C’è
un verbo nella lingua siciliana: taliàri
, dal significato semplice: guardare. Una semplicità solo apparente.
Di
dubbia etimologia, alcuni studiosi rimandano alla matrice arabo-ispanica
attaláya (v.qui) , altri al latino talem
discernere (v. qui).
Fatto
sta che pochi verbi, come questo , hanno in sé una tale polisemia da significare azioni molto diverse tra loro, ma
che in comune hanno l’atto del guardare.
Capita
così che , nella lingua che considero la mia lingua madre e il cui legame, più adesso che nell’età giovanile, sento
fortissimo, mi ritrovo a pensare e a farmi lunghi discorsi quasi per un cammino
a ritroso alla scoperta dei valori più profondi che mi legano all’isola di
Sicilia, anche al di là della mia stessa consapevolezza di figlia eretica.
E
così da parecchi giorni mi frulla in testa questo verbo, portato alla ribalta e
alla conoscenza dell’Italia intera dal commissario Montalbano, la celeberrima creatura di Camilleri.
Ma
taliàri esisteva già molto prima che
Moltalbano lo diffondesse urbi et orbi ed
ancora esiste e resiste fervidamente nella parlata sicula per esprimere
concetti che vanno molto al di là del suo semplice significato, l’unico che
viene veicolato attraverso la fiction televisiva.
Prendiamo
ad esempio una frase minima: chiddu mi
taliò ( quello mi guardò). Ebbene questa comunicazione così semplice nella
sua apparenza, implica, a seconda dei contesti, esiti fortemente diversi nella
percezione degli interlocutori e ne condiziona le reazioni.
Prendiamone
solo una che ormai suona abbastanza insolita: taliàrisi. Nella forma riflessiva
implicante due persone giovani di sesso diverso che si "guardano" reciprocamente, questa espressione, segnava un tempo, e in qualche caso segna ancora adesso, l’inizio
dell’innamoramento.
Le
ragazze , quando l’adolescenza incalzava e ne faceva fiorire il sorriso e il
seno, uscivano di casa o accompagnate dai fratelli o dalla mamma o anche in
piccoli gruppi di coetanee, ma lo sguardo era sempre , apparentemente, fisso in
un punto preciso. Preferibilmente per terra o in avanti , perso verso un orizzonte concluso: le case
piccole e fitte dei paesi non lasciavano spazi vuoti dove si potesse immaginare
l’infinito.
In
questo panorama però, senza parere nè apparire, le ragazze sapevano chi le
stesse taliàndo e in quel preciso
momento erano pure in grado di cogliere in quello sguardo una richiesta, una
semplice ammirazione, uno spasimo amoroso e talvolta pure uno scherno. Il
codice della taliàta o, meglio, della
taliatìna era noto a tutti e pochi
potevano sbagliarsi nel decifrarne tutte le sfumature.
Così
ragazzi e ragazze si taliavano e a
quegli sguardi affidavano i loro messaggi muti.
Il
codice, che ha una chiara matrice anche nella nostra letteratura stilnovista (…Mostrasi sì piacente a chi la mira, che dà
per gli occhi una dolcezza al core…Dante , Vita Nova), non si poteva né
doveva fraintendere, pena la sgradevolezza della delusione, quando, in un
successivo momento, si concretizzava in un rito più definito, meno ambiguo,
espresso da un altro verbo correlato strettamente: licchiàri.
Credo
che siano rimasti in pochi a riconoscere il significato di questo verbo, oramai
caduto in disuso nella lingua siciliana, verbo che, in quanto a fortuna, si
colloca in una posizione inversa al suo compagno taliàre il quale permane ancora abbondantemente nell’uso del
parlato quotidiano e che, semanticamente parlando, preludeva alla licchiatìna dei due innamorati che prima
si taliàvano. Se dovessimo tradurre
in italiano e alla lettera questo verbo, dovremmo dire: assaggiare. Nella forma
traslata il significato passa ad indicare una forma di amoreggiamento molto
cauta e discreta: i due giovani, dopo essersi a lungo taliàti, cioè guardati intensamente ed, evidentemente, piaciuti, si licchiàvanu, vale a dire si assaggiavano
e quindi si saggiavano reciprocamente
per capire se, al di là della semplice taliàta, della bellezza e della forma fisica, ci potesse essere
qualche altro elemento di interesse più profondo, un’intesa che, esulando dal
semplice piacere degli occhi, andasse a ravvisare una sorta di “affinità
elettiva”. A riprova di ciò può concorrere anche l’altro termine dialettale
che ancora invale nell’uso corrente: spruvàrisi , cioè “mettersi alla prova”.
Cosa, questa, che andando più il là del licchiamènto,
ne completatava la funzione, in quanto i due giovani cominciavano a
“parlarsi”.
Nei
paesi siciliani, compreso il mio, Villabate, c’era un vero e proprio rito che
si compiva e celebrava per tutta la durata del licchiamènto che non era,
diversamente a quanto potrebbe immaginarsi, di breve durata, ma poteva
protrarsi anche per anni. Il rito prevedeva il “passeggio” del giovane lungo la
strada dov’era ubicata la casa dell’innamorata. Il codice formale prevedeva che
l’uomo non dovesse mai essere da solo, ma sempre accompagnato da un amico che
gli faceva da spalla e da confidente nei momenti più penosi del rapporto, vale
a dire quando la fanciulla corteggiata non si mostrava.
In
una società castigatissima come quella siciliana di sessanta anni fa, ancora
fortemente connotata dalla cultura araba, le figlie erano ritenute essere un prezioso gioiello di
famiglia. Esse venivano cedute in promessa di nozze ad una famiglia nuova solo dopo opportune
informazioni prese in ambiti ufficiali, per esempio presso il maresciallo dei carabinieri e il parroco.
Il licchiamènto si poteva ritenere positivo solo se la fanciulla corteggiata, dopo qualche tempo, si affacciava sulla strada a taliàre dietro le persiane il giovane corteggiatore. Il quale, incoraggiato da questa presenza, dopo qualche settimana, osava avvicinarsi alla persiana per scambiare un saluto con l'innamorata e, nei casi più arditi, un baciamano. Dopo questo incontro che non durava più di cinque minuti, la madre della ragazza, fingendo un qualche bisogno casereccio, richiamava la figlia a gran voce : questo era il segnale della fine dell’incontro. Il giovane si doveva congedare rispettosamente e porre fine alla passeggiata amorosa.
Il licchiamènto si poteva ritenere positivo solo se la fanciulla corteggiata, dopo qualche tempo, si affacciava sulla strada a taliàre dietro le persiane il giovane corteggiatore. Il quale, incoraggiato da questa presenza, dopo qualche settimana, osava avvicinarsi alla persiana per scambiare un saluto con l'innamorata e, nei casi più arditi, un baciamano. Dopo questo incontro che non durava più di cinque minuti, la madre della ragazza, fingendo un qualche bisogno casereccio, richiamava la figlia a gran voce : questo era il segnale della fine dell’incontro. Il giovane si doveva congedare rispettosamente e porre fine alla passeggiata amorosa.
Non
tutti questi licchiamènti esitavano
in fidanzamenti ufficiali. Si dava anche il caso che, dopo le prime apparizioni
della fanciulla dietro le persiane, le ricerche fatte dai genitori della sposa
presso le opportune fonti già citate, dessero esito non confortante. Allora la
persiana rimaneva ostinatamente chiusa anche dopo giorni e giorni di passeggio
da parte dell’uomo.
Nei
casi di giovani più ostinati e sicuri del loro amore, l’unica via d’uscita era
la fuitina, una fuga d’amore senza il
consenso dei genitori che finiva sempre per concludersi con il
matrimonio , celebrato in sacrestia all’alba dal parroco, senza il privilegio
dell’altare maggiore né della festa col parentado. In questo caso i genitori, obtorto collo, si riappacificavano con
figlia e genero ed erano costretti a dare loro la benedizione. Gli sposi
venivano finalmente riammessi nella casa
dei genitori che si ritenevano obbligati ad aiutarli a costituire una
nuova famiglia.
Gent.ma Maria Rosa
RispondiEliminaMi sono imbattuto casualmente in questo post e ne sono rimasto affascinato.
Non sono uso commentare i post e a dire il vero, neanche leggerli. Spesso bisogna essere nel contesto per poterli apprezzare. Ma questo mi ha particolarmente attratto.
Stavo proprio cercando l’etimologia di “taliari” e mi ritrovo a leggere, nero su bianco, un racconto che tante volte ho sentito da mia madre. Prima di diventare un piemontese di adozione in età adulta, sono nato e cresciuto in Sicilia, con cui, fra mille vicessitudini, ho fatto pace da grande.
Mia madre è stata a quella finestra a talíari e a mio padre vietarono di “allicchíari” perchè lei non era abbastanza per lui.
Dopo la fuitina, vissero oltre 60 anni assieme ed ebbero 7 figli. Me per ultimo. Verrebbe da dire, tante storie per niente, ma paese che vai, cultura che trovi.
Grazie
Antonio Giusti
Gent.ma Maria Rosa
RispondiEliminaMi sono imbattuto casualmente in questo post e ne sono rimasto affascinato.
Non sono uso commentare i post e a dire il vero, neanche leggerli. Spesso bisogna essere nel contesto per poterli apprezzare. Ma questo mi ha particolarmente attratto.
Stavo proprio cercando l’etimologia di “taliari” e mi ritrovo a leggere, nero su bianco, un racconto che tante volte ho sentito da mia madre. Prima di diventare un piemontese di adozione in età adulta, sono nato e cresciuto in Sicilia, con cui, fra mille vicessitudini, ho fatto pace da grande.
Mia madre è stata a quella finestra a talíari e a mio padre vietarono di “allicchíari” perchè lei non era abbastanza per lui.
Dopo la fuitina, vissero oltre 60 anni assieme ed ebbero 7 figli. Me per ultimo. Verrebbe da dire, tante storie per niente, ma paese che vai, cultura che trovi.
Grazie
Antonio Giusti
Che bella storia nella storia!
EliminaGrazie, Antonio, per avere apprezzato il mio post. Credo che la scrittura abbia questa funzione, oltre alle innumerevoli altre: assicurare attraverso il tempo alle nuove generazioni i costumi e le tradizioni del nostro passato che costituiscono le nostre radici ma che permettono anche ai nostri figli di mettere le ali.
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