martedì 14 marzo 2017

L'attesa

 L’aveva attesa a lungo. Finalmente era arrivata. Era sicuramente lei, la intravedeva dalle persiane socchiuse. Non riusciva a scorgerla in maniera chiara, ne intravedeva la sagoma nella controluce del primo pomeriggio: i capelli ancora lunghi e arricciati, la flessuosità del corpo magro e slanciato, l’andatura dinoccolata sui tacchi bassi. Non poteva sbagliarsi: era quell’andatura che, fin da piccola, aveva fatto dire a tutti i familiari, parenti ed amici: tutta suo padre. Matilde era il suo ritratto. Da piccola non si distaccava mai da libri. Quella della lettura era la stessa sua passione. In famiglia nessun altro amava così tanto i libri come sua figlia. Gliela aveva trasmetta col moderato atto d’amore tra sé e la moglie all’atto del concepimento La sua famiglia si distingueva per la moderazione in tutto: nel bere, nel mangiare, nel parlare, nel fare l’amore. Persino nel pregare. La famiglia di Nino era una di quelle di cui tutti dicevano ma che gente per bene. Mai un litigio, mai nessun vicino aveva sentito provenire da quella casa un grido, una bestemmia, come pure se ne sentivano in quella vanedda dove abitava quella gente di poco conto, gli scricchianespole, come li chiamavano tutti, che se ne dicevano di tutti i colori, abbanniandosi l’un l’altro davanti a chiunque, leggendosi la vita in pubblico in mezzo alla strada. Nino no, era una persona corretta, un lavoratore, un uomo mite, amante della famiglia , rispettoso di tutti. E così tutta la sua famiglia. Questa figlia, solo questa figlia era riuscita male. Troppi grilli aveva questa figlia. Non voleva mai stare alle regole della famiglia. Come se non appartenesse a quella gente, a quel paese , a quella strada. Nino in tutti i modi l’aveva scoraggiata dall’andarsene via da lì, ma lei se n’era andata lo stesso. Se n’era andata via con un brunello, anche se era laureato. La laurea non gli serviva a niente, sempre brunello rimaneva. Il brunello gli aveva giurato che dopo il matrimonio, avrebbe fatto di tutto per riportare in quel paese la figlia, che era uscita di casa ancora neanche ventenne, che sì, l’avrebbe riportata. Erano passati venti anni e lui non l’aveva più rivista prima d’ora. Quindi non poteva sbagliarsi. Era lei, era Matilde. Nino non uscì dalla porta di casa ad attenderla. Aspettò che fosse lei a bussare , mentre lui fumava l’ennesima sigaretta. La via era lunga e prima che Matilde arrivasse, lui avrebbe avuto tutto il tempo di fumarne almeno la metà. Dall’angolo della stanza da pranzo al piano terra le lucine dell’albero di Natale riverberavano a intermittenza la fioca luce colorata nei vetri della porta-finestra moltiplicando quello spazio come se al di là della porta ci fosse ancora un’altra stanza. La stanza invece era una sola, ed era l’unica in cui la famiglia si riuniva per mangiare e per conversare. Nell’angolo, proprio sotto l’albero, la moglie aveva sistemato un minuscolo presepio, con la culla vuota nella mangiatoia. Ci volevano altri due giorni al Natale. La luce del pomeriggio era tanta nella strada, perché il Natale al sud è pieno di sole e, ad occidente, la sagoma di Matilde continuava ad avanzare a passi svelti diventando sempre più visibile. Il giorno prima lei si era annunciata con una telefonata veloce, aveva detto arrivo domani alle quattro del pomeriggio, ci siete a casa, e lui disse solo un sì di tutte le centinaia di migliaia di parole che aveva tenuto in serbo per quel momento. La figlia prodiga. All’interno della stanza , proprio di fronte alla persiana marrone scuro che separava la casa dal fuori, c’era una sottile parete che divideva quel luogo dalla cucina, dove sua moglie passava quasi tutto il giorno. Ma adesso lei non c’era. Era dalla sua vicina di casa per il rosario del pomeriggio. Non lo mancava mai, neanche quel giorno. Lui, Nino, invece, si era sbrigato presto. Aveva organizzato tutto per rimanere in casa. Si era fatto portare dai suoi manovali di gioventù che gli serbavano affetto e devozione, una cassa molto grande che era fino ad allora rimasta in soffitta e che, da solo, non era capace di trasportare. Era ormai più vicino agli ottanta che ai settant’anni e di certo tutta quell’età non gli consentiva più certe manovre che un tempo avrebbe svolto con un’agilità noncurante. Si sentiva troppo vecchio ma non abbastanza da darsi pace per il fatto che , mentre i suoi figli maschi erano rimasti a una tirata di schioppo da casa sua, proprio lei, l’unica figlia, fosse andava via così tanto lontano con quel brunello d’uomo. Chissà come quei vent’anni anni avevano cambiato il viso di Matilde, chissà cosa avrebbe raccontato della sua vita e del suo lavoro, chissà se aveva avuto dei figli. Non sapeva niente di lei. Dal giorno che se n’era andata via da quel posto lì, non aveva più scambiato con lei neppure un saluto per cartolina. Era andata via con la sua maledizione, aveva fatto di testa sua, aveva voluto organizzarsi la sua vita lontano da loro, dalla famiglia, dai fratelli. Ma come aveva potuto. Adesso stava per arrivare ed aveva scelto di farlo due giorni prima di Natale, da sola. Senza il brunello. Senza neppure portarsi appresso una valigia. Senza figli, se ne aveva. La vedeva, non aveva niente in mano, solo un piccolo zaino dietro le spalle. Era sola. Nino fumava aspirando grandi boccate da quella sigaretta che stringeva tra il medio e l’indice della sua mano nodosa con dei grossi peli in molta evidenza e le unghia quadrate. Continuava a sbirciare dietro le persiane. Attendeva. Aveva preparato la cassa, l’aveva collocata di lato all’albero di Natale, un po’ discosta dal presepio, ma ugualmente in bella vista. Quella cassa attendeva da vent’anni, relegata in soffitta. Era la cassa di Matilde e nessuno mai l’aveva aperta dalla sua partenza. Sua moglie era ritornata, ne sentiva i passi dietro quel sottile muro tra la stanza dove si trovava e la cucina. Sentiva dei piccoli rumori ovattati, come di oggetti poggiati delicatamente sul tavolo. Sentiva anche il tossicchiare sincopato e quel vezzo che aveva sua moglie di raschiare la gola come per schiarirsi una voce che non usciva mai a modularsi in parole. Nannina era una donna silenziosa. Capiva che aveva portato da fuori qualcosa, sicuramente pensava di cucinare, per la sera, un po’ di pasta, qualche uovo. Non aveva perso l’abitudine, sua moglie, di far fronte al fabbisogno proteico della famiglia con le quantità di uova e legumi che riempivano la tavola di tutti i giorni. Nannina, adesso rimestava nella ciotola di plastica tuorli e albumi, lui, Nino, lo capiva dal rumore attutito e fievole del mestolo di legno che sbatteva sulle pareti rotonde. Ecco, così anche stasera non ci sarebbe stato un pasto speciale. Non si sarebbe festeggiato. Non c’era neppure tutta la famiglia in casa e Nino immaginava che Matilde di certo non si sarebbe fermata fino a Natale. La cassa era sempre nell’angolo. E lui non l’aveva mai voluta aprire nonostante le insistenze della moglie ma cosa stai lì ad aspettare ad aprirla, tanto lei oramai non verrà più. Almeno vediamo che cosa ha lasciato. Nino era sempre stato irremovibile. Gli sembrava che la figlia avesse diritto a quella riservatezza, a quella intimità che per tutta la sua adolescenza non aveva mai potuto avere. E poi lui non voleva veramente sapere. Non voleva sapere perché in un pomeriggio di sole invernale, come questo di adesso, Matilde fosse semplicemente uscita da casa con la sua borsa piena di niente, con addosso solo i jeans e una giacca di panno nero, sempre la stessa da quando aveva compiuto quindici anni, e se ne fosse andata via, semplicemente. Incurante della voragine dell’assenza scavata dentro il suo cuore. E adesso Matilde era qui, a pochi metri da lui. Nino, al di qua della persiana, non visto, la guardava: era sempre bellissima ma già due solchi appena accennati agli angoli della bocca gli toglievano l’illusione che tutto quel tempo non ci fosse mai stato tra loro. Matilde è arrivata , ha aperto la persiana da sola, infilando la mano tra le due liste di legno colorato, come era solita fare da piccola, aprendo dall’esterno la piccola serratura: vide il padre, ne immaginò l’attesa , ritto, nonostante l’età e le ginocchia malferme. Accennò un veloce bacio sulla guancia scavata e ispida di barba incolta. Nino non ricambiò. Chiamò subito la moglie che accorse veloce con il mestolo in una mano e gli occhi già lucidi. La stanza al piano terra fu subito piena di quelle presenze. Il divano scuro appoggiato alla parete di destra era sempre lì al suo posto, con qualche squarcio in più, da dove occhieggiava l’imbottitura di cascame bianco. Matilde si sedette col vigore della stanchezza e il divano traballò: niente era stato cambiato, neppure la gamba anteriore rotta durante il trasporto distratto e frettoloso che i messi notificatori avevano fatto dell’unico bene mobile pignorato, la Singer , che Nannina aveva ricevuto in regalo dal marito durante la sola festa di compleanno riservatale dalla famiglia. Adesso erano lì tutti e tre, Matilde seduta in quel divano, la madre di ritorno dalla cucina dove era corsa velocemente a lavarsi e mani per meglio abbracciare la figlia, e lui, Nino, seduto sulla sedia di sempre in attesa di spiegazioni. Matilde vide la cassa, si avvicinò, alzandosi da quel divano in sommario equilibrio, e si meravigliò di trovare ancora chiusa la serratura. Perché l’hai portata qui papà, pensò, cosa vuol dire questa messa in scena? Cosa pensi di trovare? Ci sono ancora tutti i miei libri di scuola e nient’altro. Potevi pure buttarla via . Invece , avvicinandosi al padre, lo ringraziò di avergliela fatta trovare. Pensò anche che lasciandola chiusa, lui avesse voluto rispettare in qualche modo la sua scelta. Adesso la cassa era lì e lei non sapeva che farsene. Non aveva più la chiave per quella serratura, chissà dove era andata a finire. Nella fretta della partenza, non aveva pensato di portarla con sé. Chiese al padre di scardinarla: c’era una cosa che apparteneva solo a lui, gli disse. Nino aveva ancora le mani robuste e forti e con un abile colpo di martello, che si fece portare velocemente dalla moglie, fece saltare tutto. La cassa si aprì cigolando nei due cardini di ferro. Era una cassa di legno, rinforzata da liste di metallo verniciato di verde. Un sentore di polvere si sprigionò dall’interno. Matilde prese dalla sommità della catasta di libri ammassati, una busta sottile, bianca, senza destinatario. La diede al padre, gli disse è tua. Porgendola con la sua mano destra, fredda, lo invitò a leggerla, ecco neanche questo coraggio ho avuto, di lasciartela prima di andare. Nino inforcò gli occhiali, non volle aspettare più. Le lenti spesse da presbite allargavano i contorni dei suoi occhi che riverberavano luce di innocenza nonostante la vecchiaia. Davanti alla figlia lesse: Villalba, 10 ottobre 1970 Papà, lo so che maledirai questo giorno e gli altri a venire, dopo che avrai letto questa mia lettera. Ma non voglio chiederti perdono. Non ho nulla da farmi perdonare. Io adesso ho solo diciannove anni e tu, quando ti dissi che volevo sposarmi, mi desti uno schiaffo, mi dicesti che ancora non ero nell’età giusta, che neppure la legge consentiva i matrimoni ai minorenni, che avrei dovuto aspettare la maggiore età, cioè i ventuno anni, come minimo. Così mi dicesti allora, che ne avevo solo sedici e andavo ancora al liceo, quel liceo che mi hai maledetto fin da quando ho iniziato a studiare. Ho cercato di aspettare. Di anni ne sono passati solo tre, non ce la faccio ad aspettare i ventuno. Il brunello, come tu lo chiami, ha molti anni più di me, è già laureato, saprà bene procurare di che vivere a tutti e due, non preoccuparti. Lui sarà un magistrato tra non molto, come spera, e non può più stare qui. DEVE andare via. E io VOGLIO andare con lui, perché lo amo, e perché non amo questo paese, questa terra, questa gente. Papà, io non la amo questa Sicilia. Voglio andarmene al più presto e non posso più aspettare. Non voglio più vederti tornare avvilito dal lavoro, nei giorni in cui questa gente, la tua gente, non la mia, ti costringe a comprare il materiale edile per costruire le case che tu sai fare tanto bene, ai prezzi esagerati cui non puoi sottrarti, in cui questa gente, la tua gente, ti costringe ad assumere come lavoranti degli scalzacani che incassano senza fatica. Che anzi, la notte vanno a rubare tutto ciò che possono arraffare, costringendoti ad acquistare sempre nuovi sacchi di cemento, nuovi conci di tufo, nuove impastatrici. E tu? Cosa fai tu? Tu lo sai chi sono i ladri, eppure non dici nulla, ti alzi al mattino all’alba, e con i pantaloni rigidi di tutta la calce e il cemento che mamma non riesce a togliere con le sue sole mani, vai al lavoro dove ti ammazzi a spaccarti la schiena sotto il crudele sole dell’estate, per portare a casa cosa? La mamma fa solo frittate e minestre di fagioli, anche la domenica. E neanche uno straccio di macchina da cucire può rimanere a sua disposizione, quella macchina pignorata che ieri hanno portato via gli uscieri per venderla all’asta chissà dove, la macchina con la quale lei ci faceva i vestiti che non poteva comprarci. Che fai tu, papà? Che fanno tutti i tuoi amici? Subite le angherie e i soprusi di questi quattro delinquenti di paese, a cui voi qui non volete dare neppure il nome,- perché la mafia non esiste, dite, e l’hanno inventata quelli del nord e voi non sapete neppure cosa significhi-, ma che fuori di qui si chiamano mafiosi ,e che voi riverite con la coppola in mano ogni domenica quando andate a messa e il prete li accoglie anche in chiesa invece di sbatterli fuori a calci. Che fate voi, quando vedete calpestare i diritti dei vostri figli, la possibilità di farli studiare, che fate? Li portate con voi a lavorare perché i soldi servono, dite. Ma a chi? Non sono soldi per voi, quelli che tuoi amici e compagni, i vostri figli, guadagnano spaccandosi il culo ogni giorno o, come dici tu, buttando il sangue dalla mattina alla sera. Io qui non ci voglio stare, papà, io me ne vado, che tu voglia o no. IO ME NE VADO. Oggi, subito. Non lascio più passare neanche un minuto. Non ho il tempo di abbracciare la mamma e i miei fratelli, non so se tu lo farai per me. Matilde Nino, finì di leggere la lettera che Matilde non gli aveva consegnata nel tempo della sua ribellione, guardò la figlia di luce nuova e vide per la prima volta se stesso, la casa, sua moglie, i suoi figli. E pianse.

martedì 7 marzo 2017

Il dono

Ieri mi è stata regalata una piccola piantina fiorita in previsione della festa della donna del prossimo 8 marzo, da un uomo. Un signore che non conoscevo, che mi aveva aspettato all'ingresso della biblioteca comunale di Pirri, luogo dove stava per iniziare il primo incontro del corso di scrittura programmato. Sono stata fermata mentre , sul marciapiede, stavo per entrare nell'edificio. Il signore aspettava proprio me. Conosceva il mio nome e cognome e mi ha detto che doveva darmi qualcosa. Poi, facendosi aiutare da un suo amico, ha portato dentro l'edificio diversi pacchi e un voluminoso contenitore con una ventina di piantine colorate. " Queste sono per voi donne, per la vostra festa di domani". Ed ha accompagnato questo omaggio floreale con un foglio in cui aveva stilato , a mano, una dedica e un augurio a tutte le donne di quel corso. Il fatto in sé, del tutto inaspettato, ha suscitato in me e nelle altre donne, forse, un piacevole imbarazzo, un certo stupore e, soprattutto, una domanda: perchè? Ci ho pensato a lungo, ho cercato di dare una risposta razionale e motivata ad un gesto che è risultato essere assolutamente gratuito nella forma e nella sostanza. Rifletto ancora: perchè? Ma la domanda la rivolgo adesso a me stessa, al motivo del mio stupore e a quel certo imbarazzo che ho provato. Di tutte le risposte che mi sono data, di tutte le spiegazioni, forse questa è quella che spiega più cose e descrive me stessa a me: non mi aspetto nessuna forma di gratuità da nessuno. E in questa non-attesa si incardina l'interpretazione e la lettura che faccio del mondo. E' un'abitudine solo mia? Non credo. Perchè ho letto negli altri volti lo stesso mio stupore. E allora: perchè la gratuità ha l'effetto di imbarazzarci prima ancora di farci gioire e di disporci all'accoglienza? La nostra società ci ha talmente performato ai consumi, ai modi del dare e del ricevere che non sappiamo spiegarci un gesto quando è scardinato dalla logica di questo triste contesto mercificatorio e contabilizzato? Il gesto del dono disinteressato siamo pronti ad accoglierlo con un sorriso laddove provenga, che so, da un bambino. Ma abbiamo difficoltà ad accettarlo da un adulto per giunta sconosciuto. Pensiamo sempre che ci sia dell'altro, dietro. Di sicuro, dopo ci verrà chiesto qualcosa, qualcosa che non avremmo voluto dare ma che daremo per educazione, per piaggeria, per conformismo,
per qualsiasi altra motivazione che razionalmente andremo ad attingere dal repertorio infinito dei gesti cui la società dei consumi o della solidarietà pelosa ci costringe. Ma pochi di noi accettano un dono senza alcuna richiesta. Puramente gratuito. Ecco, questa gratuità, forse, nel mondo in cui viviamo, assume i connotati di una forma di eversione che dovremmo imparare a praticare molto spesso.
Verso meta si fugge:/ Chi la conoscerà?/ Non d'Itaca si sogna/ Smarriti in vario mare,/ Ma va la mira al Sinai sopra sabbie/ Che novera monotone giornate./ Giuseppe Ungaretti