sabato 19 luglio 2025

 

Il mio viaggio in Grecia e a Istanbul 9-19 maggio 2025

 

La "crociera" come istituzione turistica di massa.

 

È un luogo organizzato per venire incontro a tutti i desideri materiali e fisici di una classe che potremmo definire di reddito medio.

Pertanto nella nave la parte più curata è la cucina. Ci sono pasti pronti a tutte le ore, in pratica c'è un enorme, gigantesco buffet sempre a disposizione di tutti con cibo per tutti i gusti internazionali. Poi la compagnia organizza giochi e intrattenimento a tutte le ore per grandi e piccoli: piscine, videogiochi, giochi d'acqua, ginnastica, ballo, karaoke e chi più ne ha più ne metta.

Ma.

C'è in tutto questo un che di stonato che si sostanzia proprio nell'eccesso. I tremilacinquecento  circa ospiti della nave sembrano come sollevati dai loro ambienti naturali e sistemati a pagamento, in una bolla fuori dal tempo e dallo spazio proprio dove non devono pensare che al proprio divertimento e relax.

 A fronte di ciò c'è il costo in denaro che ognuno ha già speso preventivamente ma anche quello che continua a spendere durante tutta la durata della crociera. Se si osserva dall'esterno appaiono evidenti alcuni elementi: il crocierista ha la sensazione di possedere finalmente ciò che non ha mai posseduto: accudimento, personale a disposizione, niente da fare di impegnativo e faticoso, in altri termini ciò che la classe sociale superiore ha di default.

Ma le spie dell'inganno sono molto evidenti: la corsa ad accaparrarsi i posti al buffet, i piatti che ciascuno si riempie come non ci fosse un domani salvo poi lasciare nel piatto almeno la metà della roba.

Io mi chiedo quale fine faccia tutta questa roba.

Questo è solo uno degli aspetti.

L'altra cosa è questa: non si comunica tanto a bordo poiché in genere la maggior parte delle persone non parte sola e conseguentemente  sta nell'ambito della propria compagnia.

Ho notato una signora di mezza età, sola, dall'apparenza sembra essere dell'est Europa. Non trova compagnia pur cambiando posto continuamente. Ha il piatto, anzi i piatti ricolmi di roba da mangiare, è già grassa di suo e continua a mangiare incessantemente. C'è tutta questa massa di gente che si sposta per tutti gli spazi della nave e ricopre ogni interstizio. Sì agghinda la sera con vestiti eleganti e pseudo gioielli. Ma rimane massa.

Poi sempre nella stessa nave c'è un altro luogo, situato al 17esimo livello.



Questa è la zona dei Vip che non si mescolano con gli altri crocieristi. Hanno ascensori privati, camerieri privati, ristoranti privati tutto molto privato, in modo da non venire mai a contatto con noi della classe inferiore (e dei piani inferiori).

In crociera come nella vita ordinaria questo è l'unico elemento che rispecchia la realtà: la separazione netta ed evidente tra classi sociali.


 

La serata di gala

Stasera la serata cosiddetta di gala. Nella folla enorme di gente, alcune donne hanno ben pensato di mettersi in abito da sera, in lungo, corredate da paillettes e lustrini vari. Ci si aspetterebbe eleganza anche nei movimenti e nell'approcciarsi agli altri. Ma, ripeto, tutti sono con il proprio entourage, spesso sguaiato. Il contrasto tra il vestiario e i modi è molto rilevante. E a volte anche i corpi fasciati in abiti aderenti di voile evidenziano culi enormi e braccia ben sviluppate. La maggior parte di queste donne sono o russe o comunque dell'est europeo. Talvolta qualche italiana. Nella massa le uniche donne veramente eleganti sono quelle anziane con i loro mariti in abito scuro. Le donne anziane sono molto composte nelle loro mise equilibrate con gonne e giacchette magari di broccato e ornate da qualche gioiello rigorosamente finto. Sono commoventi. Magari, ho pensato, festeggiano un qualche anniversario. Però fanno la loro figura. La cosa a mio avviso più orribile è stata la performance del ballo degli ufficiali: una decina di uomini in divisa bianca presi d'assalto da signore di varie età rigorosamente assatanate  essendo i loro mariti riottosi e per nulla propensi a buttarsi nella mischia. Insomma in una pista dal diametro di una decina di metri a volere essere generosi, una trentina di coppie accalcate a dimenarsi neanche a ritmo.

Mio marito ed io seduti in un angolo: ogni tanto lo guardavo e lui aveva tutta l'aria di pensare ma cosa ci è venuto in mente di fare?

E adesso dopo la cena di gala - dove tutte le pietanze avevano lo stesso sapore - lui ha voluto andare a letto e io sono rimasta qui da sola nel salone del piano bar ad ascoltare un po' di musica dal vivo, dopo che la gran parte delle persone finalmente è andata via.

 

La crociera ha due aspetti profondamente diversi per natura: la prima è quella succitata e che non varia per tutta la sua  durata essendo gli utenti fedeli a sé stessi dall’inizio alla fine e mai discostandosi dai comportamenti connotativi descritti.

La seconda è più bella e di valore: la possibilità di visitare luoghi e città molto distanti l’una dall’altra ma che tu fruisci nel variare di pochi giorni.

Olimpia

Ci sono in questi luoghi, a saper vedere, delle forme simili o assai dissimili a seconda della prospettiva da cui le guardi. Per esempio: Olimpia, in Grecia, che ti appare profondamente diversa da come l’avevi immaginata: chi ha fatto studi classici ha ammantato questo luogo e altri di cui dirò a breve, di un’aura mitica, quel mito che la cultura scolastica ha innestato nella nostra immaginazione.

Accade così che ti raffiguri un luogo ammantato di atmosfere auliche e quasi divine dove tutto trasuda antiche vestigia e di alti peana.

In realtà Olimpia sta su di una collina dolce e carezzata da un venticello leggero, abitata da ulivi secolari e da vegetazione bucolica. Nessun segno evidente di gloria tributato agli atleti che l’hanno resa celebre ma quel tanto di solitudine atta alla riflessione e alla meditazione.

In un avvallamento del terreno circostante c’è lo stadio che prende il nome dalla parola stàdion che era una unità di misura greca con la quale si misuravano i terreni in Grecia, portato alla luce solo in tempi recenti.


 




 

A lato, discosto due-trecento metri, c’è il gymnasium, la palestra cioè, per gli allenamenti degli atleti. Tutt’intorno una serie di reperti archeologici di quelli che furono gli ornamenti classici del luogo.

Olimpia, secondo l’esperienza che ne ho fatto, trasuda spiritualità da cogliere proprio nel silenzio e nello stormire delle fronde mentre nell’immaginazione puoi sentire gli echi delle voci degli atleti, il rumoreggiare degli spettatori e le valutazioni gridate dalla giuria.

Il mito del luogo è anche nel grande anfiteatro dove oggi campeggia l’insegna dei giochi olimpici così come fu voluta dal ri-creatore di quell’appuntamento di pace: Pierre De Gubertain che rifondò le Olimpiadi e restituì il lustro all’antico sito greco.

Ma a tutta questa atmosfera di ripristinata spiritualità fa da contrappunto lo schiamazzo e gli starnazzamenti del turismo di massa che nulla vede e nulla capisce, appagandosi solo con le foto di quel nulla di sé che rimarrà nel futuro. E nessuna memoria di ciò che è stato in quel glorioso passato.

Atene

E poi si arriva ad Atene.

La città moderna non si discosta da tutte le altre città europee con le sue case, con i suoi palazzi,  e soprattutto con il suo traffico disordinato e rumoroso tipico di ogni altra città. L’unico connotato

diverso è il colore bianco.  E’il bianco che domina dovunque, nelle strade, negli edifici e persino in parte dei vestiti degli abitanti.

 Gli uomini greci hanno un piglio speciale, come fossero i padroni del mondo. Sembrano avere grande contezza della loro origine, delle loro radici, sono centrali, ombelicali, ritti nel loro cammino, orgogliosi, ti guardano un po’ dall’alto in basso. Poi magari ti accorgi, parlando con loro, che l’essere greci è il segno di un’appartenenza forte. Hanno questa consapevolezza: essere stati i primi in occidente a creare il faro della civiltà con la loro lingua, con la loro filosofia, con la loro conoscenza.

Non tutti i greci sono acculturati ma questo è sempre il tratto innegabile del loro carattere: sei tu il barbaro.

La nostra simpaticissima guida, stressata dal troppo parlare e dal racconto della storia antica classica, soprattutto perché i turisti non lo ascoltano veramente, non sopporta di venire contraddetto.

Ha nella sua testa la verità rivelata e nelle sue tasche gonfie tutti i nostri euro che intasca con degnazione perché lui è il greco che ci rende acculturati e noi i barbari che abbiamo l’obbligo di starlo a sentire.

Si chiama Lorenzo perché figlio, chissà, di qualche italiano rimasto qui dopo la guerra. Ma le sue origini non lo esaltano; gli servono invece per guadagnarsi il pane attraverso la conoscenza della nostra lingua italiana.

Lorenzo è il perfetto prodotto della commistione di due culture: gentile e altezzoso, sicuro di sé ma sperso di fronte a qualche osservazione precisa che non padroneggia.

Mi ha prestato il suo giubbotto perché io, prevedendo il caldo, non ho preventivato i diciotto gradi scarsi di Atene e il venticello fresco che attraversa quella città.

Finalmente l’Acropoli: sorge in cima ad una collina e troneggia sulla città. I marmi delle colonne, delle statue, dell’Eretteo, sono fatti dello stesso marmo di cui è fatta la collina. E’ un marmo bianco, opaco e compatto che si presta benissimo alla lavorazione delle colone, dei frontoni, delle statue.

Il viaggiatore è avvolto da un’aura mistica e commovente di fronte a tanta bellezza e si rende conto di quanto possa essere stata la perizia e la cognizione della geometria e dell’aritmetica.

A scuola ci è stato insegnata l’estetica di quell’arte ma non la tecnica che veramente sta alla base di tanta bellezza. L’equilibrio e la proporzione delle parti producono quella stessa bellezza che ha affascinato tutto il mondo. L’eleganza delle pure forme dettate dal disegno delle linee calcolate al millimetro dagli architetti. Ci è voluta la scrittura di Vitruvio nel suo Architectura per farci comprendere come la tecnica stia alla base dell’estetica naturalmente commista all’intuizione artistica.

Dicevo che il Partenone e tutta l’Acropoli commuovono ma tale commozione si mescola con lo struggimento e la rabbia di dovere constatare e pensare perché mai l’umanità è costretta a vedere qui le strutture dei templi e al British Museum di Londra i fregi dipinti del frontone. Questo è intollerabile: che un popolo venga privato della propria storia attraverso la rapina dei vincitori delle guerre. E’ l’avidità dell’uomo la vera iattura e la sua medesima condanna.

E’ la stessa avidità che qui, in questa nave da crociera in cui mi trovo, fa sì che la massa dei turisti che di nulla si interessa, si rechi in ogni momento presso le numerose tavole calde allestite nei saloni della nave e al mattino riempie i propri vassoi con cibarie e dolci , uova  e bacon, brioches, e con tutte le cibarie arraffabili solo perché già pagato all’orgine ma che vengono poi abbandonate, sparse per i tavoli, perché la pancia più di tanto non regge.

 

Istanbul


Che dire di Istanbul?

Ci sono due modi di vedere la città di Istanbul: con lo sguardo del turista e con l'occhio del viaggiatore.

Se si arriva con una nave da crociera, dovrai attraversare gallerie illuminate da luci al neon che ti portano, dopo molti passi, ad una zona esterna piena di negozi con i marchi più prestigiosi: Gucci, Vuitton, Prada, quasi che aspettassero te che comprerai sicuramente la loro merce scontata al trenta per cento. Tu infatti sei andato/a a Istanbul per comprare questi beni di prestigio che potrai sfruttare adeguatamente durante le cene di gala, come quella prima descritta, che continuerai a fare nel corso di tutta la tua vita. Poi ti immergerai nel traffico della città e ti recherai nei luoghi degli acquisti, nel gran Bazar, nelle oreficerie, al mercato delle spezie dove ogni venditore ti proporrà la sua merce e tu contratterai con lui ad libitum e infine acquisterai con la convinzione tutta europea di avere fatto un buon affare. Mentre lui si fregherà le mani contento del guadagno realizzato.

Se arrivi a Istanbul con la medesima nave ma con l'irritazione di chi ha sbagliato tipo di viaggio, attraversando le medesime gallerie, guardando gli stessi negozi di Gucci, Prada etc, ti darai mille volte dell'imbecille per avere fatto una scelta infruttuosa di conoscenza. Infatti quegli oggetti lì li vedi tutti i giorni nelle vetrine dei negozi della tua città dove ti hanno destato riprovazione infinita. Ma ciononostante sei fortunato: alla fine dell'elegante calvario di borse e scarpe griffate, ti appare una vista magnifica: una città, per una piccola parte europea e per un'altra grandissima parte orientale, si squaderna al tuo sguardo: separata dalle acque del Bosforo, essa si estende nelle due rive luminosissime con tutti i suoi minareti e le moschee, le sue case di legno nelle due rive, i grandi palazzi alcuni di foggia turca altri, pochi, di foggia occidentale, e tu non vedi l'ora di tuffarti per le sue strade alla ricerca della sua anima.

Istanbul, comunque la si guardi, è una città magica, orientale, che si estende da una parte e dall’altra del Bosforo.

Una parte, piccola, appartiene all’occidente o così vorrebbero sentirsi dire gli abitanti, la parte più grande, immensa, appartiene decisamente all’oriente.

Instanbul ha 15.655.000 abitanti, secondo gli ultimi dati del 2023, e tu, viaggiatore, quando la vedi dal mare non te lo aspetti neppure e dici: no, non può essere.

Il fatto è che questa città si appalesa lentamente: man mano che entri nello stretto, vedi le prime costruzioni, le più antiche, di legno, prospicienti il mare.  La guida ti mette in guardia da questo tratto di mare: è insidioso e pieno di correnti e se decidi di bagnarti nelle sue acque sappi che verranno a recuperarti nel mar di Marmara.

Nel battello che ti conduce allo sbarco c’è un uomo anziano che vende il caffè che prepara lì al momento per chi volesse fare questa esperienza. Ma prima ti chiede se vuoi il caffè turco e ti dice che lui non ha il caffè espresso al quale siamo abituati noi occidentali. Se tu dici di sì, lui è contento e lo prepara lentamente nella sua caffettiera turca.

L’uomo turco è come te lo immagini: grassoccio con pancia prominente, baffi enormi e una specie di porro nero vistoso sulla guancia, grande quanto una noce.

Io mi faccio fare il caffè turco che lui mi serve presso la parte interna del battello apparecchiata come una sala da pranzo. E solo prima dello sbarco viene a chiedermi timidamente due euro.

Adesso siamo proprio in città e già tutta l’aria sa di oriente. Non puoi non sentire tutto il profumo di spezie che aleggia intorno.

La nostra guida, un ragazzo di nome Deniz che parla speditamente la nostra lingua, ha gli occhi azzurro-acquamarina e la cosa si nota molto per il contrasto con la pelle scura e la massa dei capelli neri. Deniz fa l’appello che ripeterà almeno una ventina di volte durante tutta la giornata. Per prima cosa ci porta nella piazza centrale di Istanbul e ci chiama a raccolta per illuminarci sulla storia della città. Per prima cosa ci dice che quella che sembra essere una piazza in realtà è un ippodromo fatto costruire dai romani dopo la conquista dell’Asia Minore. E poi si dilunga sulla storia della città che prima fu Bisanzio, poi Costantinopoli e, solo molto tempo dopo, Istanbul.

Ci dice come tutta la nostra storia del cristianesimo origina da questi luoghi dove Costantino, reso il Cristianesimo religione ufficiale dell’impero romano, iniziò a fare di questa città una vera capitale più grande della stessa Roma. E da qui principiarono a originarsi tutte le guerre tra oriente e occidente per l’affermazione del potere.

C’è in Deniz un orgoglio nel comunicare al gruppo queste notizie, tanto che poi si vuole accertare che le sue parole abbiano fatto breccia nel cuore e nella mente di tutti noi e ci interroga a salti.

Molti però di questo nostro gruppo non hanno neppure sentito le sue parole e guardano distrattamente ogni cosa dando segni di noia e sbuffando per essere stati costretti a subire la lezione di storia. Ma Deniz non fa una piega, continua imperterrito la sua litania e sembra proprio non avere alcuna voglia di smettere. Nel gruppo ci sono bambini che piangono, genitori che cercano in tutti i modi di calmarli ma non vedono l’ora in cui Deniz si deciderà a porre fine all’elenco delle sue informazioni e al colorito racconto di molti aneddoti. Molti hanno fretta di visitare la basilica della cisterna di cui hanno sentito parlare i loro amici e che adesso sono impazienti di fotografare per dimostrare loro, al ritorno, che ci sono stati.

 

 

 

Adesso che il gruppo dei crocieristi ha fotografato tutto il fotografabile, Deniz ci invita ad andare a pranzo in un piccolo ristorante tipico turco per la modica cifra di 15 euro. Non tutti partecipano ma quelli di noi che vanno possono assaporare delle pietanze buonissime molto vicine alla cucina mediterranea e dolci al pistacchio veramente superlativi. Dal mio punto di vista Istanbul ha la pasticceria più buona al mondo, una pasticceria che non lesina sulla quantità soprattutto della frutta secca che ne costituisce la base più caratteristica.

Deniz ci aveva avvertito che la parte più occidentale di Istanbul non è molto ligia ai dettami dell’Islam: molte sono le donne che non portano il velo e vestono all’occidentale. Tuttavia si vedono molte donne velate e anche molto devote che si recano da sole o in gruppo a pregare in Moschea. Mi incantano queste moschee, numerose, aperte, accoglienti, dove i fedeli vanno a tutte le ore senza organizzazioni liturgiche. Ognuno va quando vuole e se il muezzin chiama dai minareti, tutti sono liberi di andare o no in moschea, ognuno può pregare come e dove vuole perché non tutti sono liberi dal lavoro. Per una donna occidentale come me, entrare in moschea è una rivelazione: il senso di spiritualità che accomuna i luoghi di preghiera come nelle nostre chiese, anche qui è molto evidente. Le donne hanno degli spazi riservati e differenziati da quelli degli uomini: una zona schermata da paratie in legno traforate all’interno delle quali possono stare in ginocchio o anche sdraiate a pregare Allah pronunciabile solo col pensiero. Mi stupisce, prima di entrare, una serie di fontane con sedili per l’abluzione dei piedi. Nessun musulmano entra in moschea con le scarpe e senza prima avere lavato i propri piedi.

All’interno vicino all’ingresso ci sono apposite panche dove lasciare le scarpe che nessuno toccherà fintanto che ogni fedele è in preghiera.

Deniz ci porta a visitare la moschea di Santa Sofia, aperta, ci spiega, nuovamente al culto da Erdogan, dopo che per parecchio tempo era stata trasformata in un museo dell’Islam.

Ma questa visita mi lascia un po’ delusa: in molti punti l’intonaco cade a pezzi, e le zone dove sono state asportate le immagini bizantine sono rimaste scrostate e come monche, private di parti che si intuisce dovettero essere essenziali per l’arricchimento di quella che era stata una chiesa cristiana. La moschea appare adesso deturpata da queste inconsulte avulsioni di mosaici e certo l’islamizzazione non è giovata per niente e da quando, come già detto, ne è stato modificato l’uso, ha perso il suo allure primitivo.

Anche Istanbul non si sottrae ai danni del flusso turistico selvaggio e di sicuro il viaggiatore deve fare appello alla sua immaginazione per figurarsi la Istanbul del passato o quella che ha conosciuto dai libri.

Ma se tu vuoi conoscere il cuore dell’Islam è al Gran Bazar che devi andare. Qui è davvero un godimento tangibile per tutti i sensi: ti sentirai avvolto da effluvi di spezie di tutte le specie da quelli più conosciute a quelle completamente sconosciute e mai sentite nominare se non in qualche testo letterario.

 

 

Il visitatore che andasse per la prima volta al bazar rischierebbe di perdersi ammaliato anche dai colori vividi sistemati con sapiente cromìa dai mercanti e potrebbe conoscere il cardamomo, la curcuma, l'origano in versione orientale e tantissime altre spezie meno utilizzate da noi occidentali. E inoltre l’enorme assortimento di frutta liofilizzata che appaga solo allo sguardo.

 

E se ti capita di entrare in uno qualsiasi di questi negozi non puoi uscirne a mani vuote: la capacità dei venditori è tale che chiunque rimane affascinato. Prima ancora di proferire parola questi bravi affabulatori ti invitano solo a guardare e a condividere il tè caldo e aromatizzato che ti offrono in piccoli bicchieri di vetro. Solo dopo questa degustazione il bravo mercante ti mostra ciò che vorrebbe tu acquistassi ma lo fa accompagnando la vista con la parola: racconti, descrizioni, ricette di cucina, e intanto ti indica con perizia la diversità e la qualità delle merci, con la sua pronuncia inglese quasi senza inflessioni. Anche se tu non dici nulla, lui ti confeziona un pacchetto con questo e quell’altro prodotto fin quando tu non dici: basta. E non ti chiede nulla ma aspetta sia tu a chiedere il costo con un cenno della mano. Naturalmente questo è solo l’inizio: qui inizia la vera e propria cerimonia della contrattazione alla quale noi, nella nostra concezione capitalistica del tempo che è danaro, non siamo abituati ma che per loro fa parte integrante della transazione. E quand’anche tu dessi subito quello che ti chiede, lui non è soddisfatto. Si sente, per così dire, sminuito nel suo valore mercantile che sta tutto nell’atto della contrattazione che è più importante dell’acquisto in sé. 

E mi sembrava di sentire mia madre in Sicilia tanti, troppi anni fa, che contrattava su ogni cosa con i venditori ambulanti, anche sull’uva e le mele. E quello non era perdere tempo ma interagire tra pari e imbastire discorsi partendo dal prezzo per conoscere l’altro e acquisire notizie sul resto del paese.

Le guide turistiche mettono in guardia i gruppi in visita raccomandando di dimezzare il prezzo richiesto per poi magari arrivare ad un accordo finale pian piano aggiungendo o togliendo qualche euro di troppo.

Il bazar può paragonarsi a un nostro centro commerciale dove tutto è esposto e a portata di mano del compratore: si può toccare, indossare, annusare, fare un giro. I mercanti non redarguiscono nessuno. Si possono trovare pezzi di seta molto belli o pashmine coloratissime o anche abiti orientali. Ma la cosa per noi più incredibile è la pelletteria: si trovano modelli taroccati delle più grandi marche mondiali di squisita fattura: non diresti mai che siano delle volgari imitazioni. Solo un intenditore vero può accorgersi del falso. Fatalmente mi sono vengono in mente i vasi etruschi che ho visto a Vulci in Etruria che erano la copia esatta dei vasi importati dalla Grecia classica e ho pensato che tutto si ripete a questo mondo: c’è stato un tempo in cui  i falsari eravamo noi per avidità dei mercanti e vanità dei romani antichi e questo altro tempo dove cambia l’oggetto ma non la motivazione.

Ma tutto questo non basta ancora: ci sono ancora le gioiellerie, le pietre preziose: smeraldi, zaffiri, rubini incastonati all’interno di bracciali, collane, anelli finemente lavorati in oro e argento. Uno scintillio magico, l’anticamera del paradiso terrestre. Se potesse, ognuno di noi si impadronirebbe di qualsiasi cosa.

Ma adesso lasciamo il gran Bazar e tutte le sue magiche insidie e allontaniamoci per le viuzze strette della vecchia Istanbul dove è possibile acquistare formelle di pane azzimo e salse di ogni tipo. E attraverso i basolati lisci e scivolosi d’acqua sparsa per la pulizia serale delle strade, camminiamo a rilento per raggiungere il nostro punto d’incontro col gruppo e tornare sulla nostra nave. Gli occhi pieni di colori e di immagini scolpiscono nel cuore e nella mente i ricordi di questo pezzo di mondo così diverso da noi, così lontano.






























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