giovedì 17 marzo 2016

Taliàri e licchiàri



C’è un verbo nella lingua siciliana: taliàri , dal significato semplice: guardare.  Una semplicità solo apparente.
Di dubbia etimologia, alcuni studiosi rimandano alla matrice arabo-ispanica attaláya (v.qui) , altri al latino talem discernere (v. qui).
Fatto sta che pochi verbi, come questo , hanno in sé una tale polisemia da  significare azioni molto diverse tra loro, ma che in comune hanno l’atto del guardare.
Capita così che , nella lingua che considero la mia lingua madre e il cui legame,  più adesso che nell’età giovanile, sento fortissimo, mi ritrovo a pensare e a farmi lunghi discorsi quasi per un cammino a ritroso alla scoperta dei valori più profondi che mi legano all’isola di Sicilia, anche al di là della mia stessa consapevolezza di figlia eretica.
E così da parecchi giorni mi frulla in testa questo verbo, portato alla ribalta e alla conoscenza dell’Italia intera dal commissario Montalbano, la celeberrima creatura di Camilleri.
Ma taliàri esisteva già molto prima che Moltalbano lo diffondesse urbi et orbi ed ancora esiste e resiste fervidamente nella parlata sicula per esprimere concetti che vanno molto al di là del suo semplice significato, l’unico che viene veicolato attraverso la fiction televisiva.

Prendiamo ad esempio una frase minima: chiddu mi taliò ( quello mi guardò). Ebbene questa comunicazione così semplice nella sua apparenza, implica, a seconda dei contesti, esiti fortemente diversi nella percezione degli interlocutori e ne condiziona le reazioni.
Prendiamone solo una che ormai suona abbastanza insolita: taliàrisi. Nella forma riflessiva implicante due persone giovani di sesso diverso che si  "guardano" reciprocamente, questa espressione,  segnava un tempo, e in qualche caso segna ancora adesso, l’inizio dell’innamoramento.
Le ragazze , quando l’adolescenza incalzava e ne faceva fiorire il sorriso e il seno, uscivano di casa o accompagnate dai fratelli o dalla mamma o anche in piccoli gruppi di coetanee, ma lo sguardo era sempre , apparentemente, fisso in un punto preciso. Preferibilmente per terra o in avanti ,  perso verso un orizzonte concluso: le case piccole e fitte dei paesi non lasciavano spazi vuoti dove si potesse immaginare l’infinito.
In questo panorama però, senza parere nè apparire, le ragazze sapevano chi le stesse taliàndo e in quel preciso momento erano pure in grado di cogliere in quello sguardo una richiesta, una semplice ammirazione, uno spasimo amoroso e talvolta pure uno scherno. Il codice della taliàta o, meglio, della taliatìna era noto a tutti e pochi potevano sbagliarsi nel decifrarne tutte le sfumature.
Così ragazzi e ragazze si taliavano e a quegli sguardi affidavano i loro messaggi muti.
Il codice, che ha una chiara matrice anche nella nostra letteratura stilnovista (…Mostrasi sì piacente a chi la mira, che dà per gli occhi una dolcezza al core…Dante , Vita Nova), non si poteva né doveva fraintendere, pena la sgradevolezza della delusione, quando, in un successivo momento, si concretizzava in un rito più definito, meno ambiguo, espresso da un altro verbo correlato strettamente: licchiàri.

Credo che siano rimasti in pochi a riconoscere il significato di questo verbo, oramai caduto in disuso nella lingua siciliana, verbo che, in quanto a fortuna, si colloca in una posizione inversa al suo compagno taliàre il quale permane ancora abbondantemente nell’uso del parlato quotidiano e che, semanticamente parlando, preludeva alla licchiatìna dei due innamorati che prima si taliàvano. Se dovessimo tradurre in italiano e alla lettera questo verbo, dovremmo dire: assaggiare. Nella forma traslata il significato passa ad indicare una forma di amoreggiamento molto cauta e discreta: i due giovani, dopo essersi a lungo taliàti, cioè guardati intensamente ed, evidentemente, piaciuti, si licchiàvanu, vale a dire si assaggiavano e quindi si saggiavano reciprocamente  per capire se, al di là della semplice taliàta, della bellezza e della forma fisica, ci potesse essere qualche altro elemento di interesse più profondo, un’intesa che, esulando dal semplice piacere degli occhi, andasse a ravvisare una sorta di “affinità elettiva”. A riprova di ciò può concorrere anche l’altro termine dialettale che  ancora invale nell’uso corrente: spruvàrisi , cioè “mettersi alla prova”. Cosa, questa, che andando più il là del licchiamènto, ne completatava la funzione, in quanto i due giovani cominciavano a “parlarsi”.
Nei paesi siciliani, compreso il mio, Villabate, c’era un vero e proprio rito che si compiva e celebrava per tutta la durata del licchiamènto  che non era, diversamente a quanto potrebbe immaginarsi, di breve durata, ma poteva protrarsi anche per anni. Il rito prevedeva il “passeggio” del giovane lungo la strada dov’era ubicata la casa dell’innamorata. Il codice formale prevedeva che l’uomo non dovesse mai essere da solo, ma sempre accompagnato da un amico che gli faceva da spalla e da confidente nei momenti più penosi del rapporto, vale a dire quando la fanciulla corteggiata non si mostrava.
In una società castigatissima come quella siciliana di sessanta anni fa, ancora fortemente connotata dalla cultura araba,  le figlie  erano ritenute essere un prezioso gioiello di famiglia. Esse venivano cedute in promessa di nozze ad una famiglia nuova solo dopo opportune informazioni prese in ambiti ufficiali, per esempio presso il maresciallo dei carabinieri e il parroco.
Il licchiamènto  si poteva ritenere positivo solo se la fanciulla corteggiata, dopo qualche tempo, si affacciava sulla strada a taliàre  dietro le persiane il giovane corteggiatore. Il quale, incoraggiato da questa presenza, dopo qualche settimana, osava avvicinarsi alla persiana per scambiare un saluto con l'innamorata e, nei casi più arditi, un baciamano. Dopo questo incontro che non durava più di cinque minuti, la madre della ragazza, fingendo un qualche bisogno casereccio, richiamava la figlia a gran voce : questo era il segnale della fine dell’incontro. Il giovane si doveva congedare rispettosamente e porre fine alla passeggiata amorosa.

Non tutti questi licchiamènti esitavano in fidanzamenti ufficiali. Si dava anche il caso che, dopo le prime apparizioni della fanciulla dietro le persiane, le ricerche fatte dai genitori della sposa presso le opportune fonti già citate, dessero esito non confortante. Allora la persiana rimaneva ostinatamente chiusa anche dopo giorni e giorni di passeggio da parte dell’uomo.
Nei casi di giovani più ostinati e sicuri del loro amore, l’unica via d’uscita era la fuitina, una fuga d’amore senza il consenso dei genitori che finiva sempre per concludersi con il matrimonio , celebrato in sacrestia all’alba  dal parroco, senza il privilegio dell’altare maggiore né della festa col parentado. In questo caso i genitori, obtorto collo, si riappacificavano con figlia e genero ed erano costretti a dare loro la benedizione. Gli sposi venivano finalmente riammessi nella casa  dei genitori che si ritenevano obbligati ad aiutarli a costituire una nuova famiglia.