domenica 22 aprile 2018

Il circo Agor- di Giuseppe Perricone



A otto o nove anni sono stato innamorato di una giovanissima acrobata di circo. Pupetta era la figlia del proprietario. Il circo era uno di quelli che si fermano soltanto nei piccoli borghi di provincia ed era piccolissimo anche se per me, che non ne avevo visto mai altri, era il massimo.
Ogni anno svernava nel mio paese e quando arrivava montava il tendone nella spianata antistante la scuola elementare e tutti i pomeriggi gli “artisti”, animali compresi, sfilavano per le vie del paese invitando la gente a intervenire al fantasmagorico spettacolo che si sarebbe tenuto la sera.
Il mio problema era: chi doveva accompagnarmi? Mio padre non poteva, visto che tornava tardi da Palermo dove lavorava e la mattina doveva alzarsi ancora col buio per prendere la corriera che doveva riportarcelo. Soluzione: mi ci avrebbe portato qualcuno dei miei cugini più grandi, Franco o Lorenzo, o entrambi. Due ragazzoni, i miei cugini, alti e robusti di circa vent’anni che vivevano con nostra nonna chè i genitori e il resto dei fratelli (cinque) erano emigrati in America qualche anno prima.
Sulle prime non ne volevano sentire.
-“Che dobbiamo andarci a fare,” - dicevano - “a vedere quattro sfasolati ?” - Non ne valeva la pena secondo loro.
“Pinò, - mi chiamavano così, - vuoi venire stasera al circo?”
Si, questo invito, me lo rivolsero il giorno dopo la “prima”. Era di domenica. Quella mattina nella banchina, così è chiamata la piazza del mio paese, li avevo sorpresi mentre con altri amici sfottevano Turiddu, detto il guercio per via di un occhio di vetro, poiché la sera prima era andato al circo. Loro dicevano che non ci sarebbero mai andati a meno che non fossero stati costretti. La mia costernazione era immensa, chè i miei mai mi avrebbero lasciato andare da solo di sera. Mentre tornavamo a casa di nonna, Turiddu che abitava nella stessa strada continuava a vantare lo spettacolo del circo ed era talmente entusiasta di una acrobata Pupetta che gli brillava l’unico occhio sano, o era l’altro? mentre ne parlava. Notai che quando accennava a Pupetta guardava me allusivamente e, ammiccando ... “picciotti è bravissima, capitemi!” Io capivo soltanto che Turiddu voleva convincere i miei cugini ad andare al circo e ovviamente speravo che riuscisse nel suo intento. Ma quelli erano irremovibili anche se ora, dopo tutti gli ammiccamenti di Turiddu, sembravano un po’ più ammorbiditi. Ma no, solo se costretti sarebbero andati a vedere cose che manco i picciriddi ne volevano sapere, continuavano a ripetere. Non era vero, intervenni io, io ero picciriddu e ne volevo sapere. Come se loro frequentassero abitualmente il lidò di Parigi. Li ho odiati. Mentre eravamo a tavola dalla nonna stavo per impetrare la grazia da mio padre quando mi sentii rivolgere quell’invito da Lorenzo. Pensavo mi prendesse in giro. No, diceva sul serio. Ne fui certo quando mia nonna si offrì di pagare lei il mio biglietto e i due bellimbusti accettarono i soldi. Non vedevo l’ora che scurasse. Per fortuna era inverno e scurava abbastanza presto. All’orario stabilito passammo a chiamare Turiddu. “Potete pensare quello che volete ma io ci vado ogni sera” - aveva, infatti, concluso la mattina, prima di accomiatarsi da noi. “Ah, alla fine vi siete convinti a vedere lo spettacolo che manco i picciriddi vogliono vedere?”. “Ma no” - risposero quelli – “Pinuzzu (sono sempre io) piangeva e mia nonna ha voluto che lo portassimo al circo.” Capito? Ero il loro alibi per salvare la faccia con gli amici. Infatti mi guardarono male quando io protestai che non era vero che piangevo e che anzi stavo per chiederlo a mio padre che sicuramente mi avrebbe accontentato visto che era domenica.
Fu lo spettacolo più bello che avessi mai visto fino ad allora, sebbene fossi rimasto un po’ deluso per la mancanza del trapezio (qualche tempo prima avevo visto il film con la Lollobrigida, Burt Lancaster e Tony Curtis). Per la prima volta vidi animali che avevo solo visto nel libro di scuola o in qualche fumetto: un dromedario, uno scimpanzé che ovviamente si chiamava Cita (o Chitah?) e un lungo serpente col quale si esibiva un’avvenente danzatrice. I pagliacci mi fecero ridere a crepapelle. Un prestigiatore che era anche il presentatore, il direttore e il proprietario del circo ci intrattenne a lungo con i suoi miracoli di magia. A sentire il presentatore ognuno di questi artisti proveniva da una diversa parte del mondo, dalla Russia, dall’Ungheria, dalla Spagna tutti Paesi questi che conoscevo attraverso i libri di scuola ma che solo ora che ne vedevo alcuni degli abitanti erano diventati reali.  I miei cugini tuttavia rimanevano impassibili, fino a quando non vennero fuori quattro acrobati spericolatissimi, tre uomini e una donna. Lei era una ragazzina di non più di diciott’anni. Me ne innamorai non appena la vidi. Stavo in apprensione per lei ogni qualvolta si esibiva in qualche numero spericolato, anche se stando all’enfasi che metteva il presentatore nell’annunciarli tutti i numeri erano pericolosissimi, anche quello di due cagnolini che sotto la sapiente guida di un vecchio con una lunga barba bianca a tratti riuscivano a camminare sulle zampe posteriori. Avevo il cuore in gola per l’ansia quando lei in piedi sull’estremità di un asse che poggiando il suo centro su un fulcro la catapultava per aria dopo che un suo collega si era lanciato dalle spalle di un terzo sull’altra estremità della stessa asse e lei dopo un doppio salto mortale all’indietro atterrava in piedi sulle spalle del quarto acrobata. Purtroppo il numero degli acrobati si esaurì subito con mio sommo disappunto. “Ed ecco ora a voi la più grande contorsionista che si sia mai esibita in un circo” - diceva il presentatore – “Dall’Ungheria ... Pupetta !” Allora, per me e per tutti gli altri coltissimi spettatori era plausibile che una Ungherese si chiamasse Pupetta. Mi rallegrai quando scoprii che l’improbabile ungherese Pupetta non era altri che la stessa ragazza che si era esibita poco prima nel doppio salto mortale. Il numero che eseguì fu stupefacente. Sembrava che tutti i suoi arti fossero snodabili, ognuno di essi indipendente dal resto del corpo. Riusciva a piegarsi indietro fino a far spuntare la testa attraverso le gambe divaricate. Sembra la Trinacria esclamai. I miei cugini furono d’accordo ché erano di sentimenti separatisti. Nella loro stanza a casa di nonna tenevano appesa al muro la bandiera della Sicilia indipendente. Eravamo tutti entusiasti, separatisti compresi. Poi ci furono i cavallerizzi che con le loro piroette sul dorso di due cavalli riuscirono ad attrarre la mia attenzione nonostante la mia mente fosse rimasta a Pupetta. Tutto lo spettacolo durò circa due ore e quando finì mi aspettavo che ce ne saremmo tornati a casa. Invece no. I miei cugini, Turiddu e altri tre o quattro giovanotti a quanto pare dovevano congratularsi con gli artisti. Anch’io volevo congratularmi ma, “tu si picciriddu, - mi dissero, - e poi non ci possiamo andare tutti insieme.” Questa seconda causale potevo anche capirla ma non riuscivo a trovare un nesso tra la mia età e il fatto che non potevo congratularmi pure io. Notai che i giovanotti alla spicciolata si avviavano per le congratulazioni verso il punto da cui entravano ed uscivano gli artisti, alcuni dei quali, i maschi, erano già nella pista per rimettere tutto in ordine in previsione dello spettacolo della sera successiva. Stranamente nessuno dei giovanotti si congratulò con loro. Io rimasi con Lorenzo, mentre Franco e Turiddu andarono con la prima tornata di congratulatori. Sicuramente si erano divertiti più di quanto avessero dimostrato durante lo spettacolo perché stiedero un bel pezzo a congratularsi. Pensai che avessero dato anche una mano d’aiuto a sistemare gli attrezzi del circo perché quando finalmente vennero fuori qualcuno si stava rimettendo la giacca o il cappotto. Io non mi annoiavo, ero contento anzi perché mi trovavo ancora nello stesso luogo dove stava Pupetta e, chissà, poteva venire fuori ad aiutare i suoi colleghi affaccendati a ripulire la pista e allora sarei sfuggito alle grinfie di Lorenzo e nonostante l’età pure io le avrei fatto le mie congratulazioni per la sua bellissima esibizione. Lei avrebbe notato il mio ardire e si sarebbe innamorata di me e quando io avrei avuto, questa volta si, l’età giusta ci saremmo sposati e sarei andato col circo, che era un lavoro dove mi sarei sempre divertito e avrei guadagnato di che vivere, senza contare che sarei stato sempre in giro per il mondo ... l’Ungheria, ... la Russia, ... la Spagna ....
Ero assorto in queste fantasticherie quando i separatisti si passarono le consegne Lorenzo a congratularsi e Franco con me. Quelli della prima tornata intanto se ne andarono a casa e rimanemmo Turiddu io e il mio carceriere. Lorenzo se la prese proprio comoda e quando finalmente uscì disse che era stato con Pupetta e con la danzatrice col serpente ma questa volta senza, perché lui gliene aveva portato un altro più bello del suo. Io non me ne ero accorto che Lorenzo avesse portato un serpente e sì che a casa della nonna di animali ce n’erano, cani (i miei cugini erano cacciatori esperti), furetti, gatti, galline, uccelli in gabbia, ma mai avevo visto un serpente a casa. Disse pure mentre tornavamo che Pupetta gli aveva ripetuto il numero della trinacria e questa volta aveva fatto partecipare pure lui e tutti giù a ridere, tanto che contagiarono pure me. Non riuscivo ad immaginare Lorenzo, grande e grosso, piegato all’indietro a farsi spuntare la testa fra le gambe. Mi sarebbe piaciuto vederlo dissi e qua tutti e tre i bellimbusti a ridere fino a piegarsi in due e io con loro anche se non ne capii il motivo. Quasi tutte le sere andavamo al circo con mia somma struggente felicità. I numeri di tutti gli altri dopo le prime sere mi annoiavano anzi mi sembravano interminabili tanto quanto le esibizioni di Pupetta mi sembravano brevissime.

Alla fine di ogni spettacolo le consuete congratulazioni dei giovanotti mentre io me ne restavo seduto al mio posto sotto lo sguardo vigile del cerbero separatista di turno, con l’unica magra consolazione che era quella di stare ancora per qualche minuto il più vicino possibile alla mia adorata “Dulcinea”, casta pura e nobile quanto lo era quell’altra.


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