domenica 1 marzo 2015

Oggetto e linguaggio della narrazione



In questa pagina riportiamo una conversazione  nata da una riflessione della scrittrice Bianca Mannu sul tema citato nel titolo di questo post.
Invitiamo chiunque voglia partecipare a scrivere le proprie  considerazioni nel merito.


Bianca Mannu ha scritto:

Nell’era in cui molte delle nostre informazioni, parecchie nostre impressioni, esperienze e
fantasie vengono mediate dalle immagini – foto, animazioni, documentari,reportage, film, fiction, vignette, fumetti – si tende a sottovalutare  la potenza rappresentativa della parola
scritta. Lo scritto, per il fatto stesso di offrire una certa resistenza alla
decodifica immediata, viene spacciato come noioso e astratto, perché, presso il
grande pubblico talora funziona il pregiudizio ingenuo che l’immagine parli
direttamente e sia immediatamente esaustiva, convincente, veritiera e racconti tutto il raccontabile. Non è proprio così. E chi ha anche una piccola infarinatura di tecnica del disegno, della fotografia, della ripresa filmica,della pittura, eccetera, sa quante operazioni comporta anche solo la pretesa di una pura e semplice rappresentazione istantanea di un piccolo oggetto.  
L’atto del narrare è anch’esso complesso e per converso la fruizione comporta l’attività  del pensiero. in un tempo meno dominato dalle immagini, il narrare era una pratica abituale basata sulla comunicazione vocale; veniva acquisita e trasmessa per imitazione. Ma certo nell’ascolto favoriva coloro padroneggiavano meglio, non solo la  lingua, ma la funzione fatica del gesto, ciò che viene meno nello scritto.
Oggi che la diffusa scolarizzazione dovrebbe renderci più avvertiti su questo tema,  ci si rappresenta ancora l’atto del narrare in modo elementare. Immediatamente immaginiamo un osservatore neutro che guarda fuori da sé (anche su uno schermo mentale) verso uno spazio degli eventi dove dei personaggi compaiono,  si comportano e agiscono. E dal quel suo spazio osservativo privilegiato si pensa che s’industri di applicare ai materiali percettivi provenienti da quelle figure e da quegli eventi-azione il suo repertorio di frasi. In tale modo la scrittura narrativa appare come un abito confezionato a parte, infilabile, estraibile, sostituibile che deve avvolgere il corpo della cosa narrata, fisso e immutato nella sua condizione di dato.   
Invece, secondo me,la narrazione nasce già vestita, per dire così; ossia non c’è prima l’oggetto e poi la parola che lo raffigura e/o lo esprime. E quando l’autore è insoddisfatto e apporta delle modifiche, queste non concernono la pellicola verbale, ma proprio lo statuto dell’oggetto/evento di quella narrazione, il quale, se considerato nella sua secca esistenza/scansione (mentale o oggettuale, poco importa), è incomunicabile. Infatti il contenuto di un pensiero come tale non può raggiungere alcun destinatario.
E allora raccontare è un’arte la cui materia prima è già irreparabilmente involta e impastata di parole; ed essa insistentemente esige le sue parole (e quando una siffatta congiuntura non si ottiene, è proprio l’arte a soffrire!). Così è già del discorso quell’altro materiale che appare come non narrato, e che pure lo è, la cui persistenza nell’immaginario di chi legge è un  effetto indotto dalla sapiente introduzione di stimoli parola, in un gioco di richiami e di assenze, costituenti un che percepito come “esterno”, come milieu.
Nella narrativa moderna - quella, per intenderci, inaugurata da Kafka, Svevo, da J. Joyce, Pirandello,da Virginia Woolf e altri - non è più riproponibile la sequenza lineare delle vicende che corrono come in un arazzo semovente e perfettamente disegnato verso la/il fine prestabilito; né può più risultare credibile e appagante la scomparsa del narratore, cioè la sua pretesa di cancellarsi come implicato, tuttavia arrogandosi la funzione di “deus” che, ingiustificatamente, tutto vede e prevede, anche le intenzioni di quelli che egli vorrebbe come personaggi vivi e autonomi e che rischiano di essere trasformati invece in fantocci.
La finzione narrativa regge se il “trucco” non viene proposto in modo surrettizio o irriflettuto (non riflettuto/ irriflesso).



Maria Concetta Rosa Giannalia  ha scritto:


Effettivamente , cara Bianca, la narrazione come sviluppo della sola parola, oggi non può più essere fruita tout court dalla massa dei lettori. E ciò per motivi che sono anche indipendenti dalla volontà del lettore stesso, nel senso che esiste molta differenziazione tra i diversi livelli di consapevolezza , oltre che gradi diversi di attrezzature culturali. Chi scrive oggi deve considerare a) il suo pubblico e conoscerne le potenzialità, b) la tipologia ( un conto è scrivere per un giornale o per una rivsta, un altro è scrivere un racconto o un romanzo, un altro ancora è scrivere saggi ecc.), c) il mezzo adoperato ( blog o sito, scrittura a video, libro cartaceo, e-book e altro) , d) il tempo che il lettore ritiene di dovere investire nella decodifica dello scritto che ha davanti. Il lettore è sempre "costretto" in qualche modo, nel momento in cui legge, a fare quelle operazioni intellettuali che tu descrivi nel tuo post. Il problema è "quanto" egli vorrà investire della sua attenzione per capire. Ora io credo che i social in questo senso non aiutano: per sua natura il post deve essere sintetico per una lettura veloce che impatti immediatamente col pubblico. E pertanto tende alla massima semplificazione e alla banalità. Basta fare una piccola prova: vediamo quante risposte otterrà il tuo post. Per concludere, la narrazione lunga che richiede tempi distesi, è un lusso per pochi iniziati. Invece il romanzo commerciale, scritto in modo sincopato e minimalista, che fa parlare direttamente i personaggi e li fa agire senza descriverne i pensieri, ha qualche chance in più per essere fruito da molti lettori. Anche il discorso della narrazione che procede in sequenza lineare, non credo che non sia più proponibile oggi perché i narratori del novecento hanno inventato un altro modo di rappresentare il loro mondo narrativo, ma perché nessun autore oggi potrebbe scrivere una "recherche" tanto per intenderci e pretendere di avere più dei "venticinque lettori". Non è una questione di lunghezza, ma di agilità narrativa. Oggi il romanzo "deve" essere dinamico per avere qualche speranza di lettura. Ma noi sappiamo che i buoni scrittori se ne fregano di adescare il lettore e sanno tirare diritto per la propria strada.Per fortuna.



Roberta Caria ha scritto:

L'atto del narrare è, per sua stessa natura, puro esercizio spirituale. Monologo interiore scevro da manipolazioni visive, stenta a decollare in un mondo in cui la comunicazione visiva spazza via ogni sforzo cognitivo per i più; non è così per tutti, ma per troppi. Sono i nuovi martiri. Vittime del mondo ma prima di tutto di se stessi. È sempre un bel leggere. Ciao, cara.


Giovanni Paolo Salaris  ha scritto:


Raccontare è anche parlare con se stessi e parlare anche con un pubblico ipotetico, di se stessi e degli altri. Senza questo scambio, spesso dialettico, non c'è comunicazione e dunque neppure narrazione.



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