venerdì 6 marzo 2015

Osservazioni sul libro di Savina Dolores Massa: Cenere calda a mezzanotte ed. Il Maestrale – Nuoro 2013 pp. 424



Nello scenario di Aristanis, in una Sardegna ancestrale e immobile, si intrecciano i destini  di alcune  donne, Bonaria, Rebecca, Peppina, Petronilla, Maria Carta, e di alcuni uomini che ad esse fanno da sfondo e contraltare, in un lungo periodo che spazia nell’arco della prima metà del ‘900.
Bonaria e Antonio vivono una felice vita matrimoniale improvvisamente interrotta dalla morte di lei per un banale incidente. La donna continua a presentarsi  nella mente di Antonio che crede di vederla negli specchi installati nella camera da letto. Altri fatti, tra il reale e il magico, incombono e permeano le vite e le relazioni tra i personaggi: l’amicizia beffarda e complice tra Petronilla e Maria Carta  che attraversa tutto il romanzo e filtra il racconto dell’operato di entrambe;  Petronilla nel suo triste e pensoso atteggiamento di donna insoddisfatta, innamorata ancora di Antonio, suo antico promesso che l’ha abbandonata per la più seducente Bonaria; l’amica Maria, sempre pronta a rintuzzarla con le sue battute  benevolmente salaci. Le due donne si separeranno solo dopo il matrimonio della figlia di Petronilla che di malavoglia seguirà il marito a Carbonia, lasciando per sempre la casa di Aristanis a sua figlia appena sposata. Alcuni flash sulle vite degli uomini di queste donne, figure minori e di solo contorno, accentuano il protagonismo femminile di tutto il romanzo.
 L’architettura delle vicende è costruita tutta a partire dagli interni delle case e da una strada , la ruga di Peppi Enna, che costituiscono lo scenario di eventi evocati e rappresentati come dentro le quinte di un teatro. Non ci sono vere azioni. Trame e intrecci non si fondono in una narrazione lineare attraverso il tempo. L’autrice tesse una tela in cui i personaggi sembrano esistere già ancor prima di essere stati concepiti, in un mondo statico, dove il tempo ancestrale sviluppa solo percorsi conosciuti, attesi, temuti ma accettati.
L’amore, interrotto da una morte occasionale, tra Bonaria e Antonio, rimasto vedovo con soli figli maschi, il matrimonio di Rebecca e Tommaso ricco di molte complicità, il rapporto coniugale senza amore ma di soli obblighi, di Petronilla e Giovanni non hanno bisogno del “racconto”. Sono le donne e gli uomini, con le loro voci che  propongono al lettore la loro commedia umana. Tutto quell’amore che sbatteva alla casa le offendeva i capelli avviati su sentieri opachi,
e gli occhi in principio di caduta di un fosso,
e i denti troppo deboli per potere affrontare il morso d’amore rimasto non dato ad un collo maschile
è il pensiero di Petronilla la bionda, alla comparsa dell’amore di Giomaria per sua figlia Luisetta.
Le vicende non si discostano da quelle di molti, o quasi tutti, gli abitanti del luogo che vivono nei discorsi dei personaggi anche le loro singole vite. E’ la polifonia delle voci che fa emergere dallo scenario di fondo, sia quella mitica Aristanis  evocata con pennellate di luce nei racconti dei personaggi, sia  le vicende che il lettore è invitato a ricostruire da sé mettendo in fila i grani della narrazione.
Aristanis diventa una specie di Macondo, più vicina e palpabile forse, in cui però si coglie la stessa nostalgica visione del destino che si compie ineluttabile sempre, senza che le azioni umane riescano a scalfirne una sia pur minima parte.
I due differenti registri linguistici adoperati dall’autrice separano l’ambito della descrizione da quello della narrazione dove la lingua sarda dei parlanti prevale  nella sua intrinseca struttura sintattica in cui solo il lessico viene reso in lingua italiana. E’ un’operazione  pregevole di immersione nella cultura che si rappresenta, dove tutte le “voci” acquistano credibilità e vivacità narrativa e dipingono  pensieri, sentimenti, emozioni che entrano dentro il cuore del lettore e lo rendono partecipe delle vicende narrate universalizzandone la prospettiva e i significati. Certamente questo espediente letterario ha il limite della geografia. Il lettore non sardo incontrerà qualche difficoltà a decodificare del tutto i significati peculiari delle conversazioni tra gli attori delle scene, costellati dall’abbondante uso dei gerundi. Ma è un piccolo pegno che bisogna pagare per la scoperta di questa “favola” meravigliosa che la scrittrice sa rappresentarci. D’altra parte in questa scrittura sembra aleggiare alquanto forte l’eco di quella di Saramago nella scelta di adottare anche  punteggiatura e ortografia non canoniche. Uscire dal canone classico della punteggiatura fa parte dell’atto creativo dell’autrice, senza il quale, forse, l’esito e la fruibilità non sarebbero stati gli stessi.  Come anche le antifrasi caratteristica della lingua del luogo E Peppina, chissà che cosa le farà di regalo: tanto non ci tiene a tua figlia!... Lo so, confermò Petronilla, era dispiaciuta di non poterle dare la culla di Giomaria…un lavoro fine, legno intarsiato a stelle di Betlemme, come diavolo si chiamano?,
Ma cosa quelle con La coda?,
Eh, quelle! Adesso il nome non mi viene in testa, Antonio Mammaiòni morta la moglie l’ha presa e l’ha bruciata,
Ah, adesso mi sono ricordata, stella con la menta si chiama in italiano…
Il mondo dei “cortili” rappresentato dalla polifonia è un mondo tragico e superstizioso, dove magia e realtà non conoscono confini precisi, dove Petronilla si dice preda di coittèdda (il diavolo) fino a confondere le sue inquietudini con l’ orribile apparizione in una magica notte di cui conserva il segreto, estorto con  pressanti insistenze dalla comare e amica Maria Carta ma solo in un altro luogo: il camposanto, dove le due donne si ritrovano a morte avvenuta con un distacco di vent’anni. Il  mondo sotterraneo, affollato dagli spiriti degli stessi personaggi ormai morti, restituisce al lettore  in una sorta di reincarnazione impalpabile, la continuità delle forme che si eterna all'infinito senza una vera soluzione di continuità, anche al di là della narrazione stessa.
La storia ha inizio con la morte di una delle protagoniste e arriva alla fine con una chiusa trionfale che si sostanzia nella terza parte dal titolo  voci da un altro cortile e nel frattempo ne attraversa la trama percorrendo tutto l’intreccio delle vite dei personaggi. La morte è il fil rouge che emerge qui e là con acuminate espressioni per concretizzarsi solo alla fine in quell' Ade sotterraneo  in cui  Petronilla raggiunge Bonaria che l’aveva aspettata per vent’anni. Ma anche in questo Ade le due comari non perdono l’abitudine ai rintuzzamenti, né Maria Carta rinuncia a conoscere il segreto dell’amica. Ed è qui, solo nella morte, che riesce ad estorcerlo. Petronilla finalmente racconta …coittedda me lo sono trovato sopra, e manco il respiro mi è uscito per lo spavento. Era nero come pece. Antonio?...sei qui finalmente…mi ha spogliata lasciandomi così come mamma mia mi aveva creato…non andare via. E dal nulla come era arrivato se n’è scappato. Questa è la storia, Maria Carta.
 E alle incalzanti e maliziose domande dell’amica, Petronilla la bionda, si schermisce, reiterando la sua convinzione che fosse stato il diavolo in persona ad averla posseduta e che il suo spavento era stato terribile. Ma l’amica non si dà per vinta e rincalza Coittettèdda o non Coittèdda ti ha portato in paradiso, dimmi di no se trovi il coraggio!
Petronilla ammise, Beh, proprio l’Inferno non era.



Maria Rosa Giannalia

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