venerdì 20 novembre 2020

José Saramago : Cecità ed. Einaudi, Torino 1995 pp 315



Recensione di Maria Rosa Giannalia

 

 

   In una città qualsiasi, in un giorno qualsiasi, durante il rientro a casa a bordo della propria automobile un uomo si arresta in mezzo alla strada: è diventato cieco:  cecità di tutto il campo visivo che avvolge di una luce luminosa tutte le immagini di cose e persone annientandone  tutti i contorni.

   Inizia così una lunga e dolorosa epidemia in cui basta solo lo sguardo di un infetto, ormai cieco, a fare precipitare tutti coloro che si trovano nella sua area, in questa luce annientante.

   In breve la cecità si diffonde e infetta uomini, donne, bambini. In tutta la città, nessuno viene risparmiato, tranne una donna, moglie di un oculista presso il quale il primo cieco si era recato per un controllo. A nulla valgono  difese e misure per evitare il contagio: la cecità dilaga senza scampo.     I primi ciechi , in una manovra  messa in atto dal governo per arginare l’epidemia, vengono rinchiusi in una caserma. Viene fatto loro divieto assoluto di uscire ma viene comunque assicurato il rifornimento di viveri: tre pasti giornalieri per ciascun internato.

   Da questo incipit drammatico, la narrazione evolve  verso la visualizzazione di una catastrofe  in cui tutta l’ umanità regredisce in pochissimo tempo verso le forme dell’essenza animale.

   Nella lotta per la sopravvivenza e per l’accaparramento dei beni alimentari, si scatenano gli istinti bestiali e feroci indotti e aggravati dalla cecità, dall’impossibilità di riconoscere e riconoscersi in quanto persona . Vengono a cadere tutte quelle regole del vivere civile mentre emergono gli istinti più abietti di gruppi di ciechi che prevalgono su altri gruppi sottomettendoli  senza apparente necessità ma solo per il brutale esercizio del potere.

   La donna che vede, unica del gruppo, è consapevole del degrado ma è impossibilitata anche a disvelarsi, pena l’aggressione e l’annientamento o , quello che  lei stessa teme, l’asservimento ai bisogni di tutti gli altri ciechi.

   In mezzo agli escrementi , alla sporcizia, ai parassiti, alla mancanza di un minimo di igiene personale, questa massa si aggira a tentoni strisciando sul pavimento e rasente i muri solo per sopravvivere.

   La narrazione distopica di Saramago  è una grande metafora della condizione umana, dell’incapacità di vedere gli altri e se stessi, uomini ciechi all’interpretazione del mondo e alla bellezza della vita e ancora all’essenzialità dei valori umani. Questa, infatti, è  una cecità dell’anima e dell’intelligenza: il non sapere riconoscere la bellezza, il disprezzare la natura e l’altro da sé. Ma è anche una cecità catartica, come si potrà constatare leggendo le pagine del romanzo attraverso la particolare scrittura di Saramago. Una scrittura che è una valanga di parole , un fiume in piena che porta con sé, insieme alle profonde riflessioni,  le descrizioni degli atti più osceni di cui l’uomo è capace quando perde la sua umanità, attraverso tutti i detriti del linguaggio umano.

   La mancanza di punteggiatura, di pause, di aperture e chiusure dei  dialoghi con i segni di interpunzione canonici,  catapulta il lettore in un magma ininterrotto di discorsi dove ogni paraola assuma la stessa valenza narrativa e dove il lettore è chiamato a compartecipare al dipanamento mentale del flusso narrativo riconducendolo a sé per mezzo della propria capacità di organizzazione del linguaggio.

   Da leggere assolutamente.

   Il libro è presente presso la biblioteca comunale di Quartu Sant’ Elena e disponibile al prestito.

 

domenica 1 novembre 2020

Venivamo tutte per mare Romanzo di Julie Otsuka Ed. Bollati-Boringhieri, 2015

 

 Il libro della Otsuka apre uno squarcio su una parte della storia degli Stati Uniti, quella che i vincitori della seconda guerra mondiale non hanno mai raccontato e svela un episodio di deportazione di massa che accomuna gli americani a quelle stesse forze belligeranti europee e non europee ( per es. gli stessi giapponesi) che si sono macchiate di gravissime colpe per i soprusi e le vessazioni eseguiti sui vinti nel momento in cui li hanno deportati nei campi di concentramento. A me è parso che, scrivendo questo romanzo, la sua autrice abbia voluto fare un atto di accusa non politico e senza schieramento di parte, orientato solo ad evidenziare quanto gli uomini , tutti gli uomini senza distinzione di nazionalità, in situazioni particolari di disagio e soprattutto di guerra, possano essere crudeli con i vinti e con i deboli e ha scelto di farlo mostrando tra le vittime, le più deboli di tutte: le donne. La società statunitense che altrove si è manifestata come detentrice dei valori di umanità, di democrazia, e vendicatrice delle colpe di tutti i regimi totalitari che nella prima metà del secolo scorso si sono macchiati di grandi crimini, in fondo ha conseguito i medesimi obiettivi praticando le stesse modalità che altrove aveva ufficialmente aborrito. La storia che la Otsuka racconta è quella di un grande numero di ragazze giapponesi partite speranzose dal Giappone, spinte dalle loro stesse famiglie di provenienza a causa della grande povertà , alla volta degli Stati Uniti, dove alcuni loro connazionali, futuri mariti, le attendevano per costituire nuove famiglie. Quelle stesse famiglie che si sarebbero insediate nella baia di S. Francisco alla ricerca di un altro destino, migliore, contando su una determinazione forse sconosciuta agli stessi americani e una capacità di lavoro fuori dal comune. Il focus che l’autrice predilige è quello femminile ed è alle donne che fa raccontare questa parte dolorosa della loro storia. Non ci sono singole protagoniste in questo romanzo, ma una sola voce, plurale, collettiva, che racconta attraverso un “noi” narrante il dolore diversificato per contesti ( il duro lavoro agricolo, le violenze familiari e sessuali, i soprusi, i parti difficili, gli scontri violenti, ma anche qualche raro episodio di gentilezza e sensibilità di un marito…), ma uguale per intensità. Sono quindi le donne a narrare sempre collettivamente. Nessun punto di vista individuale trova spazio in questa narrazione, essendo l’universo femminile giapponese rappresentato nella sua generalità in un’ottica molto orientale. Si spiega così anche la cifra stilistica che attraversa tutto il romanzo: sembra di udire il lamento più che il racconto, di un coro di donne che condividono e fanno proprio ognuna il dolore di tutte. Ma questa scelta stilistica è un’arma a doppio taglio: mentre assolve al compito di rappresentare il dolore collettivo, non fornisce elementi di approfondimento sull’individualità delle storie, eliminando una gran parte di quella funzione narrativa che permette al lettore di comprendere fino in fondo l’individualità della sofferenza che ( forse noi occidentali) riusciamo a cogliere di più poiché favorisce meglio il principio della condivisione, dell’empatia e dell’immedesimazione nel personaggio. In altri termini, personalmente, questo modo di raccontare plurale, attraverso le anafore, la prosa paratattica e il sentire collettivo, mi ha dato l’impressione di una lunga litania dove il dolore, reiterato con tono monocorde, sortisce l’effetto di annoiare piuttosto che di coinvolgere i sentimenti e le emozioni del lettore. La parte finale del romanzo riscatta in parte questa monotonia narrativa, laddove l’autrice ribalta la prospettiva mostrando il punto di vista della società americana piccolo borghese e operaia fatta di famiglie che erano vissute a contatto con la comunità nipponica. E anche se tale società ne aveva apprezzato l’alacrità, la dedizione al lavoro, l’onestà nel rapporto umano, la stessa è anche pronta a rinnegare tutto il suo convincimento quando il governo statunitense decide di deportare tutta la comunità giapponese fino all’ultimo bambino in una sorta di epurazione territoriale come atto di ritorsione nei confronti del
regime totalitario giapponese. E così, nell’ottica indotta dal governo attraverso la propaganda, quelle stesse famiglie che prima avevano apprezzato i loro vicini di casa, adesso affermano con convinzione che “ se anche vorremmo credere che quasi tutti, se non tutti, i nostri vicini giapponesi fossero degni di fiducia, non potevamo essere sicuri della loro lealtà. “. Ecco ricreato il clima di sospetto non dissimile da quello tedesco nei confronti degli ebrei. La storia si ripete dovunque con le stesse procedure che non cambiano col mutare delle nazionalità ma si riproducono con la stessa virulenza quando la pietas, la tolleranza, l’amore per il prossimo cede il passo alla paura di un danno , anche solo paventato e indotto, per se stessi e per le proprie cose. Ed è in questo modo che quella comunità di giapponesi america
nizzati , deportata e dispersa in territori aspri e desertici, si dissolve nel silenzio della storia.