sabato 2 maggio 2015

Come in un sogno. Ancora malasanità.

E' accaduto un'altra volta. La seconda nella mia vita. Non ne desidero una terza .Vivere per otto giorni la vita di  una corsia dell'ospedale , da degente, non è una  cosa che possa risultare attraente. Necessaria, forse sì, attraente mai.
E quindi  è così che mi ritrovo, mio malgrado, in questa situazione, in un tempo che è come sospeso tra il ritmo di vita ordinario che era anche mio e che adesso non mi appartiene,e quello in cui mi trovo di oggi, quello dei malati avviluppati nella sofferenza, sordi anche al vicino di letto, sconfitti dal proprio dolore.
Il mio è ben poca cosa, un male di stagione degenerato che mi ha necessitata al ricovero , ma il passaggio obbligato mi ha costretto a vedere con altri occhi i miei simili. Tra questi, ovviamente annovero anche il personale ospedaliero. E così ti accorgi di tante piccole sfumature: la ragazza, giovane, in stanza con me, mi racconta il marito, stava per morire, per un malessere stagionale simile al mio, mal curato presso un altro ospedale cittadino.  Non per incompetenza, ma per incuria, non per la pericolosità del virus, ma per la strafottenza del primario che non cura abbastanza l'organizzazione del suo reparto, non per la tragica fatalità contro cui ogni umano agire è inutile, ma per mancanza a-s-s-o-l-u-t-a  di attenzione alla persona. Tutto qui. Come se una volta entrato in ospedale, ciascuno di noi perdesse la sua fisionomia di essere umano, per assumere quella di un "caso" clinico, o, peggio, di un numero di corsia.
Solo l'intervento tempestivo del marito che ha preteso con urla e improperi ( ci vogliono, ogni tanto, basta con questa fiducia nei primari e con il timore reverenziale, alcuni non se lo meritano proprio, né l'una né l'altro)  all'indirizzo del primario, il trasferimento in altra struttura, ha salvato la giovane in questione, mamma di due bambini.
Nella struttura dell'ospedale di Is Mirrionis, reparto infettivi, invece, la giovane è stata curata, accudita amorevolmente da tutto il personale, in primis dalle infermiere che  ne sono fatte carico. L'hanno accudita, coccolata, consolata e curata bene ovviamente. Quanto è importante per un paziente ospedalizzato trovare conforto ed empatia tra il personale ospedaliero? 
L'ospedale è un altrove in cui il tempo diventa altra cosa, si deforma, si dilata. Nella struttura estranea che l'accoglie,  il malato si sente sperso,  tutto sembra complottare contro di lui, e  le difese psicologiche, anche più consolidate, cadono di fronte all'essere un "ammalato". Incombe la paura, il terrore di non farcela, di continuare a star male. Il paziente è indotto a sottomettersi al volere di coloro che sono preposti alla sua vita. Si accosta a loro con timore reverenziale, quasi non chiede, non osa, per timore di essere rintuzzato anche nelle richieste più banali. E allora è il personale paramedico e medico che deve avere la giusta intuizione, che deve accostarsi con RISPETTO al dolore e alla sofferenza dell'altro, sopportandone pazientemente anche le richieste reiterate, anche se sa che non sono necessarie. Il paziente , quando è in ospedale, diventa indifeso, è come un bambino, è nelle mani di altri. Ho avuto modo di apprezzare la grande professionalità dei medici di questo reparto come anche l'umanità veramente grande delle infermiere. Alcune di esse gestiscono il proprio ruolo con grandissima dignità e con dedizione assoluta. Bisogna proprio dirlo, questo è un mestiere faticosissimo e molto molto impegnativo. Ma credo che la bontà del servizio di un reparto dipenda in primo luogo dal primario. E' il direttore che fa la differenza nei reparti. E la cosa è evidente anche al primo sguardo: pulizia, silenzio nei corridoi, personale efficiente, gentilezza e calore umano. Tutto questo conta almeno al 50% per la guarigione del paziente contribuendo al suo benessere psico-fisico.
Con tutto quello che la Regione Sardegna spende in sanità, con una 
spesa sanitaria complessiva che ha raggiunto quasi tre miliardi e 360 milioni, pari a quella del Lazio ma per solo un milione e mezzo di abitanti ( tanti siamo tuttora i residenti nell'isola), non sarebbe cosa buona e giusta pretendere non solo l'accuratezza e la professionalità nelle cure, ma anche un trattamento dignitoso dei pazienti, improntato alla vita di una comunità che si ritiene civile?
Invece...non è proprio così. C'è una differenza notevolissima non solo all'interno delle divisioni ma anche tra reparti e reparti. Se si è fortunati, può capitare di trovarsi nella corsia giusta, altrimenti bisogna affidarsi alla divina provvidenza, se si è credenti.
Non penso proprio che, viste le cifre citate, noi cittadini ci dobbiamo rassegnare a questo sistema. Bisogna levare la voce, farsi sentire, dire  con fermezza il proprio parere e, se l'ammalato non può, devono farlo i familiari. Non possiamo sopportare che mentre si sperperano milioni e milioni di euro, provenienti dalle nostre tasse e quindi dalle nostre tasche, dobbiamo accontentarci di un servizio scadente da paese del terzo mondo.
A queste cose dobbiamo pensare quando facciamo le nostre scelte politiche e non alle alchimie di potere che, da qualunque parte vengano, non vengono certo per il nostro meglio.
In Sardegna, in particolare, dovremmo proprio smetterla di guardare altrove e invece guardare al nostro interno, a ciò che avviene nelle  nostre istituzioni, e insistere su queste, senza farci sviare verso altri problemi messi davanti ai nostri occhi non per farci vedere ma per accecarci.



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