mercoledì 13 marzo 2019

Fermata al 58


di Salvatore Pinna

Aipsa edizioni, Roma 2018

Bel racconto in prima persona , attraverso gli occhi di un bambino , del pullulare di vite intorno al Castello, quartiere principale e più antico di Cagliari, in un arco temporale che va, orientativamente, dal ‘48 al ’58 del novecento, gli anni importantissimi  della ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale fino alla elezione al pontificato di Giovanni XXIII. Questa elezione è ritenuta, sempre dall’autore, uno spartiacque che conclude un’epoca, quella della sua fanciullezza e adolescenza vissuta nell’innocenza e nel tepore di un quartiere fortemente connotato e connotativo.
   Non si tratta dello sviluppo di una storia: il libro narra, in 57 capitoli più l’epilogo, tante piccole storie, quelle dei bambini che nascono e crescono in una comunità separata  geograficamente dal resto della città sia dalla posizione – la rocca in cui sorge il quartiere denominato Castello e chiamato “acropoli” dall’autore - sia dall’appartenenza sociale – piccola comunità fortemente stratificata in miseri - i baraccati all’interno delle rovine dell’ex questura, di cui si parla solo tangenzialmente per sottolinearne la non appartenenza-, i poveri, i piccolissimi borghesi e i benestanti.
   Tutto questo mondo è visto e descritto attraverso gli occhi del bambino protagonista e io narrante, che non si nomina mai ma che, invece, nomina per nome, cognome e talvolta soprannome, tutti i compagni e gli adulti.
   Il protagonista descrive le avventure, tra gioco, studio ed esperienze d’infanzia, di tutti i suoi coetanei, con i quali viene a contatto, e dei loro genitori, ma solo quando le  storie di quest’ultimi intervengono a collimare con le avventure dei piccoli. Sullo sfondo La Storia che , in questo caso, coincide con le narrazioni delle attività dell’associazione parrocchiale di S. Saturnino, collante principale che tiene insieme tutti i ragazzini conferendo loro una formazione religiosa secondo i canoni dell’epoca, nella quale essi si identificano. L’azione cattolica e il circolo S. Saturnino ad essa collegato sono le uniche istituzioni che offrono loro la possibilità di condividere un tempo ben organizzato, ad opera dei preti, per i  giochi (le partite di calcio) e la formazione culturale (le proiezioni nel cinema parrocchiale).
   Il punto di vista  si mantiene costante lungo tutta la narrazione e il registro linguistico adoperato  varia col variare dell’età del protagonista.
   Mi è sembrato molto ben costruita la rappresentazione di questa vita in verticale attraverso le vie di Castello che si snodano tortuose e strette contornando  la quotidianità dei loro abitanti.
   La narrazione ha l’andamento della descrizione di tranches de vie che non va a sfociare, universalizzandone i contenuti, in un respiro più ampio. I capitoli si aprono e chiudono come delle scenografie in cui avvengono i fatti circoscritti alle sensazioni derivate dalle esperienze fanciullesche, anche se aleggiano, per tutte le pagine, apprezzabile freschezza e levità che ben si sposano con il narrato. Le parole accompagnano con precisione i gesti e le imprese dei bambini  e degli adolescenti e ne risaltano bene i contorni. Però il lettore è come uno spettatore che vede attraversare davanti a sé, su uno schermo, le scene che divertono e alimentano la sua curiosità e l’intrattengono piacevolmente, ma non lo coinvolgono intimamente.
   Solo in alcuni punti la cronaca lascia la mano a momenti di godimento letterario, come ad es. nel momento in cui l’autore, identificandosi col narratore, narra al presente e attraverso una consapevolezza matura, i pensieri del bambino di allora incapace ancora di tradurre in riflessione consapevole l’esperienza  del confronto con altri bambini e  del valore della tradizione.
   Quanto significato e quanta valenza questa assuma negli accadimenti della vita sono espressi nel pensiero  dell’io narrante adulto: nella raggiunta consapevolezza, egli si accorge che  tali accadimenti non sono del tutto casuali ma  la casualità che riveste le cose si dà attraverso una forma definita dall’ambiente di provenienza familiare. Il quale, se non si radica in una tradizione, appunto, non riesce a fornire elementi di riferimento sicuri:


 “Io sapevo che non solo non avevo la memoria della tradizione, ma avevo perso anche quella che, nel bene e nel male, mi avrebbe restituito un po’ di me stesso. Se mio padre avesse continuato a fare il contadino povero senza terra mi avrebbe potuto trasmettere di essere un contadino povero e senza terra. Avrei saputo zappare, seminare, innestare e parlare il sardo. Anche questa è una tradizione”.

   Un altro elemento significativo del libro mi pare si debba ricercare nell’assenza di rilevanti presenze femminili. Anche la descrizione delle prime innocenti esperienze della sessualità, rendono bene  il gusto della scoperta ma il punto di vista è sempre e solo quello maschile,  dei bambini, appunto.
   Mancano del tutto i padri: i padri non esistono se non come riferimenti negativi o insignificanti.    Queste assenze si possono ben interpretare come incapacità di quegli uomini di intraprendere un rapporto con i ragazzi e mantenerlo. Sono esistenze volatili o pesanti e destabilizzanti ( il caso del padre di Marteddu).
  A fronte di queste assenze ci sono , viceversa, delle presenze ben marcate, i preti, che necessariamente assolvono al compito negato dai padri.
   Le madri, sono meglio connotate, ma di sfuggita. Tanto che l’autore ricorre ad un espediente narrativo in cui direttamente la madre del protagonista si racconta e racconta il suo punto di vista, sull’ambiente familiare e sulla dolorosa esperienza della perdita di un figlio. Questa presenza narrativa che appare in “camei” che costellano, a tratti, la narrazione, hanno, secondo me, la funzione di introdurre uno sguardo diverso, quello femminile.
   Peccato, perché queste pagine non sembrano intrecciarsi profondamente col resto delle narrazioni, e rimangono  come “voce” isolata che non commenta ma racconta solo di sé.
  
Il libro di Salvatore Pinna ha, nel suo complesso,  una grande valenza locale: quella di avere raccontato il territorio di quella  parte  importante della città di Cagliari che va a consistere nel Casteddu e’ susu  colto nel periodo di passaggio da una ricostruzione cogente con pochi margini di meta cognizione, alla consapevolezza di una nuova società il cui inizio  è dato, come significato dal titolo, Fermata al cinquattotto, lo stesso anno in cui si interrompe per sempre l’innocenza dei ragazzi di Castello e si chiude definitivamente un’epoca che non avrà più legami col nuovo mondo , quello delineato dal nuovo corso di cose  del circolo di San Saturnino conquistato da più scafati e politicizzati uomini organici al potere.


Maria Rosa Giannalia

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