Il tempo materiale
di Giorgio Vasta
Ed. Minimum fax 2008
di Maria Rosa Giannalia
Il
libro che vi propongo questo mese, non è recentissimo. E’ un romanzo scritto da
Giorgio Vasta, scrittore palermitano, dal titolo Il tempo materiale pubblicato da
Minimum fax nel 2008.
L’autore
con questa sua opera prima ha vinto nel 2010 il premio città di Viagrande e nel
2011 il Prix Ulysse du Premier Roman.
In
una Palermo, nel sud isolano e isolato, tre ragazzini, appartenenti alla buona
borghesia cittadina che abita i nuovi quartieri costruiti in seguito al sacco della
città ad opera degli imprenditori mafiosi con il beneplacito dei politici
collusi, si persuadono all’emulazione delle Brigate Rosse sull’onda
dell’ideologia veicolata dal linguaggio dei proclami e manifesti. I tre
ragazzini, appena adolescenti, che si danno dei nomi di fantasia: Nimbo,
Scarmiglia e Bocca, organizzano
sequestri nell’unico ambito per essi possibile: la scuola, per
impratichirsi nelle modalità della rivoluzione politica del mondo che verrà, un
mondo nuovo emendato da tutte le ingiustizie sociali, così come all’epoca i manifesti
dei brigatisti facevano intravedere.
La
lingua usata dai terroristi è il leit-motif che attraversa tutto il romanzo, un
linguaggio affascinante e allucinato che su, Scarmiglia, il capo dei tre amici
ha un effetto dirompente.
Duro, preciso, terribile e tenero nello
stesso tempo, è questo libro di esordio di Giorgio Vasta. Più che d'esordio
sembra un romanzo di un autore che abbia già avuto grande dimestichezza con la
parola e quindi autore di lungo corso. Vasta riesce in questo romanzo a narrare
con un linguaggio accurato e affilatissimo la storia innocente e terribile dei
tre ragazzini, una storia nella Palermo del '78 al tempo del sequestro Moro e
dell'impazzare delle brigate rosse con i loro proclami e con un nuovo
linguaggio. Quel linguaggio che ebbe, in quel periodo, vastissima eco tale da
connotare per la prima volta la lingua giovanile di quegli anni attestatasi su
un registro aulico, letterario e forzatamente preciso per significare le nuove
logiche politiche della "rivoluzione" ideologica.
“…immobile,
soltanto sensoriale, riuscire a guarire dall’infezione delle parole. Perché ho
capito che mentre il compagno Volo lavorava per diventare prigioniero politico,
io ho lavorato per potermi dichiarare, adesso, prigioniero mitopoietico. Solo
questo. Il piacere di stare nelle frasi. La fatica. La paura di uscire dalle
frasi. Per un anno ho fabbricato linguaggio – proclamare, enfatizzare,
minacciare – e l’ho attraversato un passo alla volta, una parola dopo l’altra,
fino ad arrivare qui, ora, quasi le sette di sera del 21 dicembre 1978, a fare
l’eversore dell’eversione. Mi guardo ancora alle spalle; la strada vuota.”
La novità è che proprio attraverso
questo linguaggio, l'autore descrive l'ansia e le aspirazioni dei tre ragazzini
palermitani fornendo uno spaccato di vita e di differenze sociali della città
di Palermo che, nel libro, si sostanziano nella lingua utilizzata, nella
dicotomia, cioè, tra lingua italiana e dialetto.
Una lingua che corre nel testo, svelle e divora, racconta la rabbia
e la trasformazione. I brigatisti sono sempre accesi, sempre apocalittici.
Scrivono «lotta attiva», scrivono «disarticolare le strutture». Sono oracolari.
I padri del deserto hanno lasciato le distese di sabbia della Palestina e sono
venuti in città, nelle università e nelle fabbriche, a raccontare, a
testimoniare, a predire e a maledire.
Ne consegue una visione tragica del
mondo, ideologizzata, irreale e, a tratti, onirica ma che, credo, si debba
leggere come una grande metafora di ciò che cambia e di ciò che resta nel mondo
e difficile da esprimere: la materialità della parola. Importante notare come
la parola infezione ricorra molte volte nel corso di tutta la narrazione
ma specialmente nella parte iniziale, dove il termine va palesemente a
significare ciò che etimologicamente indica in senso figurato: azione
diffusa e minacciosa a danno dell'integrità individuale e sociale (
Devoto-Oli Dizionario della lingua italiana).
Perchè proprio di questo si tratta:
l'ideologia delle Brigate Rosse si diffonde e permea gli animi dei tre
giovanissimi adolescenti persuadendoli ad una mimesi perniciosa a danno della
loro stessa comunità: la scuola.
Eppure, per noi che sappiamo percepirlo, un fermento c’è.
Un’eccitazione. Il bisogno di essere famelici, di qualcosa che prenda e
trascini, di qualcosa su cui concentrarsi. Sulla lotta, per esempio. Perché di
questo si tratta. La parola lotta contiene sesso, rabbia e sogno. Allora si
prova a pronunciarla sottovoce, impudichi, e si cerca di connetterla a
un’azione. A quel punto però torna l’opaco, la smerigliatura che divide il
proposito dalla sua realizzazione. Avete pensato a quello che vi ho detto delle
Brigate Rosse?, domanda.
[…]
“Non ho paura di loro, dice Scarmiglia, perché io parlo in
italiano. Io, noi tre, parliamo in italiano. E cioè che cosa gli hai detto?,
domando. Ho chiesto un’informazione usando per tutto il tempo il congiuntivo.
Il sorriso gli diventa più grande e riempie una pausa di silenzio. Poi
riprende. Per loro le parole sono chiodi e martello, dice, cucchiai e
coltelli.”
Per me questo è un libro bellissimo che
ho letto d'un fiato , la cui pregnanza mi ha folgorato in mezzo alla banalità
di tanta scrittura contemporanea.
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