giovedì 3 dicembre 2020

Al giardino ancora non l’ho detto di Pia Pera ed. Ponte alle Grazie, 2016

   Recensione di Maria Rosa Giannalia

genere: autobiografia

  

L'autrice 
Pia Pieri è una scrittrice lucida , un’intellettuale raffinata, una docente di letteratura russa informata ad un ambiente di grande levatura culturale, con frequentazioni nell’ambito del mondo letterario molto prima della scrittura di questo libro.

 Qui l'autrice si racconta in una sorta di autobiografia degli ultimi tre anni di vita, portata a termine, pochi mesi prima della morte, a causa di una forma acuta e galoppante di sclerosi multipla laterale che in pochi anni ha determinato il suo fine vita.

   La protagonista, conosciuta la diagnosi definitiva del suo male ne percepisce tutta la drammaticità in relazione non solo alla sua salute ma anche alla sua grande passione: la cura particolare del suo podere che dopo l’acquisto, ha trasformato in un giardino magnifico il quale, insieme al casolare ristrutturato, costituirà la sua dimora abituale dove progettava di vivere fino alla vecchiaia.

   Quando saprà di avere a disposizione un tempo limitato dalla sua malattia che la trasformerà in invalida soprattutto nella deambulazione e quindi inadatta a continuare personalmente a prendersi cura del suo giardino, decide di dedicare il suo tempo ad ascoltare  il suo corpo nella nuova situazione  e a sentire tramite questo il suo giardino di cui si è occupata e si continuerà ad occupare con amore e con la stessa passione che non verrà meno fino all’ultimo.

   La scelta di scrivere questo libro, quindi, consapevolmente autobiografico , la guiderà nel ripercorrere a ritroso il suo passato e ri-viverlo in relazione alla sua nuova dimensione che le dà una prospettiva diversa - quasi ribaltata- del suo passato fermandola nel qui ed ora di una visione sinottica e allargata del  presente.

   La malattia e il progressivo venir meno dell’energia vitale, conferisce alla protagonista una forza nuova, quella di  rivolgersi verso se stessa e analizzare lucidamente e razionalmente  i suoi pensieri, le sensazioni, i nuovi sentimenti, il nuovo sguardo sul criterio di bellezza:

 

Una bellezza che va rivelandosi mano a mano che, con lo spegnersi, si estingue la sicumera dell’io, l’attaccamento al mondo. Mi sento riassorbire in qualcosa più vasto di me.

 

   Ciò che stupisce anche se stessa è scoprire come la malattia  cambi la prospettiva sugli uomini e sulle cose: laddove nel suo passato attivo e veloce  percepiva la sofferenza e la disabilità degli altri come  intralcio allo scorrere della storia e del progresso dei sani, adesso , viceversa, la persuade ad un pensiero più comprensivo ed empatico della malattia sua e degli altri.

   La malattia diventa una condizione nuova di vita in cui il tempo, quello che rimane, si dilata  e favorisce una nuova percezione, con tutti i sensi, delle trasformazioni delle piante, dei fiori, dei frutti e di tutti gli animali che popolano quel suo giardino nel passaggio delle stagioni.

   E mentre osserva queste trasformazioni, la protagonista riflette: la vita, il suo significato intrinseco e anche ultimo, i rapporti affettivi, le relazioni amicali…  e tutto assume una forma nuova, più intima e lucida senza le interferenze della banalità e della fretta del quotidiano: nuove prospettive da cui osservare gli amici di sempre oppure le persone che , da sana,  aveva scartato dai suoi interessi perché non corrispondenti al suo immaginario né alla sua cultura; nuovi modi di rapportarsi con Giulio, il suo giardiniere-badante cingalese, umile e devoto, che la serve con amore; gli amici con cui intrattiene rapporti solo epistolari ma anche con gli amici della prima vita che continuano ad andare a trovarla. Un mondo affettivo ricco che non la distoglie tuttavia dalla riflessione sugli aspetti più grossolani, meno accettabili dello stuolo di medici, guaritori, massaggiatori, infermieri, cialtroni cui si è rivolta più che con fiducia, con prudente cautela necessitata dallo stato , a volte disperato, della sua malattia.

   Intraprende, quindi, la riflessione sulla morte e sulla giustezza dell’eutanasia come scelta autonoma che salva dalla sofferenza assicurando la dignità dell’essere umano.

   E ancora: la curiosità  sull’al di là, su ciò che sarà del nostro sentire, della nostra anima intesa come quel quid che ci fa amare, pensare, essere consapevoli. Un interrogarsi su quali forme assumerà la nostra coscienza e se il sentirsi parte del tutto è una prerogativa anche dell’al di qua:

 

   Una forma dell’al di là tuttavia esiste, si trova dentro di noi. Come un’intuizione che ci permette di attraversare il dato fisico quasi fosse incorporeo. Credo che somigli allo spazio infinito che, talvolta, meditando, diventa quasi impalpabile nella sua inafferrabilità

 

   E ancora l’indagine sulle religioni, quel senso intimo di religiosità che l’autrice ritiene essere comune a tutte le religioni e che ritrova anche in Pavel Florenskij :

 

…la conoscenza della divina Sapienza e l’amore per il corpo, lo sforzo ascetico e la conoscenza della Verità Assoluta, la fuga dalla corruzione e l’amore, sono lati antinomici della medesima vita spirituale.

 

   Poi, nell’ultimo anno di vita, quando la malattia si fa più perniciosa al punto da renderle quasi impossibile anche i movimenti più semplici costringendola all’uso costante della  sedia a rotelle, la protagonista infittisce i momenti di ripiegamento su di sé prendendo le distanze da tutto quel mondo vegetale ed animale che costituiva il suo ambito privilegiato di interesse. Distanza, però, che non le vieta di sentire ancora tutta la bellezza e la dolcezza della natura e di nutrirsi di essa anche solo attraverso il senso della vista tenendo salda così la corrispondenza con il suo giardino:

 

   Vorrei non perdere nemmeno un attimo di questo periodo di grazia. Sto fuori più che posso, pazienza se non lavoro tanto. I fiori dell’erba mi commuovono. Cosa dirne? Come dirlo? Tutti insieme così leggeri e aerei, nemmeno sembrano fiori. Visti da vicino sono di una grazia indicibile. Nella luce radente del sole che sta per nascondersi dietro il monte mi fermo felice a guardare, semplicemente guardare il campo di erba fiorita appena smosso dal vento.

 

   L’autrice è una raffinatissima intellettuale fine conoscitrice dei classici russi ma anche dei moderni e questa conoscenza è palpabilissima non tanto nelle citazioni che non appesantiscono mai il romanzo – ma anzi lo attraversano lievi-  quanto nell’avere assorbito e fatte sue le riflessioni che informano di sé i diversi autori oggetto delle sue letture.

   Ciò che mi aveva un po’ infastidito nel principiare della mia personale lettura di questo libro, cioè il passare dell’autrice troppo velocemente con ritmo analogico da un pensiero all’altro, dallo sguardo al giardino alle riflessioni sulla vita, dalle citazioni di un autore eccelso alla descrizione delle attività quotidiane di Giulio il giardiniere, citato spessissimo più di tutti gli altri, e delle minute descrizioni delle azioni di giardinaggio, all’insistere così preciso (maniacale?) nella denominazione puntuale di ogni pianta ed erba anche col nome latino,  verso la fine della mia lettura mi appare invece come uno svolazzare di farfalla che si va posando con leggerezza e fragilità su ogni cosa per godere e far godere dei colori  di questa natura semplice  e maestosa e della sua particolare struttura, non come  una mappa da percorrere per orientarsi ma come un  frattale per godere in ogni particolare la grandezza del tutto.

   Mi sono accorta infine che la forma narrativa di questa autobiografica, concepita forse come  diaristica, altro invece non è che l’ultimo atto d’amore col quale l’autrice prende per mano il lettore e gli dice: vieni qui con me, guarda com’è bello il mondo, quanta dolcezza c’è nella natura, quanto amore nell’amicizia, quanta leggerezza nel sapere sorridere  talvolta di tutta la nostra stessa vita che altro non è se non un momento dell’eternità in cui tutti siamo destinati  a ritornare in un unicuum che è infine la nostra essenza e felicità.

 


 

venerdì 20 novembre 2020

José Saramago : Cecità ed. Einaudi, Torino 1995 pp 315



Recensione di Maria Rosa Giannalia

 

 

   In una città qualsiasi, in un giorno qualsiasi, durante il rientro a casa a bordo della propria automobile un uomo si arresta in mezzo alla strada: è diventato cieco:  cecità di tutto il campo visivo che avvolge di una luce luminosa tutte le immagini di cose e persone annientandone  tutti i contorni.

   Inizia così una lunga e dolorosa epidemia in cui basta solo lo sguardo di un infetto, ormai cieco, a fare precipitare tutti coloro che si trovano nella sua area, in questa luce annientante.

   In breve la cecità si diffonde e infetta uomini, donne, bambini. In tutta la città, nessuno viene risparmiato, tranne una donna, moglie di un oculista presso il quale il primo cieco si era recato per un controllo. A nulla valgono  difese e misure per evitare il contagio: la cecità dilaga senza scampo.     I primi ciechi , in una manovra  messa in atto dal governo per arginare l’epidemia, vengono rinchiusi in una caserma. Viene fatto loro divieto assoluto di uscire ma viene comunque assicurato il rifornimento di viveri: tre pasti giornalieri per ciascun internato.

   Da questo incipit drammatico, la narrazione evolve  verso la visualizzazione di una catastrofe  in cui tutta l’ umanità regredisce in pochissimo tempo verso le forme dell’essenza animale.

   Nella lotta per la sopravvivenza e per l’accaparramento dei beni alimentari, si scatenano gli istinti bestiali e feroci indotti e aggravati dalla cecità, dall’impossibilità di riconoscere e riconoscersi in quanto persona . Vengono a cadere tutte quelle regole del vivere civile mentre emergono gli istinti più abietti di gruppi di ciechi che prevalgono su altri gruppi sottomettendoli  senza apparente necessità ma solo per il brutale esercizio del potere.

   La donna che vede, unica del gruppo, è consapevole del degrado ma è impossibilitata anche a disvelarsi, pena l’aggressione e l’annientamento o , quello che  lei stessa teme, l’asservimento ai bisogni di tutti gli altri ciechi.

   In mezzo agli escrementi , alla sporcizia, ai parassiti, alla mancanza di un minimo di igiene personale, questa massa si aggira a tentoni strisciando sul pavimento e rasente i muri solo per sopravvivere.

   La narrazione distopica di Saramago  è una grande metafora della condizione umana, dell’incapacità di vedere gli altri e se stessi, uomini ciechi all’interpretazione del mondo e alla bellezza della vita e ancora all’essenzialità dei valori umani. Questa, infatti, è  una cecità dell’anima e dell’intelligenza: il non sapere riconoscere la bellezza, il disprezzare la natura e l’altro da sé. Ma è anche una cecità catartica, come si potrà constatare leggendo le pagine del romanzo attraverso la particolare scrittura di Saramago. Una scrittura che è una valanga di parole , un fiume in piena che porta con sé, insieme alle profonde riflessioni,  le descrizioni degli atti più osceni di cui l’uomo è capace quando perde la sua umanità, attraverso tutti i detriti del linguaggio umano.

   La mancanza di punteggiatura, di pause, di aperture e chiusure dei  dialoghi con i segni di interpunzione canonici,  catapulta il lettore in un magma ininterrotto di discorsi dove ogni paraola assuma la stessa valenza narrativa e dove il lettore è chiamato a compartecipare al dipanamento mentale del flusso narrativo riconducendolo a sé per mezzo della propria capacità di organizzazione del linguaggio.

   Da leggere assolutamente.

   Il libro è presente presso la biblioteca comunale di Quartu Sant’ Elena e disponibile al prestito.

 

domenica 1 novembre 2020

Venivamo tutte per mare Romanzo di Julie Otsuka Ed. Bollati-Boringhieri, 2015

 

 Il libro della Otsuka apre uno squarcio su una parte della storia degli Stati Uniti, quella che i vincitori della seconda guerra mondiale non hanno mai raccontato e svela un episodio di deportazione di massa che accomuna gli americani a quelle stesse forze belligeranti europee e non europee ( per es. gli stessi giapponesi) che si sono macchiate di gravissime colpe per i soprusi e le vessazioni eseguiti sui vinti nel momento in cui li hanno deportati nei campi di concentramento. A me è parso che, scrivendo questo romanzo, la sua autrice abbia voluto fare un atto di accusa non politico e senza schieramento di parte, orientato solo ad evidenziare quanto gli uomini , tutti gli uomini senza distinzione di nazionalità, in situazioni particolari di disagio e soprattutto di guerra, possano essere crudeli con i vinti e con i deboli e ha scelto di farlo mostrando tra le vittime, le più deboli di tutte: le donne. La società statunitense che altrove si è manifestata come detentrice dei valori di umanità, di democrazia, e vendicatrice delle colpe di tutti i regimi totalitari che nella prima metà del secolo scorso si sono macchiati di grandi crimini, in fondo ha conseguito i medesimi obiettivi praticando le stesse modalità che altrove aveva ufficialmente aborrito. La storia che la Otsuka racconta è quella di un grande numero di ragazze giapponesi partite speranzose dal Giappone, spinte dalle loro stesse famiglie di provenienza a causa della grande povertà , alla volta degli Stati Uniti, dove alcuni loro connazionali, futuri mariti, le attendevano per costituire nuove famiglie. Quelle stesse famiglie che si sarebbero insediate nella baia di S. Francisco alla ricerca di un altro destino, migliore, contando su una determinazione forse sconosciuta agli stessi americani e una capacità di lavoro fuori dal comune. Il focus che l’autrice predilige è quello femminile ed è alle donne che fa raccontare questa parte dolorosa della loro storia. Non ci sono singole protagoniste in questo romanzo, ma una sola voce, plurale, collettiva, che racconta attraverso un “noi” narrante il dolore diversificato per contesti ( il duro lavoro agricolo, le violenze familiari e sessuali, i soprusi, i parti difficili, gli scontri violenti, ma anche qualche raro episodio di gentilezza e sensibilità di un marito…), ma uguale per intensità. Sono quindi le donne a narrare sempre collettivamente. Nessun punto di vista individuale trova spazio in questa narrazione, essendo l’universo femminile giapponese rappresentato nella sua generalità in un’ottica molto orientale. Si spiega così anche la cifra stilistica che attraversa tutto il romanzo: sembra di udire il lamento più che il racconto, di un coro di donne che condividono e fanno proprio ognuna il dolore di tutte. Ma questa scelta stilistica è un’arma a doppio taglio: mentre assolve al compito di rappresentare il dolore collettivo, non fornisce elementi di approfondimento sull’individualità delle storie, eliminando una gran parte di quella funzione narrativa che permette al lettore di comprendere fino in fondo l’individualità della sofferenza che ( forse noi occidentali) riusciamo a cogliere di più poiché favorisce meglio il principio della condivisione, dell’empatia e dell’immedesimazione nel personaggio. In altri termini, personalmente, questo modo di raccontare plurale, attraverso le anafore, la prosa paratattica e il sentire collettivo, mi ha dato l’impressione di una lunga litania dove il dolore, reiterato con tono monocorde, sortisce l’effetto di annoiare piuttosto che di coinvolgere i sentimenti e le emozioni del lettore. La parte finale del romanzo riscatta in parte questa monotonia narrativa, laddove l’autrice ribalta la prospettiva mostrando il punto di vista della società americana piccolo borghese e operaia fatta di famiglie che erano vissute a contatto con la comunità nipponica. E anche se tale società ne aveva apprezzato l’alacrità, la dedizione al lavoro, l’onestà nel rapporto umano, la stessa è anche pronta a rinnegare tutto il suo convincimento quando il governo statunitense decide di deportare tutta la comunità giapponese fino all’ultimo bambino in una sorta di epurazione territoriale come atto di ritorsione nei confronti del
regime totalitario giapponese. E così, nell’ottica indotta dal governo attraverso la propaganda, quelle stesse famiglie che prima avevano apprezzato i loro vicini di casa, adesso affermano con convinzione che “ se anche vorremmo credere che quasi tutti, se non tutti, i nostri vicini giapponesi fossero degni di fiducia, non potevamo essere sicuri della loro lealtà. “. Ecco ricreato il clima di sospetto non dissimile da quello tedesco nei confronti degli ebrei. La storia si ripete dovunque con le stesse procedure che non cambiano col mutare delle nazionalità ma si riproducono con la stessa virulenza quando la pietas, la tolleranza, l’amore per il prossimo cede il passo alla paura di un danno , anche solo paventato e indotto, per se stessi e per le proprie cose. Ed è in questo modo che quella comunità di giapponesi america
nizzati , deportata e dispersa in territori aspri e desertici, si dissolve nel silenzio della storia.

mercoledì 10 giugno 2020

Osservazioni su “ La signora Lirriper “ di Charles Dickens


di Maria Rosa Giannalia


   Pensare di leggere  questo lungo racconto di Dickens per tranne diletto o edificazione, credo che sia alquanto fuorviante per una lettrice o lettore di oggi, poiché il testo, datato al 1863, anno della sua pubblicazione nella rivista All the year round, aveva tutte le caratteristiche per piacere ad un pubblico ben definito , londinese, vittoriano e tardo romantico, caratteristiche che non tardarono a determinarne il grande successo: i temi e i topoi presenti erano proprio quelli che quel pubblico non solo era in grado di apprezzare , ma soprattutto in cui  rispecchiarsi, almeno in quanto ad aspirazione ideale, visto che la realtà vittoriana di Londra e  forse dell’Inghilterra tutta era di ben altra prosaica caratura.
Il racconto è uno degli ultimi scritti di Dickens ed è un racconto di cornice, vale a dire una narrazione destinata ad accogliere al suo interno altre narrazioni ad opera di altri collaboratori dello stesso autore che dirigeva la rivista succitata nella quale apparve, come detto, nel 1863.    
   La cornice è abbastanza esile: una donna anziana si rivolge ad una interlocutrice muta con la quale intesse un monologo per raccontare la sua esperienza di un lungo segmento di vita che va dalla sua vedovanza improvvisa fino all’atto conclusivo della sua narrazione edificante e ( molto) auto celebrativa.  La signora Lirriper , morto il marito e priva totalmente di mezzi, si inventa imprenditrice, chiede un prestito ad una banca di Londra col patto che restituirà fino all’ultimo centesimo del debito contratto dal marito  con la medesima banca. Debito che onora esercitando ininterrottamente il mestiere di locandiera per quasi quarant’anni. E tutto ciò che vede ed esperisce in questi lunghi anni saranno  materia del suo lungo monologo nei confronti della sua silenziosa amica con la quale, si presume, la protagonista abbia molta familiarità.
   All’interno di questa cornice si inseriscono delle micro-storie che , sempre la protagonista imbastisce sulle persone che transitano nella sua pensione, tra le quali si notano un maggiore Jeremy Jackman  che diverrà il pensionante prediletto della signora Lirriper dal quale quest’ultima si lascerà accompagnare lungo il corso della sua vita coinvolgendolo nell’itinerario educativo dell’orfano di una ragazza sedotta e abbandonata dal suo uomo proprio  nella sua pensione.
   La ragazza morirà dopo poco tempo dal parto, come nei migliori romanzi di appendice del secondo ottocento europeo.
   Descritto così, il racconto non sembrerebbe discostarsi di molto dai numerosi topoi letterari della narrativa sopra citata ma, al contrario, parrebbe rientrare nella norma dei feuilleton tanto in voga tra la borghesia europea dell’ottocento.
  Invece, a ben guardare, il testo in questione riserva parecchie sorprese: prima tra tutte la struttura narrativa dell’opera. Dickens attinge a piene mani dalla scrittura di un suo predecessore del settecento , l’inglese di origine irlandese Laurence Sterne nel suo  Vita e opere di Tristam Shandy, gentiluomo: scrittura brillante, dinamica, ironica e molto molto innovativa nei modi e nei contenuti.
   L’azione emulativa che compie Dickens però, va molto oltre: alla scrittura dissacrante di Sterne egli accosta una materia tutta ottocentesca, un po’ lacrimevole, ma giusto quel tanto che serve per esercitare la sua ironia che trova più ampio spazio laddove egli può descrivere alcuni personaggi minori, uomini e donne , evidenziandone le caratteristiche più “nascoste” del conformismo vittoriano, attento ai buoni sentimenti e ai costumi irreprensibili ma con un occhio particolarmente sensibile al denaro e agli affari, come è nella natura della stessa protagonista signora Lirriper.
   Questa anziana signora, costruita da Dickens, narra in prima persona ed è il modo che evidentemente dà al suo creatore la possibilità di esprimersi in una modalità di estraniamento tutto al femminile. Espediente, questo, che gli consente di esercitare quella forma retorica che gli è più congeniale, vale a dire l’ironia leggera e penetrante nello stesso tempo.
   E’ molto interessante come, proprio in un testo così breve, l’autore sappia allontanarsi da molta parte dei topoi praticati negli altri suoi romanzi a favore, viceversa, di una leggerezza di modi narrativi poco praticati anche nella letteratura a lui contemporanea. In questo continuo flusso di parole al femminile, in questo gusto della chiacchiera, del gossip, la signora Lirriper sembra preconizzare la prosa di Virginia Woolf piuttosto che il flusso di coscienza di Joyce, come viene detto nella prefazione al racconto.
   Degna di nota mi sembra anche l’ottica attraverso la quale la protagonista mette a confronto l’industriosità della gente di Londra con la spensieratezza dei parigini che lei ha modo di conoscere durante un viaggio in Francia per andare a impossessarsi di una inattesa quanto inconsistente eredità. Anche questo un modo elegantemente ironico per sottolineare l’inanità dei francesi.
E questo topos dell’eredità  altro non è che un ulteriore espediente narrativo  che permetterà alla protagonista di autocelebrarsi evidenziando la sua bontà nel concedere il perdono al seduttore della fanciulla che lei aveva preso a cuore , madre del piccolo Jemmy, da lei  amorevolmente allevato. Seduttore che i lettori potranno ritrovare giustamente punito, per la sua orribile colpa, con la  malattia e la povertà. Come il pubblico vittoriano si aspettava che avvenisse per essere rassicurato  e confortato dalla pubblica morale anche se non assolto dai vizi privati.


sabato 29 febbraio 2020

Biblioteca di Quartu S. E. Rassegna letterario-cinematografica


Ieri sera 27 febbraio 2020 si è conclusa la rassegna letterario-cinematografica programmata presso la biblioteca Comunale di Quartu Sant'Elena.

Il libro presentato da  Elisabetta Randaccio è stato "Piccole donne " di Louisa May Alcott, cui ha fatto seguito il 28 febbraio, il film omonimo del 1933.




Libro e film sono stati analizzati  dalla prof.ssa Randaccio, critico cinematografico, che ha evidenziato come ambientazione e costruzione dei personaggi ad opera dell'autrice L.M.Alcott, siano stati mirati non ad un facile  e accattivante racconto ad uso degli adolescenti della seconda metà dell'ottocento ( ricordiamo che il libro venne editato integralmente nell'anno 1868 ), quanto piuttosto ad una vera e propria analisi dei sentimenti di donne e uomini giovani e meno giovani che, non prescindendo da un contesto molto preciso,  rappresentano verosimilmente  lo spaccato di un'epoca.
Al di là , quindi, del luogo comune che ascrive  "Piccole donne" alla paraletteratura rosa dedicata alle ragazze, Elisabetta Randaccio ci ha mostrato come , viceversa, il libro abbia avuto e abbia tuttora una qualità letteraria alta. Qualità che permette all'opera di essere collocata tra i classici. Il successo immediato di questo romanzo ha attraversato le epoche, tanto da arrivare a noi ancora ricco di cose da dirci.

Il film, del 1933, è stato ugualmente interessantissimo, poichè l'analisi condotta dalla Randaccio ha messo in luce tutta la complessità della realizzazione filmica e della sceneggiatura, senza trascurare la magnifica interpretazione di una giovanissima Catharine Hepburne che si impose alla ribalta di Hollywood col riconoscimento tributatole al festival del cinema di Venezia nel 1934 come migliore interprete femminile.


Bisogna sottolineare che questa rassegna, nella sua totalità dei quattro incontri letterari e cinematografici, è da considerarsi un'attività di qualità alta che colloca l'offerta della biblioteca di Quartu Sant'Elena al pubblico della città, tra le migliori delle istituzioni bibliotecarie dell'interland cagliaritano e della stessa Cagliari.

Un ringraziamento a tutti coloro che hanno partecipato: il pubblico che ci ha gratificato della sua costante presenza, tutto il personale della biblioteca che si è profuso moltissimo in orario non lavorativo, e infine  le relatrici, le  lettrici e il lettore.
 Avremmo gradito almeno una volta  la presenza di qualche rappresentante dell'amministrazione del Comune di Quartu, ma, evidentemente, i molteplici impegni non hanno consentito a nessuno di partecipare.  

Alcune foto della serata





martedì 4 febbraio 2020

Procedura di Salvatore Mannuzzu ed. Arcipelago Einaudi 2015




Scritto nel 1988, il romanzo “Procedura”  colloca Salvatore Mannuzzu nel novero degli autori sardi contemporanei portatori di innovazione nel panorama letterario nazionale, così come si può leggere anche in Wikipedia.

In realtà alcune recensioni e quarte di copertina attribuiscono il romanzo che Mannuzzu scrive  al genere giallo. Ma di questo genere letterario, il libro non ha le caratteristiche, essendo piuttosto un vero e proprio studio romanzato su comportamenti , sensazioni ed emozioni oltre che sentimenti di un insieme di personaggi che agiscono e/o si lasciano vivere in una Sassari del 1976, sonnolenta e disperante città di provincia. In questa città il protagonista, un magistrato, viene mandato , si intuisce per punizione, ad indagare sulla morte di un collega- Valerio Garau- inspiegabilmente morto dopo avere sorbito un caffè al bar del tribunale, in compagnia di una collega  sua amante. Questo il fatto che dà avvio alla “procedura” per mettere ordine ai fatti.
Nel sottofondo la storia dell’Italia degli anni ’70: il sequestro Moro, ad opera delle brigate rosse, di cui, nella cittadina di provincia, isola in un’isola, arriva un’eco ovattata e smorzata.
Lo spunto iniziale porge il destro all’autore per fare muovere il suo personaggio, che non viene mai nominato, attraverso strade fredde e quasi surreali, alla ricerca di indizi, motivazioni, spiragli di luce, atti a condurlo non tanto alla soluzione del caso quanto, piuttosto al sondaggio e alla comprensione dell’animo umano.
Così, in una girandola di uomini e donne, tutti con legami più o meno stretti con il morto, il magistrato, con indolenza e, a volte, fastidio, dipana una matassa fatta di verità parziali, di punti di vista differenti, nella quale lo scopo fondamentale quasi si dissolve a favore dell’emersione di stralci di vita, spiragli, attraverso cui  si mostrano al lettore episodi del passato prossimo e remoto di tutti i personaggi presenti nel romanzo.
Alla fine il caso non si risolve, la ricerca della verità approda a tante differenti verità ciascuna delle quali ha una sua plausibile spiegazione e collocazione all’interno della vicenda.

E’ notevole in questo libro, la capacità di Mannuzzu di iniziare una narrazione intricata fin dall’inizio, e sapere condurla fino alla fine annodando con sicurezza  tutti i fili delle azioni,  per ricondurli , in fondo al romanzo, al punto di partenza.
La scrittura è spiazzante: la sintassi è costruita attraverso un labirinto di incisi e subordinate, in cui le descrizioni di pensieri, stati d’animo, le analessi, si intrecciano continuamente, destabilizzando anche il lettore esperto che è costretto a rimanere perfettamente avvinto alla scrittura pena la confusione e la perdita del senso della narrazione.
A complicare ancor più la scrittura, una punteggiatura non canonica con l’uso spregiudicato soprattutto dei due punti, quasi a volere spiegare continuamente le ragioni di azioni apparentemente inspiegabili in un colloquio costante e fitto che il magistrato, protagonista della vicenda, instaura con se stesso. E infatti di questo colloquio interiore la narrazione ha tutte le caratteristiche: il protagonista insegue i suoi pensieri senza curarsi di interlocutori.

Per questo il libro mi è sembrato un’opera di scrittura raffinatissima ma difficile e certamente non alla portata di lettori poco esperti.
Questa scrittura di Mannuzzu in qualche modo mi sbalordisce, nel senso che non somiglia a nessuna delle  scritture di autori sardi contemporanei : è caratterizzata da una cifra originalissima che conferisce alla narrazione una sorta di monotonia volutamente  livellante  quasi che l’autore volesse rappresentare le vicende umane dando a ciascuna di esse la stessa importanza e il medesimo valore: nessuno dei personaggi dice la verità, ognuno ha una sua verità da rivelare importante quanto quella degli altri. Come dire che la ricerca della motivazione della morte è solo un fatto puramente aleatorio e, tutto sommato, anche inutile, che nulla aggiunge e nulla toglie all’infinita vicenda dell’uomo.


lunedì 3 febbraio 2020

Il treno dei bambini
di Viola Ardone- Einaudi Stile Libero 2019




Copertina del libro Il treno dei bambini di Viola ArdoneIl romanzo di Viola Ardone pubblicato nel 2019 da Einaudi stile libero, si ispira ad una storia vera: una storia di solidarietà  organizzata dal partito comunista e dall’UDI che realizzò lo spostamento temporaneo, nel 1946 dopo la devastazione della guerra, dal sud Italia verso l’Emilia Romagna di migliaia di bambini, con conseguente affidamento a famiglie accoglienti, per essere salvati dalla miseria e dalla fame.

Amerigo, piccolo scugnizzo napoletano, vive con la madre Antonietta in un basso di Napoli. Passa le giornate osservando le scarpe dei passanti e attribuendo un punteggio per ogni scarpa sana fino a totalizzare il massimo dei punti. Questo suo passatempo alternato con i giochi insieme agli altri suoi amichetti dei bassi, apre lo scenario su una città poverissima nell'atmosfera del dopoguerra con una grande fame e miseria di tutta la popolazione povera e senza alcun mezzo di sostentamento.
Per questi bambini viene approntato un treno ad opera delle donne dell'UDI sostenute dal PCI, che li condurrà verso Modena dove essi troveranno famiglie accoglienti ed affettuose.
In una di queste famiglie si situa Amerigo, protagonista del romanzo, il quale, conosciuto il benessere, si accorge di quanto sia  misera la condizione sua e della madre. Per questo, al suo ritorno a Napoli, si trova a non potere più sopportare quella condizione di estrema miseria e scappa per raggiungere la famiglia accogliente a Modena dalla quale si fa adottare col consenso della madre Antonietta.
Da adulto Amerigo tornerà a Napoli per darle l'ultimo saluto. Ma la madre è già morta e Amerigo si aggirerà per quegli stessi vicoli dove scoprirà che la povertà e l'infelicità da cui era scappato non potrà essere risolta se non con un atto d'amore verso quella stessa famiglia che ha ripudiato per tutta la vita.
  
L’autrice Viola Ardone è relativamente giovane ed è alla sua terza esperienza di scrittura. Questo è, a mio avviso, un elemento da tenere presente nell’analisi del testo.
Non c’è dubbio che la fortuna del libro nasca dal racconto assai toccante dell’avventura toccata ad un gruppo di bambini dello stesso rione dei bassi napoletani tra cui si trova lo stesso protagonista, Amerigo, che narra in prima persona tutta la vicenda occorsa a sé e ai suoi amici, bambini tra i sei e i dieci anni. Fortuna data anche dal fatto che l’episodio autentico non era stato mai narrato in chiave romanzata.
La narrazione procede quindi dal punto di vista di Amerigo per tutte le tre prime parti del romanzo, mentre nella quarta parte è un Amerigo adulto che parla in un dialogo immaginario con la madre appena morta. Il narrato, per bocca del piccolo Amerigo, procede attraverso uno stile  e un registro linguistico tipico degli scugnizzi napoletani che, vissuti nella miseria, devono arrabattarsi anche per il pane quotidiano. E Amerigo non fa eccezione: egli è perfettamente inserito in questo contesto e assolutamente inconsapevole della sua condizione di povero  figlio di una giovanissima madre incapace di dargli l’affetto che il piccolo si aspetta. Affetto che la madre tuttavia sa dargli a sprazzi attraverso gesti quotidiani ben sottolineati dalle parole del bambino . Antonietta non è una madre anaffettiva, è una madre povera di beni e di sentimenti. Non sa neppure svelare la sua vera paternità al piccolo il quale, per questo, andrà  per tutta la vita alla ricerca di una stabilità che solo la cognizione della propria nascita può conferire anche agli ultimi nella scala sociale.
Le parole  che Amerigo usa per narrare sono ingenue, fresche, costitutive del linguaggio degli scugnizzi, attraversato da espressioni che conservano il ritmo del dialetto napoletano, come la stessa autrice afferma in questa intervista. 
Questa scrittura conferisce alle prime tre parti del romanzo un realismo poetico che l’autrice riesce ad organizzare in un unicuum narrativo nel quale il lettore si immerge con piacere.
L’autrice rende assai bene , con le parole dell’infanzia, di quella infanzia, il senso della meraviglia di fronte a possibili altri mondi affettivi ai quali i piccoli non sono abituati e al senso di gioia e di appagamento nel partecipare di quel mondo diverso, più ricco, dove predomina abbondanza di cibo e di cure, dove i piccoli possono finalmente dismettere i panni dei “finti adulti” e diventare quello che realmente sono : bambini con desideri  e aspirazioni da bambini.
Che l’allontanamento dalla loro realtà miserabile dei bassi napoletani verso un mondo più vivibile, occasione generosamente offerta dalla popolazione dell’Emilia Romagna, sia un’arma a doppio taglio per questi piccoli, è tuttavia un fatto ineludibile con il quale essi dovranno, al loro ritorno, dopo avere conosciuto il benessere, confrontarsi immersi nuovamente in  quella vita di stenti che avevano pensato essere scomparsa per sempre.
Nell’immaginario infantile, questo ritorno è tanto più avvilente quanto più, come è il caso di Amerigo, la”famiglia di origine” è anni luce lontana dal paradiso che i bambini hanno conosciuto e abitato per sei bellissimi mesi.
Il caso di Amerigo è eclatante: l’oggetto simbolo della sua vita rinnovata , un violino che gli era stato regalato dalla famiglia di accoglienza, sparisce da sotto il letto dove lui l’aveva religiosamente custodito. La madre ha necessità di cibo e non esita a venderlo, compiendo un atto la cui conseguenza immagina benissimo ma che tuttavia ritiene indispensabile per la sopravvivenza sua e del figlio.
Le azioni compiute da Amerigo, consequenziali a questo episodio ( la fuga da Napoli alla volta di Modena, il rifugio definitivo presso quella famiglia e il ripudio della madre dopo lanascita del fratellino Agostino) lo segneranno per tutta la vita. Alla povertà e alla miseria non si sfugge:  entrambe diventano connotative nella vita di Amerigo che ne porterà i tratti per tutta la vita e non riuscirà a liberarsene neanche da adulto quando, già affermato violinista, affrancato dal bisogno, ritornerà a Napoli per un ultimo saluto alla madre morta.
Nella  quarta parte del romanzo, meno spontanea e riuscita forse delle altri tre parti, l’autrice vuole riscattare la condizione di perdita del bambino Amerigo, perdita con la quale egli ha dovuto fare i conti lungo il corso della sua vita. Per questo l’adulto Amerigo torna a Napoli nella speranza di rendere l’ultimo saluto alla madre e attraversa quegli stessi vicoli, cammina su quelle stesse pietre, riconosce i segni della sua infanzia passata che gli si rovescia addosso esattamente nella sua integrità.
Egli si difende: mente circa la sua vera identità  con chi fa le viste di riconoscerlo, mente  sul suo lavoro, mente sul suo cognome, ribadendo che lui si chiama Benvenuti, mente sul suo stato civile, mente persino sulla paternità presunta di due figli per scrollarsi di dosso quel suo passato di miseria, perché la miseria, quando la si è provata, diventa un tratto caratteristico dell’anima e si trasforma in paura che non molla mai la sua preda, pronta a ripresentarsi al solo apparire di un oggetto, di una persona , di un ricordo.
A questa paura l’adulto Amerigo vuole sfuggire ma senza successo: essa lo accompagna lungo tutta la sua permanenza in quella sua città natale.
A questo punto, il romanzo avrebbe potuto avere la sua conclusione, in coerenza con l’atmosfera evocata nelle precedenti tre parti. In tal senso in questa parte conclusiva anche l’uso della seconda persona all’interno del modificato registro linguistico , acquista un senso funzionale alla storia, perché il colloquio di Amerigo con la madre prescinde anche dal lettore ed acquista autonomia nella volontà del riscatto attraverso una muta richiesta di perdono.
Peccato che l’autrice non si sia saputa sottrarre ad una  conclusione scontata: il lieto fine che, con la probabile adozione del nipotino rimasto solo, dopo l’arresto dei genitori, lo assolve e lo salva.
Il lettore magari ne sarà felice, ma questa conclusione sottrae autenticità e coerenza alla storia narrata.


Maria Rosa

lunedì 27 gennaio 2020

Alcune foto dell'evento di venerdì 23 gennaio 2020: 
 i nostri fedelissimi lettori hanno partecipato, ci è sembrato con molto interesse, alla presentazione/analisi del romanzo di Ian McEwan " La ballata di Adam Henry".
I nostri amici, anche durante questo terzo incontro come nei precedenti altri due,  ci hanno gratificato con la loro presenza e con il loro entusiasmo, seguendo e partecipando con interesse alla presentazione del libro di cui sopra.
Il bellissimo testo di McEwan ci ha consentito di indagare le tematiche intrecciate che costituiscono il grande valore sociale ed umano dell'universo che l'autore rappresenta: il libero arbitrio, l'amore coniugale, l'applicazione della legge. Questi tre aspetti interessano le vicende della protagonista del libro Fiona Mayer, giudice dell'Alta Corte della Famiglia in una Londra contemporanea affollata e multietnica, come tutte le altre città europee, e interessata  da problemi universali che investono , in quanto tali, la vita di ognuno di noi.
Ringraziamo il personale della Biblioquartu che, come al solito, si è profuso per apparecchiare al meglio la sala riunioni.
Diamo a tutti appuntamento al prossimo e ultimo incontro  di giovedì 27 febbraio 2020 con Piccole Donne di Louisa May Alcott per l'analisi del testo e venerdì 28 febbraio 2020 per la proiezione del film.









lunedì 13 gennaio 2020




 Corso di scrittura funzionale
Programma


Che cos’è la scrittura funzionale?

Dare una definizione esaustiva di “scrittura funzionale” richiederebbe una lunga trattazione. In ogni scrittura le parole, le frasi, i periodi, hanno una funzione specifica in relazione a ciò che si vuole comunicare. Quindi, incasellare in una dicitura precisa questo tipo di scrittura non è semplice.
Tuttavia, per ciò che ci compete, nell’attività che verrà proposta qui di seguito, con questa espressione indichiamo orientativamente quella scrittura che ha come scopo principale quello di servire a esprimere con chiarezza le comunicazioni pratiche, in particolare quelle che servono per il lavoro:  relazioni,  verbali,  lettere ufficiali, comunicazioni burocratiche. Rientra in questa attività anche tutto ciò che serve per preparare appunti e schemi funzionali alla comunicazione orale sia  in pubblico che in piccoli gruppi, team di lavoro etc.
Il corso proposto mira a  sviluppare competenze comunicative principalmente tramite la scrittura ed è rivolto a tutte quelle persone che desiderano migliorare il proprio modo di esporre sia le idee generali sia le linee programmatiche di relazione comunicativa scritta attraverso cui organizzare e gestire il proprio lavoro. 

A chi è rivolto il corso?

Questo corso è rivolto a tutti coloro che vogliono migliorare e rendere più efficace il loro  modo di scrivere, specie in ambito lavorativo, dove  l’esigenza di comunicare per iscritto relazioni, lettere,  o semplici brevi  indicazioni di lavoro, richiede chiarezza nell’esposizione in modo che non ci siano ambiguità ed equivoci nella comunicazione.

Quali sono i contenuti del corso?
  • Come scrivere una lettera ufficiale;
  • Come scrivere una relazione;
  • Come scrivere una richiesta di lavoro;
  • Come scrivere un curriculum;
  • Come prendere appunti ;
  • Come strutturare una presentazione;
  • Come organizzare una scaletta di presentazione per una conferenza.



Come sono strutturati gli incontri?
  • Il corso sarà articolato in dieci incontri della durata di h 1/30 ciascuno per un totale di 15 ore complessive.

Perché il corso sia efficace sarà necessario circoscrivere le presenze ad un gruppo di otto-dodici persone.
Il corso sarà interattivo e, partendo dalle esigenze personali di ciascun partecipante, si strutturerà in maniera funzionale al raggiungimento degli obiettivi.
Nel corso degli incontri una parte del monte-ore programmato sarà dedicato alle esercitazioni laboratoriali.
I corsisti saranno seguiti anche online dalla docente attraverso una mailinglist e un servizio di messaggeria.

In quale periodo e in quale orario ?
  • Si prevede di organizzare il corso nei mesi di febbraio-marzo-aprile con cadenza settimanale. Il calendario verrà strutturato dopo la raccolta delle adesioni.
  • Il corso si attiverà solo se si sarà raggiunto il numero minimo di partecipanti pari a otto iscritti.
In quale luogo e in quali spazi?

  • Il corso si terrà presso i locali dell’associazione  Maestr’Ale -via S. Lucifero, 65 a Cagliari- che dispone di locali confortevoli e riscaldati.

Quanto costa?
  • Si richiede un contributo di 200,00 euro complessivi da versare anticipatamente all’atto dell’iscrizione. Per i soci Maestr’Ale  il contributo è di euro 180,00

Per informazioni :

e-mail: maria.giannalia@tiscali.it
cell. 3493235986

                                                                                                               La docente

                                                                                                                                                                                         Prof.ssa Maria Rosa Giannalia