venerdì 5 febbraio 2021

Sulla faccia della terra- Romanzo di Giulio Angioni

Recensione di Maria Rosa Giannalia



 

Editore: Feltrinelli

Collana: Indies. Feltrinelli/Il Maestrale

Anno edizione: 2015

 

   Chi volesse leggere questo libro di Giulio Angioni, antropologo, come una lettura di piacere, credo avrebbe qualche difficoltà. Ritengo infatti, che questo sia uno di quei  romanzi che richiede attenzione e impegno anche se si presenta in forma molto agile e breve - sono appena centocinquanta pagine circa-  ma assolutamente pregnante per i contenuti espressi.

    Il contesto storico è la lotta che  Pisa e Genova ingaggiano senza esclusione di colpi per impadronirsi del giudicato di Cagliari,  libero da asservimenti feudali ad altre entità politiche estranee all’isola di Sardegna la quale,   nel medioevo, presenta una storia differente rispetto a quella del resto dell’ Europa infeudata e sottoposta alla reggenza dell’imperatore, essendo organizzata in quattro Giudicati indipendenti ognuno dei quali risponde all’autorità della reggenza di un giudice autoctono e autonomo. Unico esempio di autogoverno  nell’Europa feudale.

   La narrazione si incardina sulla figura di un narratore interno, certo Mannai Murenu, vinaio di Seui, che settant’anni dopo i fatti accaduti nell’anno 1258, quando i Pisani prendono d’assalto la città di Santa Gia ( l’antica Cagliari), radendola al suolo e spargendovi sale sopra, dopo essersi dato per morto, in realtà resuscita e, da vecchio, racconta la storia della quale è stato testimone .

   In questa avventura Mannai è   in compagnia di  Paulinu da Fraus servo di convento, Akì, schiava persiana, Vera da Tori di nobile casato. Al quartetto si aggiungerà più avanti l’ebreo Baruch,  paralitico, e due giovani sediari che hanno il compito di trasportarlo. Questi personaggi si stabiliscono presso lo stagno prospiciente la città di S. Gia - ,in realtà Santa Igia - in una isoletta-lebbrosario dove difficilmente i pisani si avvicineranno e dove i sette protagonisti potranno sopravvivere grazie all’abbondanza di pesce, di frutti di mare e altri buoni nutrienti presenti in abbondanza nello stagno.

E lì riescono ad organizzarsi la vita in una sorta di minisocietà strutturata senza gerarchie, dove ciascuno  assume valore e necessità grazie alle proprie competenze nell’arte della sopravvivenza. La società organizzata ha una struttura orizzontale  nella quale tutti hanno voce in capitolo legati tra di loro non da rapporti di potere ma  di solidarietà.  Questa piccola compagnia riesce a sopravvivere  fino a quando i nemici  pisani  decidono di distruggere la loro comunità e l’isolotto- lebbrosario in cui hanno preso dimora.

   Fin qui l’esile trama. Ma il romanzo è molto più che la sua trama poiché, a mio parere, credo sia stata pensata dallo stesso autore come narrazione a carattere antropologico.

    Il romanzo funge da pre-testo per un approfondimento  che mutua dai testi narrativi una struttura finalizzata , proprio attraverso il narrato , alla conoscenza-descrizione dei caratteri antropologici degli isolani di questa parte costiera.

     Nel testo si colgono parecchi spunti in tal senso a partire dai tòpoi di riferimento molto connotati: gli scampati alla distruzione, per esempio, che decidono di riorganizzare la propria vita in una comunità di pari senza alcun ordine gerarchico ma solo in base alle esigenze di sopravvivenza; lo stagno dove questa minuscola società nascente trova  il luogo ideale per la sopravvivenza e lo elegge come luogo degli scambi ( cuncambias); i riti della nascita e del matrimonio. Lo stagno è il luogo dove si incontreranno e si stabiliranno gli altri personaggi convenuti successivamente, come  tre soldati tedeschi capitati nell'isolotto per caso e altri. Tutte queste presenze di diversa provenienza geografica ed etnica convivono nell’isola-lebbrosario denominata Terra Nostra, in pace e in solidarietà intorno al personaggio-chiave l’ebreo Baruch, còlto, saggio, razionale, in grado di indirizzare la piccola comunità e di indicare con chiarezza i  valori su cui fondare la nuova comunità.

   Mi sembra sia evidente l’esigenza da parte dell’autore di descrivere una utopia sociale, dove rispetto, solidarietà, amore nella piccola comunità nascente, si oppongono all’avidità, all’arroganza, al disprezzo per la cultura dei nativi, tipica dei conquistatori. La mitezza predominante dei personaggi non permette loro di resistere all’ultima grande offesa dei Pisani che alla fine distruggono tutto con la loro violenza. Solo l’amore salva , nella conferma finale dell’affermazione classica amor vincit omnia et nos cedamus amori che alla fine si sostanzia nella rinuncia della libertà di nascita dell’unico personaggio di nobile casato, Vera de Tori, la quale, anziché rinunciare al marito tanto amato ma di condizione servile e agli stessi figli anche loro servi  perché nati da un servo, si rende serva anche lei. In fondo ogni romanzo ha un lieto fine e questo è il fine lieto con cui Angioni conclude la sua storia.

   Ma gli uomini? C’è un passo che mi ha fatto molto riflettere: 

 

E siccome il peggio di altrove è spesso una minaccia anche per noi, sull’Isola Nostra, Paulinu mette a frutto anche altrimenti il genio militare dei tedeschi, prima che se ne vadano davvero dal loro re tedesco di Sardegna ( re Enzo?).

In caso di attacco che si fa? Resistere? Manco a pensarci. Vie di fuga piuttosto, giù per la laguna…

 

Non si parla mai di lotta né di resistenza, ma solo di fuga e di scampo.

La forma prescelta è quella della narrazione a più voci: a Mannai Murenu al quale l’autore Giulio Angioni affida il compito dell’aedo che parla la lingua dei sardi in una sintassi calibratissima che riprende il parlato traslato solo nelle parole dell’italiano, si affiancano, come  narratori di secondo grado, tutti gli altri personaggi ognuno dei quali parla nella sua lingua resa  attraverso la differenza di registro linguistico: colta e raffinata quella di Baruch l’ebreo, immaginifica quella di Akì la schiava persiana, umile e tutta cose, quella di Tidoreddu e dei sediari. E così il romanzo procede intessendo la piccola storia, che qui assume dignità di racconto degli umili, contrapposta alla grande storia che sfugge spesso alla comprensione dell’umanità che la sta vivendo e che difficilmente ne comprende le ragioni.  Così la storia raccontata dalle donne diverge totalmente da quella raccontata dagli uomini: ognuno si racconta la sua storia che alla fine è fatta più dal racconto dei modi di sopravvivenza che dalle vicende che trovano posto nei libri.

La narrazione costruita attraverso la creazioni di archetipi presenta però un limite: l’intento didascalico dell’opera affiora tra le righe e attraversa tutta la vicenda rendendone  meno avvincente la lettura. Il carattere antropologico dell’opera non permette l’approfondimento psicologico dei personaggi, svincolandoli dal loro ruolo e mostrandoli al lettore in tutti i loro risvolti umani, così come avviene in genere nelle letture di piacere. Perciò il lettore assai difficilmente potrà rinvenire questa piacevolezza. E’ necessario piuttosto che egli si avvicini all’opera in un’ottica diversa.  Tuttavia tale aspetto costituisce il grande valore di questo libro: la creazione di un universo archetipico  della popolazione sarda attraverso la tipicizzazione dei personaggi. Non può sfuggire all'attenzione del lettore  che tali archetipi sono quelli che tuttora stanno alla base dei connotati caratteriali degli isolani.

 


  

 

 

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