giovedì 3 dicembre 2020

Al giardino ancora non l’ho detto di Pia Pera ed. Ponte alle Grazie, 2016

   Recensione di Maria Rosa Giannalia

genere: autobiografia

  

L'autrice 
Pia Pieri è una scrittrice lucida , un’intellettuale raffinata, una docente di letteratura russa informata ad un ambiente di grande levatura culturale, con frequentazioni nell’ambito del mondo letterario molto prima della scrittura di questo libro.

 Qui l'autrice si racconta in una sorta di autobiografia degli ultimi tre anni di vita, portata a termine, pochi mesi prima della morte, a causa di una forma acuta e galoppante di sclerosi multipla laterale che in pochi anni ha determinato il suo fine vita.

   La protagonista, conosciuta la diagnosi definitiva del suo male ne percepisce tutta la drammaticità in relazione non solo alla sua salute ma anche alla sua grande passione: la cura particolare del suo podere che dopo l’acquisto, ha trasformato in un giardino magnifico il quale, insieme al casolare ristrutturato, costituirà la sua dimora abituale dove progettava di vivere fino alla vecchiaia.

   Quando saprà di avere a disposizione un tempo limitato dalla sua malattia che la trasformerà in invalida soprattutto nella deambulazione e quindi inadatta a continuare personalmente a prendersi cura del suo giardino, decide di dedicare il suo tempo ad ascoltare  il suo corpo nella nuova situazione  e a sentire tramite questo il suo giardino di cui si è occupata e si continuerà ad occupare con amore e con la stessa passione che non verrà meno fino all’ultimo.

   La scelta di scrivere questo libro, quindi, consapevolmente autobiografico , la guiderà nel ripercorrere a ritroso il suo passato e ri-viverlo in relazione alla sua nuova dimensione che le dà una prospettiva diversa - quasi ribaltata- del suo passato fermandola nel qui ed ora di una visione sinottica e allargata del  presente.

   La malattia e il progressivo venir meno dell’energia vitale, conferisce alla protagonista una forza nuova, quella di  rivolgersi verso se stessa e analizzare lucidamente e razionalmente  i suoi pensieri, le sensazioni, i nuovi sentimenti, il nuovo sguardo sul criterio di bellezza:

 

Una bellezza che va rivelandosi mano a mano che, con lo spegnersi, si estingue la sicumera dell’io, l’attaccamento al mondo. Mi sento riassorbire in qualcosa più vasto di me.

 

   Ciò che stupisce anche se stessa è scoprire come la malattia  cambi la prospettiva sugli uomini e sulle cose: laddove nel suo passato attivo e veloce  percepiva la sofferenza e la disabilità degli altri come  intralcio allo scorrere della storia e del progresso dei sani, adesso , viceversa, la persuade ad un pensiero più comprensivo ed empatico della malattia sua e degli altri.

   La malattia diventa una condizione nuova di vita in cui il tempo, quello che rimane, si dilata  e favorisce una nuova percezione, con tutti i sensi, delle trasformazioni delle piante, dei fiori, dei frutti e di tutti gli animali che popolano quel suo giardino nel passaggio delle stagioni.

   E mentre osserva queste trasformazioni, la protagonista riflette: la vita, il suo significato intrinseco e anche ultimo, i rapporti affettivi, le relazioni amicali…  e tutto assume una forma nuova, più intima e lucida senza le interferenze della banalità e della fretta del quotidiano: nuove prospettive da cui osservare gli amici di sempre oppure le persone che , da sana,  aveva scartato dai suoi interessi perché non corrispondenti al suo immaginario né alla sua cultura; nuovi modi di rapportarsi con Giulio, il suo giardiniere-badante cingalese, umile e devoto, che la serve con amore; gli amici con cui intrattiene rapporti solo epistolari ma anche con gli amici della prima vita che continuano ad andare a trovarla. Un mondo affettivo ricco che non la distoglie tuttavia dalla riflessione sugli aspetti più grossolani, meno accettabili dello stuolo di medici, guaritori, massaggiatori, infermieri, cialtroni cui si è rivolta più che con fiducia, con prudente cautela necessitata dallo stato , a volte disperato, della sua malattia.

   Intraprende, quindi, la riflessione sulla morte e sulla giustezza dell’eutanasia come scelta autonoma che salva dalla sofferenza assicurando la dignità dell’essere umano.

   E ancora: la curiosità  sull’al di là, su ciò che sarà del nostro sentire, della nostra anima intesa come quel quid che ci fa amare, pensare, essere consapevoli. Un interrogarsi su quali forme assumerà la nostra coscienza e se il sentirsi parte del tutto è una prerogativa anche dell’al di qua:

 

   Una forma dell’al di là tuttavia esiste, si trova dentro di noi. Come un’intuizione che ci permette di attraversare il dato fisico quasi fosse incorporeo. Credo che somigli allo spazio infinito che, talvolta, meditando, diventa quasi impalpabile nella sua inafferrabilità

 

   E ancora l’indagine sulle religioni, quel senso intimo di religiosità che l’autrice ritiene essere comune a tutte le religioni e che ritrova anche in Pavel Florenskij :

 

…la conoscenza della divina Sapienza e l’amore per il corpo, lo sforzo ascetico e la conoscenza della Verità Assoluta, la fuga dalla corruzione e l’amore, sono lati antinomici della medesima vita spirituale.

 

   Poi, nell’ultimo anno di vita, quando la malattia si fa più perniciosa al punto da renderle quasi impossibile anche i movimenti più semplici costringendola all’uso costante della  sedia a rotelle, la protagonista infittisce i momenti di ripiegamento su di sé prendendo le distanze da tutto quel mondo vegetale ed animale che costituiva il suo ambito privilegiato di interesse. Distanza, però, che non le vieta di sentire ancora tutta la bellezza e la dolcezza della natura e di nutrirsi di essa anche solo attraverso il senso della vista tenendo salda così la corrispondenza con il suo giardino:

 

   Vorrei non perdere nemmeno un attimo di questo periodo di grazia. Sto fuori più che posso, pazienza se non lavoro tanto. I fiori dell’erba mi commuovono. Cosa dirne? Come dirlo? Tutti insieme così leggeri e aerei, nemmeno sembrano fiori. Visti da vicino sono di una grazia indicibile. Nella luce radente del sole che sta per nascondersi dietro il monte mi fermo felice a guardare, semplicemente guardare il campo di erba fiorita appena smosso dal vento.

 

   L’autrice è una raffinatissima intellettuale fine conoscitrice dei classici russi ma anche dei moderni e questa conoscenza è palpabilissima non tanto nelle citazioni che non appesantiscono mai il romanzo – ma anzi lo attraversano lievi-  quanto nell’avere assorbito e fatte sue le riflessioni che informano di sé i diversi autori oggetto delle sue letture.

   Ciò che mi aveva un po’ infastidito nel principiare della mia personale lettura di questo libro, cioè il passare dell’autrice troppo velocemente con ritmo analogico da un pensiero all’altro, dallo sguardo al giardino alle riflessioni sulla vita, dalle citazioni di un autore eccelso alla descrizione delle attività quotidiane di Giulio il giardiniere, citato spessissimo più di tutti gli altri, e delle minute descrizioni delle azioni di giardinaggio, all’insistere così preciso (maniacale?) nella denominazione puntuale di ogni pianta ed erba anche col nome latino,  verso la fine della mia lettura mi appare invece come uno svolazzare di farfalla che si va posando con leggerezza e fragilità su ogni cosa per godere e far godere dei colori  di questa natura semplice  e maestosa e della sua particolare struttura, non come  una mappa da percorrere per orientarsi ma come un  frattale per godere in ogni particolare la grandezza del tutto.

   Mi sono accorta infine che la forma narrativa di questa autobiografica, concepita forse come  diaristica, altro invece non è che l’ultimo atto d’amore col quale l’autrice prende per mano il lettore e gli dice: vieni qui con me, guarda com’è bello il mondo, quanta dolcezza c’è nella natura, quanto amore nell’amicizia, quanta leggerezza nel sapere sorridere  talvolta di tutta la nostra stessa vita che altro non è se non un momento dell’eternità in cui tutti siamo destinati  a ritornare in un unicuum che è infine la nostra essenza e felicità.

 


 

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