venerdì 24 gennaio 2014

Simonetta Agnello Hornby, Via XX settembre, ed. Narratori Feltrinelli, ottobre 2013


Nei 26 capitoli in cui è suddivisa la sua autobiografia, Simonetta Agnello Hornby ci racconta di una parte della sua vita, quella di un’ adolescente che, per motivi familiari, vive tra Agrigento e Palermo. Intorno a lei gravitano tanti personaggi, figure familiari che costellano la vita quotidiana sua e di sua madre. Uno stuolo di zie, cugine, parenti che, come tutti i siciliani sanno, costituisce l’essenza del modo di vivere corale dell’isola. L’autrice racconta episodi, quasi tutti al femminile, dell’atmosfera amorevole e un po’ bizzarra  della sua famiglia allargata, con frequenti ricorsi a pennellate di colore laddove si dilunga con dovizia di particolari a raccontare l’aspetto fondamentale della vita di ogni siciliano, quello culinario. La preparazione dei cibi e dei dolci in particolare, assume un’importanza primaria nel mondo circoscritto della famiglia Agnello. Gli eventi familiari sembrano ruotare intorno alla cucina, luogo privilegiato dal quale osservare e interpretare le vite di tutti i personaggi. Lo sguardo dell’autrice è focalizzato sulle minute rappresentazioni di quanto succede all’interno delle pareti  delle due case in cui vive la sua vita di adolescente: quella grande, ariosa e patrizia di Agrigento e poi, con una maggiore insistenza, quella più piccola ma centralissima della via xx settembre, che dà il titolo al libro, a Palermo. Ed è in quella  Palermo alto-borghese che  la vita della protagonista si intreccia con quella di cugini e parenti e di nuove conoscenze cittadine. L’ambiente descritto è quello degli anni sessanta e settanta, anni in cui la città era interessata da accadimenti che hanno segnato la storia della seconda metà del novecento italiano: la selvaggia speculazione edilizia, gli omicidi di mafia e  gli inizi di quella che successivamente sarà la lotta più lunga e più guerreggiata tra stato e mafia. Anni di fuoco, importantissimi per la storia del nostro paese.
Ma nulla di tutto ciò si intravede nel romanzo della Agnello Hornby. Ciò che la scrittrice racconta  non risente che solo tangenzialmente dell’angoscia di quegli anni. Il suo libro ci racconta di una classe di piccola nobiltà decaduta e parassita ancorata a vecchi schemi esistenziali fatti di ritmi e tradizioni che si ripetono meccanicamente nelle famiglie descritte e che costituiscono forse l’unico elemento di sicurezza cui esse si aggrappano per non morire di noia.
Sembra quasi che in quella città negli anni '60 e '70 del novecento ci siano stati due livelli esistenziali paralleli ma collocati su piani lontani tra di loro anni-luce. La classe media quasi non esiste nel racconto dell’autrice. Totalmente ignorata è anche la massa di contadini e operai, artigiani e piccoli impiegati, commessi e tutta quella popolazione minuta, variopinta, piena di problemi quotidiani che deve arrabattarsi ogni giorno per la sopravvivenza e che tuttavia sa essere ironica, leggera, sa essere generosa e talvolta feroce e che costituisce l’anima di Palermo e che sicuramente era presente anche negli anni in cui si collocano le vicende familiari raccontate dall’autrice. Nelle parole dell’autobiografia emerge viceversa la descrizione di una dimensione di vita assolutamente fuori da questa realtà. La protagonista, come le cugine e gli altri giovani che fanno parte del suo entourage, vivono in un mondo a parte, non contaminato dai problemi contingenti e reali di quella città.
Il tipo di vita, così come veniva vissuta dai giovani e dai vecchi di quella classe sociale emerge, nelle righe del libro, appiattita su poche e poco interessanti vicende. E’ una descrizione monca e priva di quella atmosfera che pure tra gli anni sessanta e settanta del novecento connotava l’ambiente studentesco di Palermo, impegnato a cogliere l’eco  della rivoluzione del sessantotto all’interno delle aule universitarie. Certo nei modi palermitani, cioè con sottotoni fatti di umorismo e allegria, dove l’impegno politico si stemperava quotidianamente con un po’ di cialtroneria tipicamente isolana. Ma nulla di queste atmosfere si coglie in questo libro. Tutti i personaggi sono appiattiti e come fermi entro contorni circoscritti e delimitati da imperativi di classe.
Mancano le emozioni, manca la rappresentazione a tutto tondo anche di quella via XX settembre dove non è possibile che i destini di quei giovani di cui l’autrice riferisce, non si intrecciassero  con le vite di quegli altri giovani, che, pur appartenenti alla stessa classe sociale, si erano coinvolti nella lotte studentesche vivendo il proprio tempo e le aspettative sociali.  Se l’autrice voleva descrivere anche Palermo e la sua gente, il tentativo è proprio senza effetto. Perché non si intravede né analisi né approfondimento di quella realtà. Mancano le emozioni. Manca anche una certa letterarietà, quella, per intenderci, che fa sì che  il racconto, anche del proprio privato, si universalizzi diventando occasione di riflessione e di meditazione per il lettore. Il quale, se anche ha avuto la pazienza di arrivare fino in fondo, si trova a chiedersi incredulo: ma perché questa signora ci ha raccontato i fatti suoi? Questo è infatti il solo interrogativo che mi son fatta alla fine della lettura. Anche le frasi e le parole dialettali sanno di straniamento non artistico ma ingenuo e fuori campo. Lettere e suoni decontestualizzati. Che non emozionano.
Il libro strizza l’occhio al lettore di bocca buona e odora parecchio di commerciabilità.


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