, di sesso, di femminismo. E soprattutto si mangiava. Si mangiava sempre, a qualsiasi ora. Il bar della facoltà era il posto più frequentato in assoluto. Di quegli anni ho un ricordo bellissimo ma improduttivo, o forse tale lo percepivo allora. Uno solo fu mio grande maestro, a sua insaputa: Giusto Monaco, allora ancora giovane e brillante docente universitario che faceva delle lezioni di latino veramente esaltanti. Riusciva a rendere semplicissimi concetti complessi e il suo modo di insegnare non era per nulla professorale. Con un’aria quasi dimessa si addentrava nelle teorie di letteratura e di critica letteraria, rendendo tutto così semplice alla mia capacità di comprensione che non potevo fare altro che ammirare quella potenza di parola nella pacatezza dell’espressione. Faceva lezione in aula magna con i banchi pieni all’inverosimile di studenti. Era uno dei pochi, forse il solo, a fare delle vere lezioni. C’erano anche altri professori, anche molto famosi, ma passarono senza lasciare traccia sulla mia formazione.
Anche l’università, dunque, fu per me un lungo periodo di autoapprendimento fino alla laurea. Fino al concorso a cattedra. Vinsi la prima cattedra in una scuola media di un paesino arroccato su un monte ad una quarantina di chilometri da Palermo. Si chiamava – e si chiama tuttora – Mezzojuso e del suo etimo arabo conservava per intero l’incanto e le proporzioni. La scuola era allocata in un vecchio convento, freddissimo durante l’inverno, senza stufe né altro tipo di riscaldamento. La prima volta che entrai in classe, una prima media, tutti i ragazzini rimasero in silenzio per tutta la durata della mia prima lezione di grammatica italiana. In due ore riuscii a parlare di grammatica: le funzioni del soggetto, del predicato verbale, del complemento oggetto, del predicato nominale, della copula e perfino del complemento predicativo del soggetto…Tornai a casa assai contenta di me, contenta del silenzio e dell’attenzione, contenta di avere saputo padroneggiare la mia emozione, insomma, contenta. Molto meno contenta fui il giorno seguente, quando, di fronte agli stessi ragazzini, cercai di farli esercitare: non avevano capito nulla. Ma non perché i concetti fossero difficili per loro, come appresi solo dopo qualche settimana, ma proprio perché non capivano la lingua che parlavo io. Vale a dire l’italiano. Mi ci volle tutto quell’anno scolastico per capire che non avrei mai ottenuto alcun risultato se non avessi saputo parlare la loro lingua, se non fossi entrata nella loro logica, se non avessi saputo partire da ciò che essi sapevano già e solo su quello cominciare un poco per volta a costruire.
Ma questo è stato un cammino faticosissimo che ho dovuto percorrere da sola per almeno dodici anni del mio insegnamento, durante i quali ho commesso moltissimi errori, sono dovuta tornare indietro su metodi didattici consolidati che, viceversa, alla prova dei fatti non erano efficaci per nulla. Ho dovuto provare e riprovare, e ingegnarmi di trovare da me le strategie giuste per ogni classe che mi veniva assegnata anno per anno, per ogni alunno. E imparai a costruirmi da sola tutti gli esercizi. Interi pomeriggi e serate di tutti gli anni di lavoro ho passato a studiare, a inventare esercitazioni differentemente calibrate fino ad accumulare montagne di materiali didattici che puntualmente buttavo via ad ogni cambio di classe. Pochissimi di quei materiali potevano essere utilizzati per più di una classe e mai per più di un anno scolastico. Perché ognuna aveva la sua conformazione, le sue caratteristiche, i suoi problemi. Imparai subito che il mestiere di insegnante è durissimo e che non basta essere preparati culturalmente, non basta conoscere le discipline, non basta sapere “tenere la classe”. Non basta. Ci vuole passione. E intuito. Mettere in grado ogni ragazzo/a di imparare secondo il suo stile di apprendimento, fare sì che ciò che si insegna diventi significativo per ogni studente/ssa, eclissarsi dietro a ciascun alunno per farlo emergere nella sua individualità e fargli esclamare: questo l’ho scoperto io prof! questo l’ho fatto io prof! ci sono riuscito, prof!, questo vuol dire insegnare. Ma è difficile. Spesso ci si scoraggia, si perde la pazienza e si pensa di avere ottenuto poco o niente. Spesso di fronte alla fatica delle ore passate sui libri per ricercare e inventare materiali che potessero funzionare, lo scarto tra tutto il tempo impiegato e i risultati ottenuti, ha rischiato di demotivarmi. Ho pensato che fosse fatica sprecata e che non ce l’avrei mai fatta.
Dopo alcuni anni di scuola media, cambiai città e regione, passai ad insegnare in scuole diverse per ordine e grado, cambiai istituti e sedi, dagli istituti tecnici commerciali, per geometri, per chimici, per elettrotecnici, fino al liceo scientifico dove sono rimasta fino a qualche anno fa.
Ma nel bel mezzo di questo percorso ho avuto una grandissima fortuna: il mio incontro con un’associazione di insegnanti: Lend, Lingua e nuova didattica. E’ a questa associazione che devo tutta la mia professionalità. Al suo interno mi sono finalmente potuta confrontare con docenti di tutta l’area linguistica, non solo di italiano, ma anche di lingue straniere. Questi docenti , con la loro esperienza, spesso conseguita anche all’estero, sono stati per me fondamentali. Mi hanno aperto un mondo diverso, un modo di guardare alla didattica nello stesso tempo funzionale ed efficace ma anche rigoroso e con teorie forti ben consolidate. Devo a Maria Teresa Calzetti, presidente di questa associazione per più di dieci anni, e docente di inglese, l’avermi introdotto in questa enclave di professionisti dell’insegnamento che sapevano coniugare creatività e rigore, metodo e leggerezza. Da loro ho imparato come costruire insieme la conoscenza e quale didattica scegliere per farla acquisire anche agli alunni e come aiutarli e guidarli in questo cammino non facile della loro adolescenza. Ho incontrato Luciano Mariani che mi ha illuminato con la volgarizzazione delle teorie sugli stili di apprendimento e Domitilla Calia, formatrice efficacissima oltre che ottima insegnante di latino, che mi ha introdotto ad una didattica del latino davvero innovativa e funzionale. Questi ed altri sono stati i miei maestri. Maestri non cattedratici, ma semplici colleghi con i quali, in una comunità di pratiche, ho lavorato fianco a fianco nella quotidianità del fare scuola con passione e studio, metodo e rigore ma anche divertimento. In questo mio itinerario di formazione una parte importante l’hanno avuta anche alcune colleghe del Giscel. Insieme alle colleghe e ai colleghi di queste due associazioni ho avuto l’opportunità di lavorare per Indire e partecipare come formatrice al piano nazionale Poseidon, lungo percorso pluriennale per la didattica delle lingue, che considero una pietra miliare prima di tutto per la mia stessa formazione. E all’interno di altri progetti nazionali, sotto la supervisione di Francesco Sabatini, ho avuto modo di confrontarmi costruttivamente con molti validi colleghi di tutta l’Italia e collaborare nella produzione di materiali didattici. Gli ultimi dieci anni di lavoro li ho trascorsi alla Siss, scuola di specializzazione per i docenti della secondaria superiore, dove mi sono occupata del tirocinio dei futuri docenti e dove ho potuto spendere tutto ciò che ho imparato e che so fare.
Da qualche anno non insegno più e, anche se continuo ad occuparmi di formazione, sono una docente “in quiescenza”, brutto termine per indicare il momento in cui si conclude il proprio percorso professionale e si va in pensione. Non mi alzo più la mattina con dentro l’emozione di dovere entrare in classe, emozione che non mi ha mai abbandonato neppure l’ultimo giorno di scuola. Non so se i miei alunni abbiano conseguito una buona formazione. Il destino di noi insegnanti è quello di non vedere quasi mai i frutti del nostro lavoro. Che, se ci sono, diventano bagaglio e attrezzatura personali e servono ai giovani per costruire da soli la propria vita sfruttando le proprie opportunità, molto lontano da noi, come è giusto che sia.
E specialmente non insisto più nel volere spiegare sempre ciò che ho imparato e che mi appassiona, come facevo da piccola. Ho imparato a reprimere questo “vizio”. Tutt’al più quando mi trovo con le mie nipotine racconto loro le fiabe e do qualche spiegazione solo su reiterata e insistita richiesta. Io mi diverto e loro mi capiscono bene perché ormai non faccio più nessuna fatica ad usare la loro stessa lingua.

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