giovedì 4 luglio 2019

Osservazioni sul libro: "Tre piani" di Eshkol Nevo -- Neri Pozza editore


di Maria Rosa Giannalia








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In un condominio signorile  e tranquillo nei pressi di Tel Aviv, dal clima ovattato, in cui la vita sembra scorrere senza traumi, tre personaggi, protagonisti di tre racconti differenti legati da un sottilissimo filo narrativo, svelano all’immaginazione del lettore le verità nascoste del loro vissuto.
   L’autore, Eshkol Nevo, attingendo a piene mani alla tradizione letteraria degli autori israeliani, Grossman, Oz, Yehoshua, tanto per citare i più famosi, costruisce il suo romanzo giocando con una insistita attenzione agli aspetti psicoanalitici  di tutte le figure presenti nelle tre narrazioni  rivisitate però attraverso uno stile di scrittura più vicino ai grandi romanzieri americani che ai suoi connazionali.

   Il  personaggio protagonista di “Primo piano” è  Arnon, padre e marito e anche fratello di un interlocutore muto cui si rivolge per tutto il tempo del racconto.
   Nella sua narrazione dei fatti, che vorrebbero essere oggettivi, Arnon si ritrova a parlare di sé in relazione alla moglie Ayelet e a due anziani vicini di casa, Ruth ed Hermann, ai quali egli stesso e la moglie affidano frequentemente la propria bambina Ofri, in un surrogato di babysitteraggio, con soddisfazione di tutti. Fino a quando non accade IL FATTO che fa esplodere nel protagonista Arnon, angoscia, ossessione,  rabbia a stento repressi, complicanze di un cattivo rapporto con se stesso.
Arnon è un uomo inconsapevolmente ossessionato dal sesso che ne condiziona l’immaginario a sua insaputa e , in particolare, della forma forse più aberrante in cui la pulsione sessuale può manifestarsi in un uomo maturo apparentemente sano e sicuro di sé: un’ attenzione verso bambine e adolescenti che si sostanzia, nel primo caso , nell’attribuire alla sua figlioletta un subìto  e ipotetico abuso sessuale da parte dell’anziano Herman, non comprovato da nessuna analisi e indagine delle autorità competenti, nel secondo caso nell’accettare le profferte della giovanissima adolescente quindicenne, nipote dei vicini di casa Ruth ed Hermann.
   Arnon non sa, molto colpevolmente, sottrarsi ad un rapporto sessuale completo voluto dalla ragazzina   che riesce ad adescare l’uomo  con azioni furbesche e maliziose.
   In questo primo episodio l’Es freudiano viene fuori in tutta la sua prepotenza travolgendo i sensi e la ragione del protagonista che si lascia andare persino a immaginari piani delittuosi per salvare se stesso di fonte a sè, il suo rapporto matrimoniale nei confronti della moglie  e la sua consolidata vita borghese di fronte alla società cui appartiene.

In “Secondo piano” una donna, orfana della sua psicologa di fiducia, madre di due bambini, in assenza totale del marito costantemente in giro per lavoro, consuma in completa solitudine la sua vita quotidiana tra un dialogo attraverso una lunga lettera inviata alla sua carissima amica Neta, assente anche lei perché trasferitasi negli Stati Uniti, con la quale immagina di potere continuare un dialogo perpetuo con cui alleviare la sua angoscia esistenziale, e liti notturne con uno, due e forse tre, barbagianni che non si sa se reali o solo immaginati.
  La sua vita è angosciante e il racconto che ne fa all’amica in un crescendo di azioni reali e fatti  narrati, ricchi di excursus che datano al tempo della reciproca giovinezza, spiazza continuamente il lettore che viene trasportato in un ottovolante di dialoghi accennati, riportati per intero,  incisi, riprese, in un guazzabuglio narrativo. La donna, di nome Hani, si attarda a raccontare nella sua lunghissima lettera, fatti del passato , col gusto di ricordare insieme all’amica, episodi particolari, ed altri più recenti della sua attuale quotidianità, in un alternarsi anche qui di piani temporali che si avvicendano con velocità vertiginosa nella quale il lettore arranca  faticosamente per non perdere il bandolo della matassa ingarbugliata. Anche qui  IL FATTO: il fratello del marito col quale quest’ultimo aveva interrotto tutti i rapporti, arriva del tutto inatteso a sparigliare il castello di carte piuttosto traballante della vita della protagonista. Anche in questo episodio, questa apparizione improvvisa fa esplodere nella donna la consapevolezza dell’inanità del rapporto col marito, e, nel confronto con un uomo diverso, conforta ancor più la protagonista nella consapevolezza del  fallimento del suo rapporto  matrimoniale. Il piano narrativo di questo episodio sembra confermare la dimensione dell’IO freudiano, che si sostanzia nella crisi e nella sua consapevolezza.

   L’ultima parte, “Terzo piano”, ha come protagonista una donna , giudice in pensione, che nell’estrema solitudine della sua vedovanza, ripercorre la sua vita, parlando al marito morto attraverso una segreteria telefonica a lui appartenuta e ritrovata per caso, e affida alla sua stessa voce il racconto della quotidianità.
   Dvora, questo è il nome della protagonista, racconta anche lei ad un interlocutore muto, come la donna e l’uomo delle precedenti parti del romanzo.
   In questo raccontarsi  va svelando a se stessa la vera natura del rapporto con il marito tanto amato e con il figlio, cacciato di casa dal padre in seguito ad un atto di grave irresponsabilità. Durante questa affabulazione, la donna  mette a fuoco alcuni episodi della sua vita che esamina  da punti di vista diversi, diversi cioè dall’ottica che , vivo il  marito, la portavano a comportamenti socialmente corretti  soprattutto in linea con lo status suo e del marito stesso. Attraverso le sue stesse parole Dvora si rivede, come davanti ad uno specchio, ripercorrere le azioni della sua vita  rileggendole in chiave diversa. Adesso, libera da tutto, lavoro compreso, si può occupare di ciò che è più in linea col suo carattere, con la sua volizione e con i suoi desideri più profondi. E in questo percorso ecco comparire IL FATTO. Questa volta è un incontro con un uomo che non rivoluziona  la sua vita ma è soltanto il “mezzo” attraverso il quale Dvora prende consapevolezza di sé, di ciò che veramente vuole e delle proprie conseguenti azioni, questa volta scelte e agite in completa autonomia. Accetta l’amicizia affettuosa dell’uomo, si riconcilia col proprio figlio in un percorso assai tortuoso e impara ad accettare gli altri per ciò che sono senza giudicarli attraverso il filtro del proprio Super-io così come ha fatto per tutta la sua precedente vita.

   Mi è parso che l’autore, in questa sua opera, abbia voluto costruire un’architettura narrativa estremamente barocca. Le simmetrie inventive adoperate per le tre narrazioni che vedono alternarsi una figura maschile e due femminili, seguono un percorso strutturale di base sul quale fare ruotare tutte le variazioni del narrato.
   L’uso della seconda persona, giustificato dalla figura degli interlocutori a cui si rivolgono tutti e tre i protagonisti dei tre episodi, il registro colloquiale-familiare che dovrebbe rendere la scrittura semplice e fluida, la continua sospensione narrativa con variazione di percorso,  conducono il lettore all’interno di un labirinto in cui personaggi, fatti, azioni, pensieri si avviluppano in un ingiustificato stile narrativo costruito per stupire il lettore nel tentativo, forse, di coinvolgerlo completamente dentro le storie.
   Certo si nota in Eshkol Nevo una grande capacità affabulatoria che viene padroneggiata con maestria, ma l’inventio  è, a mio avviso, eccessivamente forzata, con tratti di inverosimiglianza.
C’è un aspetto che mi ha fatto riflettere: ultimata la lettura del libro, mi è stato difficilissimo ricostruire vicende  e ricordare  fatti e personaggi. Come se la narrazione, con il suo andamento vorticoso , tutto cose, ricca di particolari,

di incisi, di avvicendamenti, di piani temporali diversi , non riuscisse a mantenersi in equilibrio, non fornendo al lettore quei riferimenti attraverso  i quali leggere e interpretare il senso del narrato.
   Mi sembra che i molteplici stimoli di cui è impregnato il  romanzo non abbiano una vera giustificazione e che , a volte, siano dei pretesti per fare procedere le storie, l’ultima delle quali sfocia in una fine che, tutto sommato, si sostanzia in un “lieto fine” assolutorio e risolutivo che rende banale  lo sforzo costruttivo di un romanzo il quale, sicuramente, nell’intenzione del suo autore, voleva essere molto di più di quello che riesce a comunicare al lettore: una sperimentazione non precisamente ben riuscita.