sabato 19 luglio 2025

 

Il mio viaggio in Grecia e a Istanbul 9-19 maggio 2025

 

La "crociera" come istituzione turistica di massa.

 

È un luogo organizzato per venire incontro a tutti i desideri materiali e fisici di una classe che potremmo definire di reddito medio.

Pertanto nella nave la parte più curata è la cucina. Ci sono pasti pronti a tutte le ore, in pratica c'è un enorme, gigantesco buffet sempre a disposizione di tutti con cibo per tutti i gusti internazionali. Poi la compagnia organizza giochi e intrattenimento a tutte le ore per grandi e piccoli: piscine, videogiochi, giochi d'acqua, ginnastica, ballo, karaoke e chi più ne ha più ne metta.

Ma.

C'è in tutto questo un che di stonato che si sostanzia proprio nell'eccesso. I tremilacinquecento  circa ospiti della nave sembrano come sollevati dai loro ambienti naturali e sistemati a pagamento, in una bolla fuori dal tempo e dallo spazio proprio dove non devono pensare che al proprio divertimento e relax.

 A fronte di ciò c'è il costo in denaro che ognuno ha già speso preventivamente ma anche quello che continua a spendere durante tutta la durata della crociera. Se si osserva dall'esterno appaiono evidenti alcuni elementi: il crocierista ha la sensazione di possedere finalmente ciò che non ha mai posseduto: accudimento, personale a disposizione, niente da fare di impegnativo e faticoso, in altri termini ciò che la classe sociale superiore ha di default.

Ma le spie dell'inganno sono molto evidenti: la corsa ad accaparrarsi i posti al buffet, i piatti che ciascuno si riempie come non ci fosse un domani salvo poi lasciare nel piatto almeno la metà della roba.

Io mi chiedo quale fine faccia tutta questa roba.

Questo è solo uno degli aspetti.

L'altra cosa è questa: non si comunica tanto a bordo poiché in genere la maggior parte delle persone non parte sola e conseguentemente  sta nell'ambito della propria compagnia.

Ho notato una signora di mezza età, sola, dall'apparenza sembra essere dell'est Europa. Non trova compagnia pur cambiando posto continuamente. Ha il piatto, anzi i piatti ricolmi di roba da mangiare, è già grassa di suo e continua a mangiare incessantemente. C'è tutta questa massa di gente che si sposta per tutti gli spazi della nave e ricopre ogni interstizio. Sì agghinda la sera con vestiti eleganti e pseudo gioielli. Ma rimane massa.

Poi sempre nella stessa nave c'è un altro luogo, situato al 17esimo livello.



Questa è la zona dei Vip che non si mescolano con gli altri crocieristi. Hanno ascensori privati, camerieri privati, ristoranti privati tutto molto privato, in modo da non venire mai a contatto con noi della classe inferiore (e dei piani inferiori).

In crociera come nella vita ordinaria questo è l'unico elemento che rispecchia la realtà: la separazione netta ed evidente tra classi sociali.


 

La serata di gala

Stasera la serata cosiddetta di gala. Nella folla enorme di gente, alcune donne hanno ben pensato di mettersi in abito da sera, in lungo, corredate da paillettes e lustrini vari. Ci si aspetterebbe eleganza anche nei movimenti e nell'approcciarsi agli altri. Ma, ripeto, tutti sono con il proprio entourage, spesso sguaiato. Il contrasto tra il vestiario e i modi è molto rilevante. E a volte anche i corpi fasciati in abiti aderenti di voile evidenziano culi enormi e braccia ben sviluppate. La maggior parte di queste donne sono o russe o comunque dell'est europeo. Talvolta qualche italiana. Nella massa le uniche donne veramente eleganti sono quelle anziane con i loro mariti in abito scuro. Le donne anziane sono molto composte nelle loro mise equilibrate con gonne e giacchette magari di broccato e ornate da qualche gioiello rigorosamente finto. Sono commoventi. Magari, ho pensato, festeggiano un qualche anniversario. Però fanno la loro figura. La cosa a mio avviso più orribile è stata la performance del ballo degli ufficiali: una decina di uomini in divisa bianca presi d'assalto da signore di varie età rigorosamente assatanate  essendo i loro mariti riottosi e per nulla propensi a buttarsi nella mischia. Insomma in una pista dal diametro di una decina di metri a volere essere generosi, una trentina di coppie accalcate a dimenarsi neanche a ritmo.

Mio marito ed io seduti in un angolo: ogni tanto lo guardavo e lui aveva tutta l'aria di pensare ma cosa ci è venuto in mente di fare?

E adesso dopo la cena di gala - dove tutte le pietanze avevano lo stesso sapore - lui ha voluto andare a letto e io sono rimasta qui da sola nel salone del piano bar ad ascoltare un po' di musica dal vivo, dopo che la gran parte delle persone finalmente è andata via.

 

La crociera ha due aspetti profondamente diversi per natura: la prima è quella succitata e che non varia per tutta la sua  durata essendo gli utenti fedeli a sé stessi dall’inizio alla fine e mai discostandosi dai comportamenti connotativi descritti.

La seconda è più bella e di valore: la possibilità di visitare luoghi e città molto distanti l’una dall’altra ma che tu fruisci nel variare di pochi giorni.

Olimpia

Ci sono in questi luoghi, a saper vedere, delle forme simili o assai dissimili a seconda della prospettiva da cui le guardi. Per esempio: Olimpia, in Grecia, che ti appare profondamente diversa da come l’avevi immaginata: chi ha fatto studi classici ha ammantato questo luogo e altri di cui dirò a breve, di un’aura mitica, quel mito che la cultura scolastica ha innestato nella nostra immaginazione.

Accade così che ti raffiguri un luogo ammantato di atmosfere auliche e quasi divine dove tutto trasuda antiche vestigia e di alti peana.

In realtà Olimpia sta su di una collina dolce e carezzata da un venticello leggero, abitata da ulivi secolari e da vegetazione bucolica. Nessun segno evidente di gloria tributato agli atleti che l’hanno resa celebre ma quel tanto di solitudine atta alla riflessione e alla meditazione.

In un avvallamento del terreno circostante c’è lo stadio che prende il nome dalla parola stàdion che era una unità di misura greca con la quale si misuravano i terreni in Grecia, portato alla luce solo in tempi recenti.


 




 

A lato, discosto due-trecento metri, c’è il gymnasium, la palestra cioè, per gli allenamenti degli atleti. Tutt’intorno una serie di reperti archeologici di quelli che furono gli ornamenti classici del luogo.

Olimpia, secondo l’esperienza che ne ho fatto, trasuda spiritualità da cogliere proprio nel silenzio e nello stormire delle fronde mentre nell’immaginazione puoi sentire gli echi delle voci degli atleti, il rumoreggiare degli spettatori e le valutazioni gridate dalla giuria.

Il mito del luogo è anche nel grande anfiteatro dove oggi campeggia l’insegna dei giochi olimpici così come fu voluta dal ri-creatore di quell’appuntamento di pace: Pierre De Gubertain che rifondò le Olimpiadi e restituì il lustro all’antico sito greco.

Ma a tutta questa atmosfera di ripristinata spiritualità fa da contrappunto lo schiamazzo e gli starnazzamenti del turismo di massa che nulla vede e nulla capisce, appagandosi solo con le foto di quel nulla di sé che rimarrà nel futuro. E nessuna memoria di ciò che è stato in quel glorioso passato.

Atene

E poi si arriva ad Atene.

La città moderna non si discosta da tutte le altre città europee con le sue case, con i suoi palazzi,  e soprattutto con il suo traffico disordinato e rumoroso tipico di ogni altra città. L’unico connotato

diverso è il colore bianco.  E’il bianco che domina dovunque, nelle strade, negli edifici e persino in parte dei vestiti degli abitanti.

 Gli uomini greci hanno un piglio speciale, come fossero i padroni del mondo. Sembrano avere grande contezza della loro origine, delle loro radici, sono centrali, ombelicali, ritti nel loro cammino, orgogliosi, ti guardano un po’ dall’alto in basso. Poi magari ti accorgi, parlando con loro, che l’essere greci è il segno di un’appartenenza forte. Hanno questa consapevolezza: essere stati i primi in occidente a creare il faro della civiltà con la loro lingua, con la loro filosofia, con la loro conoscenza.

Non tutti i greci sono acculturati ma questo è sempre il tratto innegabile del loro carattere: sei tu il barbaro.

La nostra simpaticissima guida, stressata dal troppo parlare e dal racconto della storia antica classica, soprattutto perché i turisti non lo ascoltano veramente, non sopporta di venire contraddetto.

Ha nella sua testa la verità rivelata e nelle sue tasche gonfie tutti i nostri euro che intasca con degnazione perché lui è il greco che ci rende acculturati e noi i barbari che abbiamo l’obbligo di starlo a sentire.

Si chiama Lorenzo perché figlio, chissà, di qualche italiano rimasto qui dopo la guerra. Ma le sue origini non lo esaltano; gli servono invece per guadagnarsi il pane attraverso la conoscenza della nostra lingua italiana.

Lorenzo è il perfetto prodotto della commistione di due culture: gentile e altezzoso, sicuro di sé ma sperso di fronte a qualche osservazione precisa che non padroneggia.

Mi ha prestato il suo giubbotto perché io, prevedendo il caldo, non ho preventivato i diciotto gradi scarsi di Atene e il venticello fresco che attraversa quella città.

Finalmente l’Acropoli: sorge in cima ad una collina e troneggia sulla città. I marmi delle colonne, delle statue, dell’Eretteo, sono fatti dello stesso marmo di cui è fatta la collina. E’ un marmo bianco, opaco e compatto che si presta benissimo alla lavorazione delle colone, dei frontoni, delle statue.

Il viaggiatore è avvolto da un’aura mistica e commovente di fronte a tanta bellezza e si rende conto di quanto possa essere stata la perizia e la cognizione della geometria e dell’aritmetica.

A scuola ci è stato insegnata l’estetica di quell’arte ma non la tecnica che veramente sta alla base di tanta bellezza. L’equilibrio e la proporzione delle parti producono quella stessa bellezza che ha affascinato tutto il mondo. L’eleganza delle pure forme dettate dal disegno delle linee calcolate al millimetro dagli architetti. Ci è voluta la scrittura di Vitruvio nel suo Architectura per farci comprendere come la tecnica stia alla base dell’estetica naturalmente commista all’intuizione artistica.

Dicevo che il Partenone e tutta l’Acropoli commuovono ma tale commozione si mescola con lo struggimento e la rabbia di dovere constatare e pensare perché mai l’umanità è costretta a vedere qui le strutture dei templi e al British Museum di Londra i fregi dipinti del frontone. Questo è intollerabile: che un popolo venga privato della propria storia attraverso la rapina dei vincitori delle guerre. E’ l’avidità dell’uomo la vera iattura e la sua medesima condanna.

E’ la stessa avidità che qui, in questa nave da crociera in cui mi trovo, fa sì che la massa dei turisti che di nulla si interessa, si rechi in ogni momento presso le numerose tavole calde allestite nei saloni della nave e al mattino riempie i propri vassoi con cibarie e dolci , uova  e bacon, brioches, e con tutte le cibarie arraffabili solo perché già pagato all’orgine ma che vengono poi abbandonate, sparse per i tavoli, perché la pancia più di tanto non regge.

 

Istanbul


Che dire di Istanbul?

Ci sono due modi di vedere la città di Istanbul: con lo sguardo del turista e con l'occhio del viaggiatore.

Se si arriva con una nave da crociera, dovrai attraversare gallerie illuminate da luci al neon che ti portano, dopo molti passi, ad una zona esterna piena di negozi con i marchi più prestigiosi: Gucci, Vuitton, Prada, quasi che aspettassero te che comprerai sicuramente la loro merce scontata al trenta per cento. Tu infatti sei andato/a a Istanbul per comprare questi beni di prestigio che potrai sfruttare adeguatamente durante le cene di gala, come quella prima descritta, che continuerai a fare nel corso di tutta la tua vita. Poi ti immergerai nel traffico della città e ti recherai nei luoghi degli acquisti, nel gran Bazar, nelle oreficerie, al mercato delle spezie dove ogni venditore ti proporrà la sua merce e tu contratterai con lui ad libitum e infine acquisterai con la convinzione tutta europea di avere fatto un buon affare. Mentre lui si fregherà le mani contento del guadagno realizzato.

Se arrivi a Istanbul con la medesima nave ma con l'irritazione di chi ha sbagliato tipo di viaggio, attraversando le medesime gallerie, guardando gli stessi negozi di Gucci, Prada etc, ti darai mille volte dell'imbecille per avere fatto una scelta infruttuosa di conoscenza. Infatti quegli oggetti lì li vedi tutti i giorni nelle vetrine dei negozi della tua città dove ti hanno destato riprovazione infinita. Ma ciononostante sei fortunato: alla fine dell'elegante calvario di borse e scarpe griffate, ti appare una vista magnifica: una città, per una piccola parte europea e per un'altra grandissima parte orientale, si squaderna al tuo sguardo: separata dalle acque del Bosforo, essa si estende nelle due rive luminosissime con tutti i suoi minareti e le moschee, le sue case di legno nelle due rive, i grandi palazzi alcuni di foggia turca altri, pochi, di foggia occidentale, e tu non vedi l'ora di tuffarti per le sue strade alla ricerca della sua anima.

Istanbul, comunque la si guardi, è una città magica, orientale, che si estende da una parte e dall’altra del Bosforo.

Una parte, piccola, appartiene all’occidente o così vorrebbero sentirsi dire gli abitanti, la parte più grande, immensa, appartiene decisamente all’oriente.

Instanbul ha 15.655.000 abitanti, secondo gli ultimi dati del 2023, e tu, viaggiatore, quando la vedi dal mare non te lo aspetti neppure e dici: no, non può essere.

Il fatto è che questa città si appalesa lentamente: man mano che entri nello stretto, vedi le prime costruzioni, le più antiche, di legno, prospicienti il mare.  La guida ti mette in guardia da questo tratto di mare: è insidioso e pieno di correnti e se decidi di bagnarti nelle sue acque sappi che verranno a recuperarti nel mar di Marmara.

Nel battello che ti conduce allo sbarco c’è un uomo anziano che vende il caffè che prepara lì al momento per chi volesse fare questa esperienza. Ma prima ti chiede se vuoi il caffè turco e ti dice che lui non ha il caffè espresso al quale siamo abituati noi occidentali. Se tu dici di sì, lui è contento e lo prepara lentamente nella sua caffettiera turca.

L’uomo turco è come te lo immagini: grassoccio con pancia prominente, baffi enormi e una specie di porro nero vistoso sulla guancia, grande quanto una noce.

Io mi faccio fare il caffè turco che lui mi serve presso la parte interna del battello apparecchiata come una sala da pranzo. E solo prima dello sbarco viene a chiedermi timidamente due euro.

Adesso siamo proprio in città e già tutta l’aria sa di oriente. Non puoi non sentire tutto il profumo di spezie che aleggia intorno.

La nostra guida, un ragazzo di nome Deniz che parla speditamente la nostra lingua, ha gli occhi azzurro-acquamarina e la cosa si nota molto per il contrasto con la pelle scura e la massa dei capelli neri. Deniz fa l’appello che ripeterà almeno una ventina di volte durante tutta la giornata. Per prima cosa ci porta nella piazza centrale di Istanbul e ci chiama a raccolta per illuminarci sulla storia della città. Per prima cosa ci dice che quella che sembra essere una piazza in realtà è un ippodromo fatto costruire dai romani dopo la conquista dell’Asia Minore. E poi si dilunga sulla storia della città che prima fu Bisanzio, poi Costantinopoli e, solo molto tempo dopo, Istanbul.

Ci dice come tutta la nostra storia del cristianesimo origina da questi luoghi dove Costantino, reso il Cristianesimo religione ufficiale dell’impero romano, iniziò a fare di questa città una vera capitale più grande della stessa Roma. E da qui principiarono a originarsi tutte le guerre tra oriente e occidente per l’affermazione del potere.

C’è in Deniz un orgoglio nel comunicare al gruppo queste notizie, tanto che poi si vuole accertare che le sue parole abbiano fatto breccia nel cuore e nella mente di tutti noi e ci interroga a salti.

Molti però di questo nostro gruppo non hanno neppure sentito le sue parole e guardano distrattamente ogni cosa dando segni di noia e sbuffando per essere stati costretti a subire la lezione di storia. Ma Deniz non fa una piega, continua imperterrito la sua litania e sembra proprio non avere alcuna voglia di smettere. Nel gruppo ci sono bambini che piangono, genitori che cercano in tutti i modi di calmarli ma non vedono l’ora in cui Deniz si deciderà a porre fine all’elenco delle sue informazioni e al colorito racconto di molti aneddoti. Molti hanno fretta di visitare la basilica della cisterna di cui hanno sentito parlare i loro amici e che adesso sono impazienti di fotografare per dimostrare loro, al ritorno, che ci sono stati.

 

 

 

Adesso che il gruppo dei crocieristi ha fotografato tutto il fotografabile, Deniz ci invita ad andare a pranzo in un piccolo ristorante tipico turco per la modica cifra di 15 euro. Non tutti partecipano ma quelli di noi che vanno possono assaporare delle pietanze buonissime molto vicine alla cucina mediterranea e dolci al pistacchio veramente superlativi. Dal mio punto di vista Istanbul ha la pasticceria più buona al mondo, una pasticceria che non lesina sulla quantità soprattutto della frutta secca che ne costituisce la base più caratteristica.

Deniz ci aveva avvertito che la parte più occidentale di Istanbul non è molto ligia ai dettami dell’Islam: molte sono le donne che non portano il velo e vestono all’occidentale. Tuttavia si vedono molte donne velate e anche molto devote che si recano da sole o in gruppo a pregare in Moschea. Mi incantano queste moschee, numerose, aperte, accoglienti, dove i fedeli vanno a tutte le ore senza organizzazioni liturgiche. Ognuno va quando vuole e se il muezzin chiama dai minareti, tutti sono liberi di andare o no in moschea, ognuno può pregare come e dove vuole perché non tutti sono liberi dal lavoro. Per una donna occidentale come me, entrare in moschea è una rivelazione: il senso di spiritualità che accomuna i luoghi di preghiera come nelle nostre chiese, anche qui è molto evidente. Le donne hanno degli spazi riservati e differenziati da quelli degli uomini: una zona schermata da paratie in legno traforate all’interno delle quali possono stare in ginocchio o anche sdraiate a pregare Allah pronunciabile solo col pensiero. Mi stupisce, prima di entrare, una serie di fontane con sedili per l’abluzione dei piedi. Nessun musulmano entra in moschea con le scarpe e senza prima avere lavato i propri piedi.

All’interno vicino all’ingresso ci sono apposite panche dove lasciare le scarpe che nessuno toccherà fintanto che ogni fedele è in preghiera.

Deniz ci porta a visitare la moschea di Santa Sofia, aperta, ci spiega, nuovamente al culto da Erdogan, dopo che per parecchio tempo era stata trasformata in un museo dell’Islam.

Ma questa visita mi lascia un po’ delusa: in molti punti l’intonaco cade a pezzi, e le zone dove sono state asportate le immagini bizantine sono rimaste scrostate e come monche, private di parti che si intuisce dovettero essere essenziali per l’arricchimento di quella che era stata una chiesa cristiana. La moschea appare adesso deturpata da queste inconsulte avulsioni di mosaici e certo l’islamizzazione non è giovata per niente e da quando, come già detto, ne è stato modificato l’uso, ha perso il suo allure primitivo.

Anche Istanbul non si sottrae ai danni del flusso turistico selvaggio e di sicuro il viaggiatore deve fare appello alla sua immaginazione per figurarsi la Istanbul del passato o quella che ha conosciuto dai libri.

Ma se tu vuoi conoscere il cuore dell’Islam è al Gran Bazar che devi andare. Qui è davvero un godimento tangibile per tutti i sensi: ti sentirai avvolto da effluvi di spezie di tutte le specie da quelli più conosciute a quelle completamente sconosciute e mai sentite nominare se non in qualche testo letterario.

 

 

Il visitatore che andasse per la prima volta al bazar rischierebbe di perdersi ammaliato anche dai colori vividi sistemati con sapiente cromìa dai mercanti e potrebbe conoscere il cardamomo, la curcuma, l'origano in versione orientale e tantissime altre spezie meno utilizzate da noi occidentali. E inoltre l’enorme assortimento di frutta liofilizzata che appaga solo allo sguardo.

 

E se ti capita di entrare in uno qualsiasi di questi negozi non puoi uscirne a mani vuote: la capacità dei venditori è tale che chiunque rimane affascinato. Prima ancora di proferire parola questi bravi affabulatori ti invitano solo a guardare e a condividere il tè caldo e aromatizzato che ti offrono in piccoli bicchieri di vetro. Solo dopo questa degustazione il bravo mercante ti mostra ciò che vorrebbe tu acquistassi ma lo fa accompagnando la vista con la parola: racconti, descrizioni, ricette di cucina, e intanto ti indica con perizia la diversità e la qualità delle merci, con la sua pronuncia inglese quasi senza inflessioni. Anche se tu non dici nulla, lui ti confeziona un pacchetto con questo e quell’altro prodotto fin quando tu non dici: basta. E non ti chiede nulla ma aspetta sia tu a chiedere il costo con un cenno della mano. Naturalmente questo è solo l’inizio: qui inizia la vera e propria cerimonia della contrattazione alla quale noi, nella nostra concezione capitalistica del tempo che è danaro, non siamo abituati ma che per loro fa parte integrante della transazione. E quand’anche tu dessi subito quello che ti chiede, lui non è soddisfatto. Si sente, per così dire, sminuito nel suo valore mercantile che sta tutto nell’atto della contrattazione che è più importante dell’acquisto in sé. 

E mi sembrava di sentire mia madre in Sicilia tanti, troppi anni fa, che contrattava su ogni cosa con i venditori ambulanti, anche sull’uva e le mele. E quello non era perdere tempo ma interagire tra pari e imbastire discorsi partendo dal prezzo per conoscere l’altro e acquisire notizie sul resto del paese.

Le guide turistiche mettono in guardia i gruppi in visita raccomandando di dimezzare il prezzo richiesto per poi magari arrivare ad un accordo finale pian piano aggiungendo o togliendo qualche euro di troppo.

Il bazar può paragonarsi a un nostro centro commerciale dove tutto è esposto e a portata di mano del compratore: si può toccare, indossare, annusare, fare un giro. I mercanti non redarguiscono nessuno. Si possono trovare pezzi di seta molto belli o pashmine coloratissime o anche abiti orientali. Ma la cosa per noi più incredibile è la pelletteria: si trovano modelli taroccati delle più grandi marche mondiali di squisita fattura: non diresti mai che siano delle volgari imitazioni. Solo un intenditore vero può accorgersi del falso. Fatalmente mi sono vengono in mente i vasi etruschi che ho visto a Vulci in Etruria che erano la copia esatta dei vasi importati dalla Grecia classica e ho pensato che tutto si ripete a questo mondo: c’è stato un tempo in cui  i falsari eravamo noi per avidità dei mercanti e vanità dei romani antichi e questo altro tempo dove cambia l’oggetto ma non la motivazione.

Ma tutto questo non basta ancora: ci sono ancora le gioiellerie, le pietre preziose: smeraldi, zaffiri, rubini incastonati all’interno di bracciali, collane, anelli finemente lavorati in oro e argento. Uno scintillio magico, l’anticamera del paradiso terrestre. Se potesse, ognuno di noi si impadronirebbe di qualsiasi cosa.

Ma adesso lasciamo il gran Bazar e tutte le sue magiche insidie e allontaniamoci per le viuzze strette della vecchia Istanbul dove è possibile acquistare formelle di pane azzimo e salse di ogni tipo. E attraverso i basolati lisci e scivolosi d’acqua sparsa per la pulizia serale delle strade, camminiamo a rilento per raggiungere il nostro punto d’incontro col gruppo e tornare sulla nostra nave. Gli occhi pieni di colori e di immagini scolpiscono nel cuore e nella mente i ricordi di questo pezzo di mondo così diverso da noi, così lontano.






























venerdì 2 maggio 2025

 

 

 

 

Il tempo materiale

di Giorgio Vasta

Ed. Minimum fax 2008

 

di Maria Rosa Giannalia

 

Il libro che vi propongo questo mese, non è recentissimo. E’ un romanzo scritto da Giorgio Vasta, scrittore palermitano, dal titolo  Il tempo materiale pubblicato da Minimum fax nel 2008.

L’autore con questa sua opera prima ha vinto nel 2010 il premio città di Viagrande e nel 2011 il Prix Ulysse du Premier Roman.

In una Palermo, nel sud isolano e isolato, tre ragazzini, appartenenti alla buona borghesia cittadina che abita i nuovi quartieri costruiti in seguito al sacco della città ad opera degli imprenditori mafiosi con il beneplacito dei politici collusi, si persuadono all’emulazione delle Brigate Rosse sull’onda dell’ideologia veicolata dal linguaggio dei proclami e manifesti. I tre ragazzini, appena adolescenti, che si danno dei nomi di fantasia: Nimbo, Scarmiglia e Bocca, organizzano  sequestri nell’unico ambito per essi possibile: la scuola, per impratichirsi nelle modalità della rivoluzione politica del mondo che verrà, un mondo nuovo emendato da tutte le ingiustizie sociali, così come all’epoca i manifesti dei brigatisti facevano intravedere.

La lingua usata dai terroristi è il leit-motif che attraversa tutto il romanzo, un linguaggio affascinante e allucinato che su, Scarmiglia, il capo dei tre amici ha un effetto dirompente.

Duro, preciso, terribile e tenero nello stesso tempo, è questo libro di esordio di Giorgio Vasta. Più che d'esordio sembra un romanzo di un autore che abbia già avuto grande dimestichezza con la parola e quindi autore di lungo corso. Vasta riesce in questo romanzo a narrare con un linguaggio accurato e affilatissimo la storia innocente e terribile dei tre ragazzini, una storia nella Palermo del '78 al tempo del sequestro Moro e dell'impazzare delle brigate rosse con i loro proclami e con un nuovo linguaggio. Quel linguaggio che ebbe, in quel periodo, vastissima eco tale da connotare per la prima volta la lingua giovanile di quegli anni attestatasi su un registro aulico, letterario e forzatamente preciso per significare le nuove logiche politiche della "rivoluzione" ideologica.

 

“…immobile, soltanto sensoriale, riuscire a guarire dall’infezione delle parole. Perché ho capito che mentre il compagno Volo lavorava per diventare prigioniero politico, io ho lavorato per potermi dichiarare, adesso, prigioniero mitopoietico. Solo questo. Il piacere di stare nelle frasi. La fatica. La paura di uscire dalle frasi. Per un anno ho fabbricato linguaggio – proclamare, enfatizzare, minacciare – e l’ho attraversato un passo alla volta, una parola dopo l’altra, fino ad arrivare qui, ora, quasi le sette di sera del 21 dicembre 1978, a fare l’eversore dell’eversione. Mi guardo ancora alle spalle; la strada vuota.”

La novità è che proprio attraverso questo linguaggio, l'autore descrive l'ansia e le aspirazioni dei tre ragazzini palermitani fornendo uno spaccato di vita e di differenze sociali della città di Palermo che, nel libro, si sostanziano nella lingua utilizzata, nella dicotomia, cioè, tra lingua italiana e dialetto.

Una lingua che corre nel testo, svelle e divora, racconta la rabbia e la trasformazione. I brigatisti sono sempre accesi, sempre apocalittici. Scrivono «lotta attiva», scrivono «disarticolare le strutture». Sono oracolari. I padri del deserto hanno lasciato le distese di sabbia della Palestina e sono venuti in città, nelle università e nelle fabbriche, a raccontare, a testimoniare, a predire e a maledire.

Ne consegue una visione tragica del mondo, ideologizzata, irreale e, a tratti, onirica ma che, credo, si debba leggere come una grande metafora di ciò che cambia e di ciò che resta nel mondo e difficile da esprimere: la materialità della parola. Importante notare come la parola infezione ricorra molte volte nel corso di tutta la narrazione ma specialmente nella parte iniziale, dove il termine va palesemente a significare ciò che etimologicamente indica in senso figurato: azione diffusa e minacciosa a danno dell'integrità individuale e sociale ( Devoto-Oli Dizionario della lingua italiana).

Perchè proprio di questo si tratta: l'ideologia delle Brigate Rosse si diffonde e permea gli animi dei tre giovanissimi adolescenti persuadendoli ad una mimesi perniciosa a danno della loro stessa comunità: la scuola.

 

Eppure, per noi che sappiamo percepirlo, un fermento c’è. Un’eccitazione. Il bisogno di essere famelici, di qualcosa che prenda e trascini, di qualcosa su cui concentrarsi. Sulla lotta, per esempio. Perché di questo si tratta. La parola lotta contiene sesso, rabbia e sogno. Allora si prova a pronunciarla sottovoce, impudichi, e si cerca di connetterla a un’azione. A quel punto però torna l’opaco, la smerigliatura che divide il proposito dalla sua realizzazione. Avete pensato a quello che vi ho detto delle Brigate Rosse?, domanda.

[…]

“Non ho paura di loro, dice Scarmiglia, perché io parlo in italiano. Io, noi tre, parliamo in italiano. E cioè che cosa gli hai detto?, domando. Ho chiesto un’informazione usando per tutto il tempo il congiuntivo. Il sorriso gli diventa più grande e riempie una pausa di silenzio. Poi riprende. Per loro le parole sono chiodi e martello, dice, cucchiai e coltelli.”

 

Per me questo è un libro bellissimo che ho letto d'un fiato , la cui pregnanza mi ha folgorato in mezzo alla banalità di tanta scrittura contemporanea.

 

 

venerdì 8 dicembre 2023

"Dolce per sé è il ricordo"

 


"Dolce per sé è il ricordo..."

 

E' ancora là la casetta piccola, a due piani, dipinta di calce bianca con striature ingrigite dal tempo. L'abbiamo messo in vendita. E' in vendita già da alcuni anni ma non l'acquista nessuno. E' la casa dei miei genitori. Sta in una vaneddra, una viuzza come ce ne sono tante, nel mio piccolo paese, in un quartiere cui, non ho mai saputo perché, fu dato il nome di Tripoli. Ma fu un nome profetico perché il trascorrere fatidico del tempo restituisce ora il senso a quel nome. Tanti magrehebini lo abitano adesso senza che la loro lingua si distingua dalla parlata della gente di là. Stessi suoni gutturali, stessa modulazione vocale, stesse parole, a volte. La lingua siciliana ha tante inflessioni arabe e, se udita a distanza, sfuma e si confonde con questa e questa con quella. Da tempo le inflessioni amalgamano quella gente in un'unica popolazione, senza differenze se non nei nomi.

 In questo posto io ci sono nata.

La mia casa si apriva alla strada e quasi proseguiva in essa. La strada un tempo, nel mio tempo d'infanzia, non era un luogo diverso. Era la casa stessa, era la mia casa all'aperto. Non un giardino, non un cortile, ma proprio la casa stessa -  priva del tetto- dove si andava, noi bambini a continuare la nostra vita di dentro. Il fuori era sinonimo stesso della casa, e indicava il suo luogo più fresco, quando d'estate c'era un gran caldo e tutti non potevamo stare nel chiuso delle mura, dove non era neppure pensabile un gioco di movimento per me e i miei fratelli, noi che eravamo, a turni intercambiabili, ora gli yankee ora gli indiani e ci rincorrevamo e ci lanciavamo i sassi col tirapietre.  La strada era la nostra casa anche d'inverno, nei caldi inverni siciliani, con le lame di luce nei gialli muri di tufo che a Natale ci facevano gustare l'effetto dell'affabulazione collettiva all'aperto con distribuzione di fette di limone col sale, in un giro di ragazzine vocianti e di madri affacciate all'uscio.

C'era in quella casa un terrazzo con le tegole del tetto consunte per i troppi anni e ricoperte, a dicembre, da un fitto spessore di muschio. Quello era il muschio di Natale per me che andavo a sollevarlo, attaccato com'era fortemente alla creta, con la lama di un coltello.  Ce n'era tanto. Insieme ai miei fratelli lo sdradicavo quasi tutto. E dopo averlo fatto essiccare un po' al sole, tutto quel muschio diventava il tappeto erboso del nostro presepio. Andavamo poi alla ricerca di pezzi di sughero, più difficili da trovare. Ma l'effetto finale era bello: tutto quel sughero addossato alla parete della nostra sala da pranzo diventava: case, stalle, botteghe dell'arrotino e del pescivendolo, piccole casette dento le quali stavano a filare le figurine femminili del presepe e il ciabattino con il martello  e la scarpa in mano. E le stradine di piccola ghiaia dove, vicino alla grotta si collocava "u spavintatu ru prisepiu" un pastorello con le braccia e le mani alzate in atteggiamento di grande meraviglia per l'evento della nascita del Bambino. Molto più difficile diventava la collocazione delle luci. Piccole lucine tutte colorate che dovevano andare ciascuna dentro ogni anfratto di sughero o dentro ogni casetta. Era lì che scatenavano le sciarre: c'era sempre chi tra noi pestava il filo o non riusciva a districarlo o rompeva le lucine. Allora erano sequele di urla dei più grandi e qualche scappellotto volava a filo di testa.

Persino l'acqua, quella vera, mettevamo dentro una piccola vasca camuffata tutt'intorno dal provvidenziale muschio. Acqua che spesso faceva saltare la corrente avvolgendo nel buio più completo quel piccolo paesaggio, magari nel bel mezzo del pranzo di Natale.

Il pranzo non era quel trionfo di gola che oggi affolla ogni tavola. C'erano gli anelletti col sugo di carne e piselli, la pasta della festa, e i brocioloni ripieni di pangrattato, uvetta e pinoli. Ma il segno distintivo della festa c'era sempre: cannoli e buccellati. In tutte le tavole c'erano.

E quella nostra piccola casa ci conteneva tutti, nonni, mamme, padri, zii e cugini, in un vociare festoso e assordante al quale nessuno si sottraeva. La festa era: stare tutti insieme nella casa piccola che spesso si allargava nella strada. Bastava solo aprire la porta. E se qualche vicino passava, pure lui era invitato a partecipare, a mangiare e a giocare con noi. La nostra piccola casa aveva, nel piano superiore, due piccole camere da letto con il soffitto dove un qualche imbianchino con vocazione d'artista aveva trovato il modo di dare un saggio della sua maestrìa: un dipinto con scene campestri e tralci di edera. E persino una casa di campagna con tanti alberi e tanto verde intorno, dove io mi rifugiavo immaginandomi avventure regali di principesse e principi, di re e di regine. Quella era la casa dei miei sogni, la casa che abitavo ogni notte, dove tra fughe di stanze e vasi di fiori c'era una stanza tutta per me con le tende bianche alla finestra e un letto a baldacchino dove io dormivo da sola senza il fastidio dei fratelli e di mia madre che mi costringeva alle faccende di casa. Cosa che odiavo di più al mondo: non riuscivo a capire perché mai solo io, dei quattro figli che eravamo, dovevo aiutare la mamma a pulire, rigovernare, lavare i pavimenti e rifare i letti. Ecco, io questa cosa qui non la volevo fare. Io volevo leggere e guardare la parete dipinta e immaginarmi principessa in mezzo alle mie stanze. Ero strenuamente sorda ad ogni rimprovero e la mia resistenza aveva quasi sempre la meglio.

Era in questa casa che noi bambini aspettavamo a lungo, nei pomeriggi delle domeniche estive, mio padre che ci prometteva di portarci al mare. Noi lo aspettavamo, ma quando la luce del sole lasciava la mano alla azzurra penombra della sera, perdevamo le speranze e uscivamo a giocare in strada con gli amici. Quelle delusioni preludevano ai pianti e mia madre, infastidita dalle proteste nostre e dall'assenza del marito, sfogava spesso il suo malcontento facendoci rientrare alla svelta e sbarrandoci l'accesso alla strada con il chiavistello. Spesso cenavamo senza di lui, spesso andavamo a letto senza vederlo né salutarlo. Ma tardi, ancora sveglia, mi riusciva di sentire i passi pesanti di mio padre che rincasava a notte fonda e qualche strillo di mia madre che si lagnava di aver dovuto, la sera della festa, cenare da sola con i bambini. Non erano assenze colpevoli. Erano assenze necessarie. Lui, mio padre, il suo lavoro lo cercava così, nella piazza del paese, nella banchina. La banchina era luogo d'ingaggio e piazza di scambi, sito privilegiato delle transazioni ma pure del libero ritrovo tra   uomini. Le donne non vi avevano accesso. Solo i maschi potevano esercitare questo loro diritto tacitamente riconosciuto. Anche le bambine non potevano frequentarlo, se non accompagnate dal genitore. Lui, mio padre, mi portava qualche volta con sé. Ed io riverberavo l'orgoglio dell'accesso in quel luogo a me proibito, se sola. C'era un caffè, poco più di un chiosco coperto in realtà, dove gli uomini andavano a bere e a giocare a carte. Il bancone aveva una vetrina ricoperta di dolciumi che variavano ad ogni stagione: cannoli, pasticciotti, iris con crema di ricotta, cartocci pieni di crema, d'inverno; frutti di martorana, dolcetti biscottati all'anice, pupi di zucchero per la festa dei morti in autunno; gelati di tutte le specie in primavera e in estate. Ognuno per una festa. Ognuno col suo turno di apparizione. Mi incantavo a guardare. Mio padre col suo sorriso appena abbozzato mi lanciava uno sguardo d'intesa e faceva materializzare nelle mie mani almeno uno di quei meravigliosi dolci.

E così, nelle mie sere di festa, quando lui non tornava a casa a saldare la promessa di una passeggiata, me ne andavo a letto delusa, ma non sconfitta. La mattina dopo, quando mi alzavo per andare a scuola, - mio padre era già andato via da alcune ore- lo cercavo  e non lo trovavo più in casa. Ma sul grigio marmo del comò della sua camera da letto c'era sempre un pasticciotto per me.

 


martedì 20 dicembre 2022

Recensioni sul romanzo di Maria Rosa Giannalia " D'oro e di cemento" ed. Amicolibro Cagliari ottobre 2022

 


Recensione di Bianca Mannu


D’oro e di cemento: titolo icastico e bellissimo perché sintesi granitica del romanzo di Maria Rosa Giannalia , nel suo riferimento veritiero alla vicenda storica e sociale che ha interessato la Sicilia occidentale nella seconda metà del Novecento. Anche solo per questo, il romanzo si staglia come opera di realismo letterario, senza farsi cronaca o indulgere alla coreografia poliziesca, invalsa in opere di genere.

Il tessuto narrativo si snoda coniugando l’uso perfetto dell’italiano con il sottofondo melodico e iterativo del siciliano, anche al netto dei richiami dialettali che connotano specificatamente, prima  gli anni immaturi,  poi i momenti psicologici e le temperie umorali giovanili, e, dopo ancora, i discorsi interiori e l’interlocuzione, viepiù distante e critica, del protagonista narratore con il suo mentore (il “parrino” Michele) e infine quella con il giudice istruttore (presenza assente, come un Dio senza deità).

Lo stile narrativo, davvero particolare e significativo, si fa mondo e risuona  come una musica che si articoli su tonalità diverse  e variazioni a strappi, ottenuti dall’emersione brusca di motti e proverbi dialettali, punti sintomatici del granitico legame etico culturale limitato e denso di ambiguità , cui  Mimmino è costretto ad appoggiarsi  non avendo potuto beneficiare di modelli culturali di confronto prima e fuori dal suo precoce ingaggio nel mestiere.  Su quel magro sostrato   va  a stagliarsi il conflitto interiore del protagonista alle prese con le istanze educative primigenie credule e gli effetti  ambivalenti, tra fascinazione e coercizione, del mondo fisicamente incombente, reale e ambiguo.

Un altro elemento strutturale e di notevole efficacia realistica è la considerevole competenza e disinvoltura con cui l’Autrice entra e ci conduce nel cerchio professionale  di Michele e del giovanissimo Mimmino. Forte di questa conoscenza (quasi diretta), Giannalia rende linguisticamente palpabile (senza mai indurre alla noia) la ratio edile dentro la vita del protagonista, raccontando come  ne diriga i sogni, ne motivi le fatiche, ne giustifichi le scelte “amicali” e i cogenti legami d’interesse e fedeltà al gruppo e ai capi, insieme con l’accoglimento  dei rischi immediati e possibili, peraltro pensati come controllabili ad libitum, per via della divisione dei compiti operativi nell’ambito della cosca stessa, come l’Autrice sottolinea.

  In effetti è  proprio la forma mentis acquisita tramite la pratica edile  e il caotico portato culturale di riferimento (ostaggio di parecchie confusioni concettuali, come quella  tra timidità caratteriale di una persona e la presunta mitezza/bontà, ritenuta  inossidabile perché costitutiva) a suscitare in Mimmino il progetto allettante -  da prospettare all’uomo d’onore di una cosca esistente, ma ancora di poco respiro -  circa la possibile trasformazione degli agrumeti in aree edificabili, con esiti molto remunerativa nei convincenti precalcoli.       

In effetti il romanzo, condotto in punta di una ben calibrata prosa narrativa, è il percorso di educazione e autoeducazione di Mimmino. Questi, entità umana nell’albore della vita, si presenta segnato dal sentimento d’ingenua identificazione con l’alter ego Michele, il buono . Ecco Mimmino, adolescente operaio dipendente e povero, affidato a se stesso,  ricco di desideri, sogni, e afflitto da piccole scaramucce interiori; lo ritroviamo quasi maturo, sguarnito di veri fondamenti umani, preso nei tentativi ben poco fruttuosi di corrispondere a  una ideale consistenza fondata sulla bravura professionale; eccolo ancora librarsi,  nel segno della promozione del sé e dell’ego, per proporsi a un mondo ristretto di figure dalle referenze ambigue, mettendo in gioco la sua professionalità, ma sopra tutto la sua aperta compatibilità morale verso l’avidità altrui, peraltro paludata d’affabilità e d’intenzioni coperte, di cui già aveva indiretta esperienza; infine  eccolo disfarsi di ogni autocontrollo volitivo e  propendere per la facile accettazione della via breve delle collusioni e delle prevaricazioni, verso la scalata economica e il successo sociale.

 Come cieco e sordo, precipita nella polvere della caduta, nella irrefutabile condizione del proprio fallimento umano e della contestuale carcerazione, il carcere, sola casella sanzionatrice del suo crollo. Inizia così a guardarsi denudato di colpo, non solo imputato, ma proprio amputato dell’aureola dell’onorabilità umana e dell’amabilità familiare, per l’eternità della vita e della già iniziata nuova generazione.

Infine il maturo Mimmino si avverte privo anche del minimo desiderio di adire a una sorta di ricupero sociale mediante la dissociazione e la delazione. Il ricorso a tale pratica tribunalizia significherebbe potersi tirar fuori a buon mercato dalle responsabilità assunte con le proprie scelte e assicurarsi una sorta di sussistenza oscurata e protetta a carico della comunità sociale indistinta. Ora la sua maturazione fulminea si commisura con l’impraticabilità personale di una tale opzione: i fatti non si possono né disfare né bypassare. I fatti sono le tessere episodiche e parziali di un sistema di relazioni irriducibile alla partizione degli umani in schiera dei buoni e in quella dei cattivi, oppure nella distinzione tra chi ce l’ha fatta senza incidenti di percorso e appare a sé e a tutti come “a posto”, e chi – fallito per colpa orrenda e per ybris – non potrà mai guardarsi allo specchio o negli occhi del proprio figlio, né tollerare una specie di morte civile a stipendio garantito.  

Qui l’Autrice, nei panni interiori di Mimmino, dimostra una sottigliezza concettuale e argomentativa, che sembra lambire il margine delle teorie eticopolitiche volte alla ricerca teorica e pratica delle palingenesi umane sistemiche. L’apocalisse o la rinascita – pensa Mimmino - o è per tutti  o non è, poiché le “verità” parziali sono farsa, accomodamenti vani, incapaci di sradicare i mali sociali e di bonificare profondamente le coscienze individuali; meno che mai quelle che sono rimaste consapevolmente invischiate per ignoranza, avidità e senso di prepotenza, in segrete pratiche di potere e torti umani insuperabili .

 Soleminis (CA)  24 marzo 2023

 

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Recensione di Alessandro Ghisu

V classe liceo scientifico Euclide - Cagliari

 "No, che non parlo. La mia famiglia è questa ormai".

Maria Rosa Giannalia ci presenta in "D'Oro e di Cemento" uno spaccato di vita degli anni '60 in Sicilia, 

attraverso l'occhio di un  boss mafioso, Mimmino,  che, dopo una vita di malefatte, trovandosi in 

carcere, decide di confessare le sue colpe. Tuttavia, egli chiarisce sin da subito come non abbia 

intenzione di tradire i suoi compagni, definendoli come la sua famiglia. Egli nasce da una modesta 

famiglia di operai, e sin da piccolo conosce la fatica e la povertà, impara il mestiere di muratore dal suo 

padrino, onesto e bravo lavoratore, ma dopo i vent'anni decide di allontanarsi da lui e avvicinarsi alla 

cosca mafiosa del suo paese presso la quale si affilia per trovare una forma alternativa e più 

remunerativa di vita e per potere avere tutto ciò che mai aveva avuto.

Con questo espediente narrativo, l'autrice non racconta la mafia che agisce esplicitamente, con omicidi 

o violenze, bensì quella più subdola, nascosta dietro l'omertà delle persone, che si sostituisce allo Stato 

presentandosi come conveniente alternativa.

Viene raccontata così la mafia sotto un punto di vista completamente nuovo, ovvero quello di un 

ragazzo che vuole arricchirsi con il suo lavoro e di come riesce a scalare i gradini dell'associazione 

mafiosa fino a diventarne uno dei boss più noti.

L'autrice ci fa vivere a pieno l'ambiente siciliano del tempo, decidendo di scrivere in dialetto con

frequenti forme colloquiali, proverbi e dicerie, e modificando la sintassi e il lessico per rendere il 

linguaggio più simile ad una forma parlata che emerge soprattutto nella descrizione della mentalità 

contorta del protagonista, che continuamente si interroga sulle sue azioni, domandandosi cosa sia 

successo nella sua vita per essersi ritrovato in quella sua situazione. Perché è nato in una famiglia 

povera? Perché ha dovuto lavorare sin da piccolo in cantiere? Il romanzo si chiude perciò con una

importante riflessione del protagonista, che solo negli anni della galera ha potuto ritrovare quella gioia 

della cultura che provava soltanto quando il suo padrino gli leggeva storie, e non negli  anni della 

scuola, per lui troppo ostica e noiosa.

Perciò, consiglio caldamente la lettura di questo romanzo a chiunque voglia conoscere la mentalità del 

tempo, capire come la mafia si introducesse nella vita delle persone, e soprattutto, per capire a pieno 

l'importanza della cultura.

Cagliari 8 marzo 2023


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Recensione di Elisabetta Rombi


   Ho letto il  romanzo D'oro e di cemento di Maria Rosa Giannalia e l'ho trovato molto interessante e

 riuscito. Non posso sviscerarne tutti gli aspetti, solo qualche osservazione rapida: la scelta del punto di

 vista dà a chi legge la possibilità di una prospettiva inusuale, capace però di rendere la complessità

 dell'animo umano nelle sue contraddizioni (Mimmino tra l'ammirazione e l' affetto del parrino e la

 seduzione di una vita di benessere). Il suo patto col diavolo è reso con credibilità, Mimmino emerge

 come un personaggio autentico, con le sue luci e ombre. E questo lo apprezzo particolarmente:  in un

 momento in cui le distinzioni tra bene e male si fanno marcate, è molto bello che qualcuno ci ricordi

 che gli umani sono difficilmente catalogabili. Mi è piaciuta quella voce (la sentivo parlare) mi è 

 piaciuto il ritmo della narrazione (molto musicale) ho percepito  sotto l'italiano  il siciliano. E le lingue 

regionali sono sempre  più vicine all'anima della gente. Non è un giallo:   è  il pregio della narrazione. 

Riuscita la struttura e i personaggi. C'è una bella tensione, viene voglia di leggerlo d'un fiato ma poi  

manca qualcosa quando termina. 

Cagliari 8 marzo 2023


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Recensione di Rita di Gusberti

  Il duro lavoro, le contraddizioni, la violenza della realtà quotidiana a Villaranci, piccolo paese vicino a Palermo, dove di svolge la vicenda che inizia negli anni Cinquanta e si conclude negli anni Sessanta con la distruzione della Conca d’Oro.

   E’ il mondo di Mimmino, il protagonista, di cui conosciamo percorso di vita, scelte e interiorità fatta di affetti, frustrazioni, distruttività.

   Due piani narrativi e due piani temporali in cui passato e presente si alternano, speculari e funzionali l’uno all’altro, distinti graficamente e con due possibili livelli differenziati di lettura.

    Siamo trasportati nelle vie del paese, nei cantieri di lavoro, nelle case; ascoltiamo le voci dei personaggi; partecipiamo alle mense a volte ricche, a volte povere di cibo, altre volte povere di affetti; vediamo il colore dei campi e sentiamo il profumo della zagara.

    Un’esperienza sensoriale, a tratti sensuale, veicolata dalle descrizioni di paesaggi, di ambienti, di spaccati di vita e dall’uso di un linguaggio molto connotato nei diversi registri soprattutto nella parlata siciliana, quasi una tessitura narrativa.

    Attraversiamo il mondo dei muratori e dei giornalieri, umili e sfruttati senza alcuna possibilità di riscatto, e quello dei mafiosi arricchiti col sacco di Palermo e che, insieme al paesaggio e all’economia, hanno distrutto anche il tessuto sociale e umano.

    In questo contesto Mimmino tradisce i valori di onestà appresi da mastro Michele, il parrino, figura chiave, e li baratta con il lusso e con l’ascesa nella scala sociale.

   Incontriamo figure femminili, alcune identificate nel loro ruolo all’interno della famiglia e altre connotate come Rosetta, con le lacrime azzurre, e Giuseppina, resa muta da Mimmino. Due percorsi di vita che diventano l’uno il contraltare dell’altro.

   Il protagonista si racconta a tre soggetti diversi e in tre contesti diversi: al lettore direttamente; al parrino attraverso la memoria, lo spazio entro cui lo fa agire; al magistrato in carcere, dove è ascoltato in silenzio e senza essere giudicato.

    In realtà parla a sé stesso in una sorta di mappatura esistenziale e autoassolutoria della sua vita e della sua scelta mai rinnegata, attribuendo l’intera responsabilità alle Istituzioni assenti in un mondo dominato da mafia, corruzione e malaffare a tal punto da rendere illusorio, se non del tutto inutile, il tentativo di uscire dalla miseria senza tradire i propri valori.

    Questo il nodo centrale della narrazione, questo il grande interrogativo etico sotteso: come conciliare l’aspirazione al riscatto sociale con l’onestà e il senso civico?

   Una domanda ineludibile di fronte a meccanismi perversi così profondamente radicati, alle responsabilità delle Istituzioni e dei singoli individui cui Mimmino abdica, al senso di fatalismo dominante.

   Nessuno spazio per la speranza, ma una sfida che può concretizzarsi nella figura di Rosetta e, nel finale, in quella di Mimmino.

   Il libro cattura, fa riflettere, interroga.

Chiavari 18/01/2023


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Recensione di Damiana Marongiu

   D' oro e di cemento è un romanzo   di vita vera, molto profondo ma di facile e piacevole lettura.

   I fatti raccontati appartengono ad una realtà  siciliana  e meridionale in generale.

    Mimmino, protagonista principale insieme al padrino Michele si racconta  ad un giudice immaginario in modo staccato da se stesso come se vedesse i fatti dal di fuori.

   Il racconto di Mimmino in prima persona ci mostra  una Sicilia  umile, generosa e  povera. La povertà e  l'ignoranza , la povertà e la cultura sono lo spartiacque che differenziano il pensiero dei protagonisti e di conseguenza gli eventi e le scelte di vita degli stessi.

   Il romanzo ci porta ad una esperienza  sensoriale immaginaria completa,  con il profumo   delle zagare, il gusto dolce dei mandarini, il paesaggio dorato dal sole e il canto degli uccelli  tra gli alberi di mandarini.

   Questo romanzo vi farà conoscere uno spaccato di vita reale

  della bella Sicilia.

 

Quartu Sant’Elena 15/01/2023


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 Recensione di Giuseppe Ciminna 

Ho raccolto le chiavi di lettura del tuo libro che come compaesano sento già mio. Hai saputo tessere storia, cultura e Invitare alle riflessioni. Un fantastico racconto, originale nell’idea e nello stile letterario, dove costume e politica invitano il lettore a capire- attraverso una lettura piacevole - lo studio antropologico e sociale e lo sviluppo subdolo dei territori e nostro in particolare. Un regalo alle nuove generazioni che hanno bisogno di conoscere la storia del proprio territorio, il senso e le dinamiche del presente. Trovo originale la forma di scrittura con cui si evolve il racconto del protagonista. Sei grande!

Villabate 13-01-2023

 

                                                                   *******

 

Recensione di Daniela Patti 

  Ho letto il  libro e sono stata molto coinvolta da varie riflessioni che via via ha suscitato in me la lettura del racconto. Non mi soffermo a commentare lo stile, il linguaggio (che comunque trovo molto scorrevole e semplice adatto a tutti i tipi di lettori) quanto piuttosto al contenuto. I luoghi il paesaggio sono ben descritti e rappresentati tanto da poterli immaginare nella mente, vederne i colori e sentirne il profumo della zagara e degli agrumi; inoltre per me che sono del territorio i personaggi sono figure attuali che possono riscontarsi anche adesso nei modi di pensare e di fare di tanta gente, persone comuni in cui ancora persiste questa cultura, questa mentalità. Trovo che sia anche adatto alla lettura delle nuove generazioni per comprendere meglio le radici del nostro territorio, dei modi di fare della gente del luogo, che, anche oggi, seppure a distanza di tanti anni, serpeggia tra chi sembra essersi emancipato e chi è rimasto legato alle tradizioni. Figura centrale è Mimmino un uomo che incarna bene le varie sfaccettature di personalità comune a gente che anche oggi dopo essere cresciuta con dei "valori" ad un certo punto si trova davanti ad una scelta, ma anche gli altri personaggi (seppur meno evidenti) ci raccontano molto del ruolo che occupano e che rappresentano nella realtà quotidiana del territorio. Leggendo attentamente è un libro che scava molto dentro l'animo umano mettendo in risalto i conflitti interiori che ognuno di noi è chiamato a vivere per rimanere nel territorio con le conseguenze che deve sopportare in base alle proprie scelta di vita. Noi siamo il frutto delle nostre scelte, scelte fatte in base ai valori che abbiamo ricevuto, raccolto e voluto portare con noi nel nostro bagaglio, che ci portiamo dietro e segnano la nostra vita. Uno spaccato della società di quel periodo storico che si attualizza anche oggi in cui il sacco di Palermo continua ad essere presente con la costruzione di palazzi, case ecc.. Che sorgono senza prima aver creato servizi essenziali che servono per vivere decorosamente e in modo dignitoso, venendo a mancare spazi per le scuole, parchi, aree verdi in cui sostare, spazi per parcheggio di auto, zone dedicate ad attività industriali di vario tipo che invece le ritroviamo in mezzo alle abitazioni civili provocando inquinamento acustico, aria insalubre etc.....insomma "munnizza" di ogni genere. Complimenti Mariarosa, un libro semplice, pulito ma che va dritto al cuore di chi legge.

 

Villabate 13-01-2023


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Recensione di Ilaria Pistolato


   La voce è una sola ma i personaggi sono tanti. Il racconto della vita di un uomo che affronta la dicotomia bene-male, fra convenzioni sociali e bisogno di facile rivalsa. Un confronto fra il vivere una vita faticosa che imiti “la regola d’arte” contro la semplicità dell’arrendersi a costo della perdita della cosa più importante:  la famiglia.

   I personaggi sono metafore della vita e del tempo che passa e ci richiamano a ricordi di un paesaggio perduto evocato non solo da descrizioni ma dai profumi. Avvicinano al luogo chi non lo conosce riuscendo a far sì che ciascuno lo faccia proprio, risvegliano una memoria che non sappiamo di possedere, apparentemente universale ma specificatamente di quel territorio.

   E’ la grande capacità immaginifica di questa narrazione,  scorrevole  soprattutto grazie alla alternanza fra un passato evocato e un presente drammatico e intenso che non dà modo al lettore di stancarsi durante tutto il cammino del protagonista alla scoperta della sua propria verità.

Venezia, 5/01/2023


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Recensione di Rosetta Martorana


   I personaggi chiave sono Michele padrino di battesimo di Mimmino, il protagonista del romanzo.

 A Villaranci Mimmino inizia a lavorare a soli 10 anni nel 1955 con mastro Michele suo parrino.

   Uomo onesto e gran lavoratore, Michele insegna al figlioccio la tecnica della  costruzione delle case, ma, per una serie di circostanze avverse, vivrà miseramente e chiuderà l’attività. 

   I due si separano percorrendo strade diverse. A vent’anni Mimmino lavora per una grande impresa edile che gli permette di entrare nel giro dei soldi.

   Ed è a questo punto che decide di cambiare tutta la sua precedente vita affrancandosi dalla povertà. Decide quindi di affiliarsi alla malavita entrando nel giro di quel don Ciccio che aveva portato alla rovina suo padrino.

   Siamo in pieno sacco di Palermo con l’edilizia selvaggia che trasforma la Conca d’Oro, fatta di giardini di agrumi, in un enorme alveare di case costruite con il benestare della mafia, della corruzione e del malaffare. Mimmino tradisce i valori trasmessi da mastro Michele e diventa uno dei protagonisti dello scempio della Conca. 

    Quest’opera prende e cattura il lettore per diversi aspetti della storia narrata e precisamente:

 -per lo sfondo storico che vede anche noi attori di un’epoca legata alla nostra adolescenza;

 -per il territorio tutto siciliano, anzi palermitano, che fa parte di noi stessi;

 -per i diversi tipi di registro linguistico adoperati;

 -per la passionalità con cui l’autrice narra gli accadimenti.

   Tutto questo, a mio avviso, affascinerà anche chi siciliano non è perché si avverte una sorta di sottile fatalismo che, pur essendo una caratteristica tipicamente sicula, coinvolge ontologicamente ogni essere umano specialmente quando si attraversano fatti epocali, come quelli attuali.

   L’autrice ha messo in esergo al suo libro un pensiero di Corrado Alvaro, tratto dal suo “ Ultimo diario “ del 1961 e che costituisce la cifra interpretativa di questa narrazione,  a proposito della disperazione che può impadronirsi di una società, relativa al dubbio che sia inutile vivere con onestà.    Ma ci si chiede fino a che punto la nostra coscienza possa fare da baluardo di fronte a certi avvenimenti che toccano le proprie scelte, il proprio diritto alla felicità, il sogno individuale più semplice di benessere, il desiderio di ogni persona di sentirsi importante nel suo piccolo, quando certi meccanismi perversi e ingarbugliati non tutelano la brava persona, il cittadino con un forte senso civico, il padre di famiglia che vuole assicurare l’essenziale ai propri cari   e tante altre realtà sotto gli occhi di tutti.  La narrazione è tutta giocata in prima persona attraverso il protagonista, Mimmino bambino e Mimmino ventenne e adulto, con una tecnica di scrittura che permette, in un’alternanza narrativa, di avere presente nello stesso momento la conoscenza sia del primo protagonista, Mimmino appunto, che del secondo protagonista, mastro Michele, la cui vita il lettore conosce dal racconto che Lui, il suo figlioccio prediletto, fa al magistrato che lo interroga in carcere.

Tutti i fatti narrati costituiscono la cornice entro cui si muove il protagonista nelle diverse età della sua vita in un continuo avvicendarsi tra presente e passato che si coglie attraverso i vari registri linguistici magistralmente adoperati dall’autrice.

La struttura del testo non è lineare, ma presenta questa disposizione:

1) Nelle pagine dispari.Mimmino dai sei anni ai venti  si racconta direttamente ai lettori

2) Nelle pagine pari, invece, Mimmino, più che quarantenne in carcere,  dialoga mentalmente con il suo parrino, che racconta ( tutto ciò che ha detto di sé stesso e di lui, cioè il parrino, e del rapporto prima dei vent’anni) al magistrato che lo interroga cercando di persuaderlo a diventare collaboratore di giustizia. 

I due piani narrativi, in questa prima parte, permettono di passare dallo stile narrativo, discorsivo e spesso di forte denuncia di Mimmino adulto a quello di Mimmino piccolo caratterizzato dal forte recupero memoriale e dalla grande ammirazione nei confronti del parrino; i due registri si avvicendano di continuo senza mai creare confusione o incertezza; anzi diventano uno strumento accattivante e una marcia in più nel godimento della lettura.  Molto efficace è il monologo del protagonista che viene vissuto dal lettore come un dialogo, la cui controparte è da ricercare nell’episodio stesso narrato o nella propria coscienza ricordando così lo stile di Sandor Maraj delle “ Braci “. Questo registro linguistico permette un vero e proprio esame di coscienza che diventa dominante nel continuo porre domande al magistrato presente sempre taciturno, come quasi un convitato di pietra, perché le risposte vengono date da Mimmino stesso con precisione e amara lucidità e perché il giudice è il lettore medesimo il quale non accetta e non dà una giustificazione alla scelta fatta, ma ne comprende la genesi. La narrazione di certi fatti è poi caratterizzata da un’atmosfera da romanzo giallo con la tecnica della suspence: gli episodi vengono ripresi cronologicamente dopo,  con il tipico enjambement di ariostesca memoria.

   Come afferma l’autrice, corrispondono alla realtà la storia del parrino Michele, la Palermo degli anni del dopoguerra, il paesaggio della Conca d’Oro e il saccheggio di Palermo con l’edilizia selvaggia; il resto è frutto di invenzione che scaturisce però dalla realtà come ebbe ad affermare Manzoni con il concetto del verosimile. Emblematica e decisiva è la descrizione di Mimmino piccolo ( con tanti ideali e progetti di vita improntati all’onestà di Michele che non si arricchì mai e lavorò sempre con scienza e coscienza; come diceva lui: “ A regola d’arte”) rapportata a Mimmino adulto realizzato ma deluso e arrabbiato perché ha dovuto pagare lo scotto del suo cambiamento sociale rimanendo fedele ai nuovi principi perversi, fatti propri e mai rinnegati, facendone  però un grimaldello della sua coscienza per accusare chi lo ha portato a tanto.

Dice Mimmino: “Meglio essere qualcuno per venti come me che essere nessuno per tutti. La speranza di Mimmino piccolo e la determinazione di Mimmino adulto costituiscono le file rouge dell’intera storia che diventa quasi una denuncia allo Stato e alla società come se lui non avesse colpa e che corrisponde alla descrizione, tra le righe, di una certa anima siciliana tradita nella non realizzazione di ciò che le spetta di diritto.   Il romanzo vuole far capire che si diventa mafioso, senza però prendere mai le difese di chi delinque, per colpa delle Istituzioni assenti e che si disinteressano dello sfruttamento e della povertà di una società abbandonata ad un destino prestabilito con l’unica scelta di intraprendere una trada senza ritorno.  

La narrazione dal punto di vista del protagonista crea curiosità nel lettore che viene catapultato nella storia arrivando a provare simpatia per lui e sperando in una sua redenzione. E’ un libro che ti lega alla storia e ti conduce alla conclusione con soddisfatta curiosità, ma anche con una punta di rabbia per il mancato rispetto delle buone e brave persone che in Sicilia sono tante.

  PALERMO, 2 DICEMBRE  2022                       

         

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 Recensione di Giulia Tumminello


In questo post una riflessione sul mio libro "D'oro e di cemento" di Giulia Tumminello, che ringrazio.

"Premessa doverosa:

si tratta di commento a caldo sulle tematiche che mi sono rimaste maggiormente impresse, e che non vuole essere esaustivo. Inoltre, non so come si scriva un commento.

Seconda premessa ancora più doverosa: non ho mai dato un mio parere su un libro all'autore dello stesso!Ma questa circostanza non mi inibirà affatto, anche perché il romanzo mi è piaciuto. Quindi ecco il commento:

ho apprezzato il mutamento del registro narrativo, quasi elementare nelle prime pagine, ma appositamente scelto per dare veridicità allo status e all'età del narratore, che diventa più appropriato nel prosieguo del racconto. (anche se il registro di Mimmino da adulto mi sembra fin troppo curato per appartenere ad un analfabeta arricchito. Ma magari questo è un mio pregiudizio. In ogni caso, registro apprezzato per una lettura più spontanea e piacevole).

Ho apprezzato anche la lunghezza non eccessiva di periodi e capitoli che hanno reso la lettura piacevolmente scorrevole.

Quanto alla trama, mi è sembrato audace il modo di descrivere i due mondi contrastanti, cioè quello dei mafiosi arricchiti e quello della gente umile.

In particolare, il mostrare il mafioso arricchito che non si pente, ma che anzi rivendica il proprio operato e la propria appartenenza ad un sodalizio criminale quale riscatto nei confronti di una società che non concede possibilità di emancipazione agli ultimi, ai meno abbienti.

Del resto sarebbe ipocrita non ammettere che in determinati strati sociali è questo il pensiero dominante, e anche una amara verità.

Quanto alla narrazione relativa a muratori e giornatari, ho apprezzato l'assenza dell'ipocrita esaltazione popolare del grande lavoratore umile, povero ma per questo pieno di dignità (e basta?), come se fosse la sola condizione possibile cui può ambire un umile semianalfabeta (viva la figura di Rosetta!!).

Vero è che la narrazione è quella di un mafioso, e che quindi non può pensarla diversamente, ma altrettanto vero è che il testo è dell'autore.

E secondo il mio giudizio da lettrice, l'autrice ha operato una selezione ben equilibrata ed equidistante nella scelta dei "pro" e dei "contro" nella descrizione dei diversi ambienti sociali di appartenenza dei personaggi del romanzo.

Ancora complimenti!"

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Recensione di Ornella Pani


Come si diventa un mafioso? Una buona dose di colpa è delle istituzioni assenti, che sembrano dimenticarsi di una società dove lo sfruttamento e la povertà sono un destino ineluttabile, a meno di imboccare una strada da cui non c'è ritorno. L'io narrante è molto bravo a spiegare al giudice il suo punto di vista; un giudice che non gli risponde mai, per tutto il romanzo, perché quel giudice è il lettore. E il lettore, se non può giustificare quella scelta, può almeno capire da dove nasce.

Voglio dire a Maria Concetta Rosa Giannalia che il suo romanzo mi è piaciuto.

 

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Recensione di Maria Teresa Casu


Ho trovato originale l'idea del dialogo del personaggio Mimmino con un giudice "assente", e viene il 

sospetto che in realtà si tratti di un dialogo interiore e intenso che fa immaginare al lettore, ansioso di 

scoprirlo, un pentimento che non arriverà. Mi sono chiesta il perché di questa conclusione, che è il vero 

colpo di scena dell' intera vicenda. ( Forse rimarrà un segreto, che ogni autore, d'altronde, porta con sé 

nella propria creazione letteraria). Ho provato a cercare la risposta nel carattere di Mimmino,  disposto 

a sacrificare famiglia, e affetti, pur di salire i gradini della scala sociale fino al punto più alto. Ci si 

trova immersi nella sua vita, disapprovando, o meno, le sue scelte, ma comunque indagando sulle 

origini di questa dubbia moralità. Nonostante questo, ne fai un personaggio (quasi) simpatico, e il 

lettore diviene suo "complice" nelle rivendicazioni, illegali beninteso, dei diritti di cui è stato privato 

da una società ingiusta ed egoista.

Ho "visto" i campi coltivati, e il colore di arance e mandarini; ho "sentito" il profumo delle zagare. E 

questo non è cosa facile. Inutile dirti che ho trovato il linguaggio ben adattato a ogni situazione. Un bel 

libro, e, di questi tempi, se ne trovano pochi in giro. Sono stupita che le case editrici a cui ti sei rivolta, 

non abbiano saputo apprezzare.

O forse siamo noi veramente sprovveduti, e incapaci di apprezzare la bellezza?