Il
mio viaggio in Grecia e a Istanbul 9-19 maggio 2025
La "crociera" come istituzione
turistica di massa.
È un luogo organizzato per venire
incontro a tutti i desideri materiali e fisici di una classe che potremmo
definire di reddito medio.
Pertanto nella nave la parte più curata
è la cucina. Ci sono pasti pronti a tutte le ore, in pratica c'è un enorme,
gigantesco buffet sempre a disposizione di tutti con cibo per tutti i gusti
internazionali. Poi la compagnia organizza giochi e intrattenimento a tutte le
ore per grandi e piccoli: piscine, videogiochi, giochi d'acqua, ginnastica,
ballo, karaoke e chi più ne ha più ne metta.
Ma.
C'è in tutto questo un che di stonato
che si sostanzia proprio nell'eccesso. I tremilacinquecento circa ospiti della nave sembrano come
sollevati dai loro ambienti naturali e sistemati a pagamento, in una bolla
fuori dal tempo e dallo spazio proprio dove non devono pensare che al proprio
divertimento e relax.
A
fronte di ciò c'è il costo in denaro che ognuno ha già speso preventivamente ma
anche quello che continua a spendere durante tutta la durata della crociera. Se
si osserva dall'esterno appaiono evidenti alcuni elementi: il crocierista ha la
sensazione di possedere finalmente ciò che non ha mai posseduto: accudimento,
personale a disposizione, niente da fare di impegnativo e faticoso, in altri
termini ciò che la classe sociale superiore ha di default.
Ma le spie dell'inganno sono molto
evidenti: la corsa ad accaparrarsi i posti al buffet, i piatti che ciascuno si
riempie come non ci fosse un domani salvo poi lasciare nel piatto almeno la
metà della roba.
Io mi chiedo quale fine faccia tutta
questa roba.
Questo è solo uno degli aspetti.
L'altra cosa è questa: non si comunica
tanto a bordo poiché in genere la maggior parte delle persone non parte sola e
conseguentemente sta nell'ambito della propria compagnia.
Ho notato una signora di mezza età,
sola, dall'apparenza sembra essere dell'est Europa. Non trova compagnia pur
cambiando posto continuamente. Ha il piatto, anzi i piatti ricolmi di roba da
mangiare, è già grassa di suo e continua a mangiare incessantemente. C'è tutta
questa massa di gente che si sposta per tutti gli spazi della nave e ricopre
ogni interstizio. Sì agghinda la sera con vestiti eleganti e pseudo gioielli.
Ma rimane massa.
Poi sempre nella stessa nave c'è un
altro luogo, situato al 17esimo livello.
Questa è la zona dei Vip che non si
mescolano con gli altri crocieristi. Hanno ascensori privati, camerieri
privati, ristoranti privati tutto molto privato, in modo da non venire mai a
contatto con noi della classe inferiore (e dei piani inferiori).
In crociera come nella vita ordinaria
questo è l'unico elemento che rispecchia la realtà: la separazione netta ed
evidente tra classi sociali.
La
serata di gala
Stasera la serata cosiddetta di gala. Nella folla enorme di gente,
alcune donne hanno ben pensato di mettersi in abito da sera, in lungo,
corredate da paillettes e lustrini vari. Ci si aspetterebbe eleganza anche nei
movimenti e nell'approcciarsi agli altri. Ma, ripeto, tutti sono con il proprio
entourage, spesso sguaiato. Il contrasto tra il vestiario e i modi è molto
rilevante. E a volte anche i corpi fasciati in abiti aderenti di voile
evidenziano culi enormi e braccia ben sviluppate. La maggior parte di queste
donne sono o russe o comunque dell'est europeo. Talvolta qualche italiana.
Nella massa le uniche donne veramente eleganti sono quelle anziane con i loro
mariti in abito scuro. Le donne anziane sono molto composte nelle loro mise
equilibrate con gonne e giacchette magari di broccato e ornate da qualche
gioiello rigorosamente finto. Sono commoventi. Magari, ho pensato, festeggiano
un qualche anniversario. Però fanno la loro figura. La cosa a mio avviso più
orribile è stata la performance del ballo degli ufficiali: una decina di uomini
in divisa bianca presi d'assalto da signore di varie età rigorosamente
assatanate essendo i loro mariti riottosi e per nulla propensi a
buttarsi nella mischia. Insomma in una pista dal diametro di una decina di
metri a volere essere generosi, una trentina di coppie accalcate a dimenarsi
neanche a ritmo.
Mio marito ed io seduti in un angolo: ogni tanto lo guardavo e lui aveva
tutta l'aria di pensare ma cosa ci è venuto in mente di fare?
E adesso dopo la cena di gala - dove tutte le pietanze avevano lo stesso
sapore - lui ha voluto andare a letto e io sono rimasta qui da sola nel salone
del piano bar ad ascoltare un po' di musica dal vivo, dopo che la gran parte
delle persone finalmente è andata via.
La
crociera ha due aspetti profondamente diversi per natura: la prima è quella
succitata e che non varia per tutta la sua durata essendo gli utenti
fedeli a sé stessi dall’inizio alla fine e mai discostandosi dai comportamenti
connotativi descritti.
La
seconda è più bella e di valore: la possibilità di visitare luoghi e città molto
distanti l’una dall’altra ma che tu fruisci nel variare di pochi giorni.
Olimpia
Ci
sono in questi luoghi, a saper vedere, delle forme simili o assai dissimili a
seconda della prospettiva da cui le guardi. Per esempio: Olimpia, in
Grecia, che ti appare profondamente diversa da come l’avevi immaginata: chi ha
fatto studi classici ha ammantato questo luogo e altri di cui dirò a breve, di
un’aura mitica, quel mito che la cultura scolastica ha innestato nella nostra
immaginazione.
Accade
così che ti raffiguri un luogo ammantato di atmosfere auliche e quasi divine
dove tutto trasuda antiche vestigia e di alti peana.
In
realtà Olimpia sta su di una collina dolce e carezzata da un venticello
leggero, abitata da ulivi secolari e da vegetazione bucolica. Nessun segno
evidente di gloria tributato agli atleti che l’hanno resa celebre ma quel tanto
di solitudine atta alla riflessione e alla meditazione.
In
un avvallamento del terreno circostante c’è lo stadio che prende il nome dalla
parola stàdion che era una unità di misura greca con la quale si misuravano i
terreni in Grecia, portato alla luce solo in tempi recenti.
A
lato, discosto due-trecento metri, c’è il gymnasium, la palestra cioè, per gli
allenamenti degli atleti. Tutt’intorno una serie di reperti archeologici di
quelli che furono gli ornamenti classici del luogo.
Olimpia,
secondo l’esperienza che ne ho fatto, trasuda spiritualità da cogliere proprio
nel silenzio e nello stormire delle fronde mentre nell’immaginazione puoi
sentire gli echi delle voci degli atleti, il rumoreggiare degli spettatori e le
valutazioni gridate dalla giuria.
Il
mito del luogo è anche nel grande anfiteatro dove oggi campeggia l’insegna dei
giochi olimpici così come fu voluta dal ri-creatore di quell’appuntamento di
pace: Pierre De Gubertain che rifondò le Olimpiadi e restituì il lustro all’antico
sito greco.
Ma
a tutta questa atmosfera di ripristinata spiritualità fa da contrappunto lo
schiamazzo e gli starnazzamenti del turismo di massa che nulla vede e nulla
capisce, appagandosi solo con le foto di quel nulla di sé che rimarrà nel
futuro. E nessuna memoria di ciò che è stato in quel glorioso passato.
Atene
E
poi si arriva ad Atene.
La
città moderna non si discosta da tutte le altre città europee con le sue case,
con i suoi palazzi, e soprattutto con il
suo traffico disordinato e rumoroso tipico di ogni altra città. L’unico
connotato
diverso
è il colore bianco. E’il bianco che domina dovunque, nelle strade, negli
edifici e persino in parte dei vestiti degli abitanti.
Gli uomini greci hanno un piglio speciale,
come fossero i padroni del mondo. Sembrano avere grande contezza della loro
origine, delle loro radici, sono centrali, ombelicali, ritti nel loro cammino,
orgogliosi, ti guardano un po’ dall’alto in basso. Poi magari ti accorgi,
parlando con loro, che l’essere greci è il segno di un’appartenenza forte.
Hanno questa consapevolezza: essere stati i primi in occidente a creare il faro
della civiltà con la loro lingua, con la loro filosofia, con la loro
conoscenza.
Non
tutti i greci sono acculturati ma questo è sempre il tratto innegabile del loro
carattere: sei tu il barbaro.
La
nostra simpaticissima guida, stressata dal troppo parlare e dal racconto della
storia antica classica, soprattutto perché i turisti non lo ascoltano
veramente, non sopporta di venire contraddetto.
Ha
nella sua testa la verità rivelata e nelle sue tasche gonfie tutti i nostri
euro che intasca con degnazione perché lui è il greco che ci rende
acculturati e noi i barbari che abbiamo l’obbligo di starlo a sentire.
Si
chiama Lorenzo perché figlio, chissà, di qualche italiano rimasto qui dopo la
guerra. Ma le sue origini non lo esaltano; gli servono invece per guadagnarsi
il pane attraverso la conoscenza della nostra lingua italiana.
Lorenzo
è il perfetto prodotto della commistione di due culture: gentile e altezzoso,
sicuro di sé ma sperso di fronte a qualche osservazione precisa che non
padroneggia.
Mi
ha prestato il suo giubbotto perché io, prevedendo il caldo, non ho preventivato
i diciotto gradi scarsi di Atene e il venticello fresco che attraversa quella
città.
Finalmente
l’Acropoli: sorge in cima ad una collina e troneggia sulla città. I
marmi delle colonne, delle statue, dell’Eretteo, sono fatti dello stesso marmo
di cui è fatta la collina. E’ un marmo bianco, opaco e compatto che si presta
benissimo alla lavorazione delle colone, dei frontoni, delle statue.
Il
viaggiatore è avvolto da un’aura mistica e commovente di fronte a tanta
bellezza e si rende conto di quanto possa essere stata la perizia e la
cognizione della geometria e dell’aritmetica.
A
scuola ci è stato insegnata l’estetica di quell’arte ma non la tecnica che
veramente sta alla base di tanta bellezza. L’equilibrio e la proporzione delle
parti producono quella stessa bellezza che ha affascinato tutto il mondo.
L’eleganza delle pure forme dettate dal disegno delle linee calcolate al
millimetro dagli architetti. Ci è voluta la scrittura di Vitruvio nel suo Architectura
per farci comprendere come la tecnica stia alla base dell’estetica naturalmente
commista all’intuizione artistica.
Dicevo
che il Partenone e tutta l’Acropoli commuovono ma tale commozione
si mescola con lo struggimento e la rabbia di dovere constatare e pensare
perché mai l’umanità è costretta a vedere qui le strutture dei templi e al
British Museum di Londra i fregi dipinti del frontone. Questo è intollerabile:
che un popolo venga privato della propria storia attraverso la rapina dei
vincitori delle guerre. E’ l’avidità dell’uomo la vera iattura e la sua
medesima condanna.
E’
la stessa avidità che qui, in questa nave da crociera in cui mi trovo, fa sì
che la massa dei turisti che di nulla si interessa, si rechi in ogni momento
presso le numerose tavole calde allestite nei saloni della nave e al mattino
riempie i propri vassoi con cibarie e dolci , uova e bacon, brioches, e con tutte le cibarie
arraffabili solo perché già pagato all’orgine ma che vengono poi abbandonate,
sparse per i tavoli, perché la pancia più di tanto non regge.
Istanbul
Che dire di Istanbul?
Ci sono due modi di vedere la città di
Istanbul: con lo sguardo del turista e con l'occhio del viaggiatore.
Se si arriva con una nave da crociera,
dovrai attraversare gallerie illuminate da luci al neon che ti portano, dopo
molti passi, ad una zona esterna piena di negozi con i marchi più prestigiosi:
Gucci, Vuitton, Prada, quasi che aspettassero te che comprerai sicuramente la
loro merce scontata al trenta per cento. Tu infatti sei andato/a a Istanbul per
comprare questi beni di prestigio che potrai sfruttare adeguatamente durante le
cene di gala, come quella prima descritta, che continuerai a fare nel corso di tutta
la tua vita. Poi ti immergerai nel traffico della città e ti recherai nei
luoghi degli acquisti, nel gran Bazar, nelle oreficerie, al mercato delle
spezie dove ogni venditore ti proporrà la sua merce e tu contratterai con lui
ad libitum e infine acquisterai con la convinzione tutta europea di avere fatto
un buon affare. Mentre lui si fregherà le mani contento del guadagno
realizzato.
Se arrivi a Istanbul con la medesima
nave ma con l'irritazione di chi ha sbagliato tipo di viaggio, attraversando le
medesime gallerie, guardando gli stessi negozi di Gucci, Prada etc, ti darai
mille volte dell'imbecille per avere fatto una scelta infruttuosa di
conoscenza. Infatti quegli oggetti lì li vedi tutti i giorni nelle vetrine dei
negozi della tua città dove ti hanno destato riprovazione infinita. Ma
ciononostante sei fortunato: alla fine dell'elegante calvario di borse e scarpe
griffate, ti appare una vista magnifica: una città, per una piccola parte
europea e per un'altra grandissima parte orientale, si squaderna al tuo sguardo:
separata dalle acque del Bosforo, essa si estende nelle due rive luminosissime
con tutti i suoi minareti e le moschee, le sue case di legno nelle due rive, i
grandi palazzi alcuni di foggia turca altri, pochi, di foggia occidentale, e tu
non vedi l'ora di tuffarti per le sue strade alla ricerca della sua anima.
Istanbul, comunque la si guardi, è una
città magica, orientale, che si estende da una parte e dall’altra del Bosforo.
Una parte, piccola, appartiene
all’occidente o così vorrebbero sentirsi dire gli abitanti, la parte più
grande, immensa, appartiene decisamente all’oriente.
Instanbul ha 15.655.000 abitanti,
secondo gli ultimi dati del 2023, e tu, viaggiatore, quando la vedi dal mare
non te lo aspetti neppure e dici: no, non può essere.
Il fatto è che questa città si appalesa
lentamente: man mano che entri nello stretto, vedi le prime costruzioni, le più
antiche, di legno, prospicienti il mare.
La guida ti mette in guardia da questo tratto di mare: è insidioso e
pieno di correnti e se decidi di bagnarti nelle sue acque sappi che verranno a
recuperarti nel mar di Marmara.
Nel battello che ti conduce allo sbarco
c’è un uomo anziano che vende il caffè che prepara lì al momento per chi
volesse fare questa esperienza. Ma prima ti chiede se vuoi il caffè turco e ti
dice che lui non ha il caffè espresso al quale siamo abituati noi occidentali.
Se tu dici di sì, lui è contento e lo prepara lentamente nella sua caffettiera
turca.
L’uomo turco è come te lo immagini:
grassoccio con pancia prominente, baffi enormi e una specie di porro nero
vistoso sulla guancia, grande quanto una noce.
Io mi faccio fare il caffè turco che lui
mi serve presso la parte interna del battello apparecchiata come una sala da
pranzo. E solo prima dello sbarco viene a chiedermi timidamente due euro.
Adesso siamo proprio in città e già
tutta l’aria sa di oriente. Non puoi non sentire tutto il profumo di spezie che
aleggia intorno.
La nostra guida, un ragazzo di nome
Deniz che parla speditamente la nostra lingua, ha gli occhi azzurro-acquamarina
e la cosa si nota molto per il contrasto con la pelle scura e la massa dei
capelli neri. Deniz fa l’appello che ripeterà almeno una ventina di volte durante
tutta la giornata. Per prima cosa ci porta nella piazza centrale di Istanbul e
ci chiama a raccolta per illuminarci sulla storia della città. Per prima cosa
ci dice che quella che sembra essere una piazza in realtà è un ippodromo fatto
costruire dai romani dopo la conquista dell’Asia Minore. E poi si dilunga sulla
storia della città che prima fu Bisanzio, poi Costantinopoli e, solo molto
tempo dopo, Istanbul.
Ci dice come tutta la nostra storia del
cristianesimo origina da questi luoghi dove Costantino, reso il Cristianesimo
religione ufficiale dell’impero romano, iniziò a fare di questa città una vera
capitale più grande della stessa Roma. E da qui principiarono a originarsi
tutte le guerre tra oriente e occidente per l’affermazione del potere.
C’è in Deniz un orgoglio nel comunicare
al gruppo queste notizie, tanto che poi si vuole accertare che le sue parole
abbiano fatto breccia nel cuore e nella mente di tutti noi e ci interroga a
salti.
Molti però di questo nostro gruppo non
hanno neppure sentito le sue parole e guardano distrattamente ogni cosa dando
segni di noia e sbuffando per essere stati costretti a subire la lezione di
storia. Ma Deniz non fa una piega, continua imperterrito la sua litania e sembra
proprio non avere alcuna voglia di smettere. Nel gruppo ci sono bambini che
piangono, genitori che cercano in tutti i modi di calmarli ma non vedono l’ora
in cui Deniz si deciderà a porre fine all’elenco delle sue informazioni e al
colorito racconto di molti aneddoti. Molti hanno fretta di visitare la
basilica della cisterna di cui hanno sentito parlare i loro amici e che
adesso sono impazienti di fotografare per dimostrare loro, al ritorno, che ci
sono stati.
Adesso
che il gruppo dei crocieristi ha fotografato tutto il fotografabile, Deniz ci
invita ad andare a pranzo in un piccolo ristorante tipico turco per la modica
cifra di 15 euro. Non tutti partecipano ma quelli di noi che vanno possono
assaporare delle pietanze buonissime molto vicine alla cucina mediterranea e
dolci al pistacchio veramente superlativi. Dal mio punto di vista Istanbul ha
la pasticceria più buona al mondo, una pasticceria che non lesina sulla
quantità soprattutto della frutta secca che ne costituisce la base più
caratteristica.
Deniz
ci aveva avvertito che la parte più occidentale di Istanbul non è molto ligia
ai dettami dell’Islam: molte sono le donne che non portano il velo e vestono
all’occidentale. Tuttavia si vedono molte donne velate e anche molto devote che
si recano da sole o in gruppo a pregare in Moschea. Mi incantano queste
moschee, numerose, aperte, accoglienti, dove i fedeli vanno a tutte le ore senza
organizzazioni liturgiche. Ognuno va quando vuole e se il muezzin chiama dai
minareti, tutti sono liberi di andare o no in moschea, ognuno può pregare come
e dove vuole perché non tutti sono liberi dal lavoro. Per una donna occidentale
come me, entrare in moschea è una rivelazione: il senso di spiritualità che
accomuna i luoghi di preghiera come nelle nostre chiese, anche qui è molto
evidente. Le donne hanno degli spazi riservati e differenziati da quelli degli
uomini: una zona schermata da paratie in legno traforate all’interno delle quali possono stare in ginocchio o anche sdraiate a pregare Allah pronunciabile
solo col pensiero. Mi stupisce, prima di entrare, una serie di fontane con
sedili per l’abluzione dei piedi. Nessun musulmano entra in moschea con le
scarpe e senza prima avere lavato i propri piedi.
All’interno
vicino all’ingresso ci sono apposite panche dove lasciare le scarpe che nessuno
toccherà fintanto che ogni fedele è in preghiera.
Deniz
ci porta a visitare la moschea di Santa Sofia, aperta, ci spiega, nuovamente al
culto da Erdogan, dopo che per parecchio tempo era stata trasformata in un
museo dell’Islam.
Ma
questa visita mi lascia un po’ delusa: in molti punti l’intonaco cade a pezzi,
e le zone dove sono state asportate le immagini bizantine sono rimaste
scrostate e come monche, private di parti che si intuisce dovettero essere
essenziali per l’arricchimento di quella che era stata una chiesa cristiana. La
moschea appare adesso deturpata da queste inconsulte avulsioni di mosaici e
certo l’islamizzazione non è giovata per niente e da quando, come già detto, ne
è stato modificato l’uso, ha perso il suo allure primitivo.
Anche
Istanbul non si sottrae ai danni del flusso turistico selvaggio e di sicuro il
viaggiatore deve fare appello alla sua immaginazione per figurarsi la Istanbul
del passato o quella che ha conosciuto dai libri.
Ma
se tu vuoi conoscere il cuore dell’Islam è al Gran Bazar che devi andare. Qui è
davvero un godimento tangibile per tutti i sensi: ti sentirai avvolto da effluvi
di spezie di tutte le specie da quelli più conosciute a quelle completamente
sconosciute e mai sentite nominare se non in qualche testo letterario.
Il
visitatore che andasse per la prima volta al bazar rischierebbe di perdersi
ammaliato anche dai colori vividi sistemati con sapiente cromìa dai mercanti
e potrebbe conoscere il cardamomo, la curcuma, l'origano in versione orientale e
tantissime altre spezie meno utilizzate da noi occidentali. E inoltre l’enorme
assortimento di frutta liofilizzata che appaga solo allo sguardo.
E se ti capita di entrare in uno qualsiasi di questi negozi non puoi uscirne a mani vuote: la capacità dei venditori è tale che chiunque rimane affascinato. Prima ancora di proferire parola questi bravi affabulatori ti invitano solo a guardare e a condividere il tè caldo e aromatizzato che ti offrono in piccoli bicchieri di vetro. Solo dopo questa degustazione il bravo mercante ti mostra ciò che vorrebbe tu acquistassi ma lo fa accompagnando la vista con la parola: racconti, descrizioni, ricette di cucina, e intanto ti indica con perizia la diversità e la qualità delle merci, con la sua pronuncia inglese quasi senza inflessioni. Anche se tu non dici nulla, lui ti confeziona un pacchetto con questo e quell’altro prodotto fin quando tu non dici: basta. E non ti chiede nulla ma aspetta sia tu a chiedere il costo con un cenno della mano. Naturalmente questo è solo l’inizio: qui inizia la vera e propria cerimonia della contrattazione alla quale noi, nella nostra concezione capitalistica del tempo che è danaro, non siamo abituati ma che per loro fa parte integrante della transazione. E quand’anche tu dessi subito quello che ti chiede, lui non è soddisfatto. Si sente, per così dire, sminuito nel suo valore mercantile che sta tutto nell’atto della contrattazione che è più importante dell’acquisto in sé.
E mi sembrava di sentire mia madre in
Sicilia tanti, troppi anni fa, che contrattava su ogni cosa con i venditori
ambulanti, anche sull’uva e le mele. E quello non era perdere tempo ma
interagire tra pari e imbastire discorsi partendo dal prezzo per conoscere l’altro
e acquisire notizie sul resto del paese.
Le
guide turistiche mettono in guardia i gruppi in visita raccomandando di
dimezzare il prezzo richiesto per poi magari arrivare ad un accordo finale pian
piano aggiungendo o togliendo qualche euro di troppo.
Il
bazar può paragonarsi a un nostro centro commerciale dove tutto è esposto e a portata
di mano del compratore: si può toccare, indossare, annusare, fare un giro. I
mercanti non redarguiscono nessuno. Si possono trovare pezzi di seta molto
belli o pashmine coloratissime o anche abiti orientali. Ma la cosa per noi più
incredibile è la pelletteria: si trovano modelli taroccati delle più grandi
marche mondiali di squisita fattura: non diresti mai che siano delle volgari
imitazioni. Solo un intenditore vero può accorgersi del falso. Fatalmente mi sono
vengono in mente i vasi etruschi che ho visto a Vulci in Etruria che erano la
copia esatta dei vasi importati dalla Grecia classica e ho pensato che tutto si
ripete a questo mondo: c’è stato un tempo in cui i falsari eravamo noi per avidità dei mercanti
e vanità dei romani antichi e questo altro tempo dove cambia l’oggetto ma non
la motivazione.
Ma
tutto questo non basta ancora: ci sono ancora le gioiellerie, le pietre
preziose: smeraldi, zaffiri, rubini incastonati all’interno di bracciali,
collane, anelli finemente lavorati in oro e argento. Uno scintillio magico, l’anticamera
del paradiso terrestre. Se potesse, ognuno di noi si impadronirebbe di
qualsiasi cosa.
Ma
adesso lasciamo il gran Bazar e tutte le sue magiche insidie e allontaniamoci
per le viuzze strette della vecchia Istanbul dove è possibile acquistare
formelle di pane azzimo e salse di ogni tipo. E attraverso i basolati lisci e
scivolosi d’acqua sparsa per la pulizia serale delle strade, camminiamo a
rilento per raggiungere il nostro punto d’incontro col gruppo e tornare sulla
nostra nave. Gli occhi pieni di colori e di immagini scolpiscono nel cuore e
nella mente i ricordi di questo pezzo di mondo così diverso da noi, così
lontano.

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