venerdì 26 dicembre 2014

Babbo Natale: chi è costui?




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Notte di Natale, 24 dicembre 2014, ore 22.30. Abbiamo appena finito di mangiare , le bambine hanno portato in tavola il tiramisù in minuscoli calici di vetro.
E’ l’ora di consegnare i pacchi con i regali a tutti e quattro i bambini presenti. Per la fretta non si è riusciti a sistemarli per tempo sotto l’albero. Sono ancora nascosti nello sgabuzzino su in terrazzo. Breve consulto tra i genitori: si decide di distrarre i bambini, di andare a prendere tutti i pacchi regalo e disporli dietro la porta d’ingresso dell’appartamento. Si conviene che uno dei genitori provveda a bussare all’uscio e a quel punto si inviteranno i bambini ad aprire la porta a Babbo Natale e prendere i regali.

Costanza, quattro anni, è incuriosita:
- Ma chi è che ha bussato?
-Babbo Natale!- dice la mamma.
-Babbo Natale?- Costanza inizia a piangere, corre e va a nascondersi dietro il divano.
-Ma  Babbo Natale ha solo lasciato i regali, non c’è più alla porta, ha lasciato solo i regali e se n’è andato via, non ti preoccupare!- continua la mamma.
- Ma perché se n’è andato via? – fa Costanza- non entra?-
-No, porta solo i regali, ma non entra nelle case e non si fa vedere dai bambini.
-Perché non si fa vedere?
-Ma perché deve portare un sacco di regali a milioni di bambini, non può fermarsi in ogni casa-
-Ma come fa babbo Natale ad arrivare in tutte le case di tutti i bambini?
-Ha una slitta magica: è velocissima e lo porta dappertutto.
-Ma da dove arriva Babbo Natale , dov’è la sua casa?
-La sua casa è in un paese freddo freddo al polo nord dove c’è un sacco di neve.
-Ma dove li mette tutti questi regali? Come fa a caricarli tutti sulla slitta?
-Babbo Natale è magico, ce li fa stare tutti.
-Ma questo Babbo Natale legge tutte le lettere di tutti i bambini?
-Certo, altrimenti come fa a portare i regali richiesti?-
E se li ricorda tutti? Non li scambia?
-No se li ricorda tutti, perché è magico.
A questo punto i bambini iniziano a scartare i regali: ce ne sono due, tre per ognuno. Per terra si accumulano nastri e carta colorata in un grande mucchio. I bambini guardano e commentano.
- Ecco, Babbo Natale non mi ha portato quello che gli avevo detto io!- Costanza inizia a piangere a dirotto.
- Ma vedrai, avrà lasciato altri regali a casa di nonna, perché babbo Natale va anche a casa dei nonni a portare altri regali. Magari il regalo che hai richiesto, lo troverai lì- dice la mamma per consolarla.
Poco convinta, Costanza smette di piangere. Rigira tra le mani un’ enorme scatola di cento colori e un pacco più piccolo con un bellissimo vestitino. C’è ancora un pacco da scartare. Lo scarta e tira fuori un album colorato da disegnare. Lo prende e si avvicina alla mamma:

- Ma questo io non l’avevo proprio chiesto! Restituisciglielo, si vede che ha sbagliato!- e se ne va.

domenica 9 novembre 2014

In questa pagina alcuni link che rimandano alle mie pubblicazioni professionali on-line


La formazione dell'insegnante di lettere, Maria Rosa Giannalia  in "Vibrisse", blog curato dallo scrittore Giulio Mozzi




Lo studio della Divina Commedia e l’ora di “religione” a scuola

di Maria Rosa Giannalia     nella rivista del C.I.D.I. "Insegnare"

"O Capitano, mio capitano" Ricordando Robert William

Riflessioni di alcuni docenti di lettere delle scuole superiori

nella rivista del C.I.D.I. "Insegnare"


Percorso interdisciplinare

Le corti italiane del Rinascimento 

A cura di Maria Rosa Giannalia 
nella rivista "Perlascuola" Bruno Mondadori editore



Incontri ravvicinati con i custodi della legge

di Maria Rosa Giannalia

nella rivista del C.I.D.I. "Insegnare"



di Maria Rosa Giannalia
nel sito  del Liceo scientifico "G. Brotzu" di Quartu Sant'Elena









sabato 8 novembre 2014

Contratti vantaggiosi








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Torno nuovamente, ma solo per una brevissima nota, sulla questione della telefonia mobile.
Ho un contratto con Wind, molto vantaggioso, o così mi sembrava fino alla settimana scorsa. Allettata dall’offerta dei 500 minuti con tutti+ 100 sms,  alla modica cifra di 10 euro mensili, mi sono convertita a Wind, dopo un laborioso divorzio da Vodafone dal quale mi ero bruscamente separata a causa di un gravissimo, secondo me, inganno reiterato per un lungo periodo durato ben tre anni.
A questo punto, con quest’altro gestore, mi sentivo al sicuro. Il contratto con Wind vincolava entrambi a non variare più la cifra pattuita e riportata nel contratto. I minuti , pensavo, sarebbero stati di molto sovradimensionati rispetto alle mie necessità, non essendo mai stata  una patita della telefonia mobile, e non avendo, di conseguenza attivato nè WhatsApp nè altre applicazioni.
Gli amici e le amiche preferisco incontrarli per una lunga ( o breve, dipende dall’umore) chiacchierata al caffè o nel salotto di casa mia. O al più scrivendo loro (e ricevendo) lunghe e-mail che hanno il potere, senza il vincolo dell’ora, di essere piacevoli e, a volte, consolanti.
L’uso modico, a meno che non ci siano urgenze, non mi sollecita neppure ad avere il cellulare sempre a portata di mano, tanto che spesso me ne scopro priva proprio nel momento del bisogno. Ma non importa. Preferisco la mancanza che la dipendenza.
I messaggi che ricevo però sono molti ma molti di più di quelli che invio. C’è stato un tempo, confesso, che al segnale della ricezione di un sms, qualsiasi cosa stessi facendo, interrompevo tutto per andare a vedere chi avesse sentito la necessità di cercarmi. A volte anche nelle ore notturne.
E dopo avere scoperto che tutte queste comunicazioni urgenti arrivavano dalla Rinascente, dalle stessa Wind, dall’altro gestore tradito e abbandonato, da una famosa ditta di abbigliamento ( cui incautamente ho lasciato il mio numero di cellulare) e da almeno altre quattro aziende similari, ho scoperto che forse non era tanto il caso di dare modo a tutte queste aziende di allietare le mie giornate intervallando le mie attività con i loro gentili messaggi pubblicitari. Anche nel loro interesse, dico. Perché io sono veramente allergica a qualsiasi forma di pubblicità che , su di me, ha l’effetto esattamente contrario. E certo, quindi, non ne avrei mai fatto buon uso.
Tornando al dunque, cioè al conveniente contratto succitato, almeno pensavo di potere dormire sonni tranquilli. Pensavo. Fino a quando non ho dato uno sguardo più attento del solito ad uno dei numerosi messaggi che il mio gestore mi invia puntualmente a fine mese, quando, in automatico, mi sottrae i 10 euro, come da contratto, per il rinnovo dell’abbonamento.
Nel primo messaggio trovo scritto: Wind rinnova l’offerta di 500 minuti  mensili al costo di 9 euro e poi (altro messaggio) Wind rinnova 100 sms al costo di 1 euro mensile. Scadenza 3 novembre escluso.
Escluso? Ma come? Mi pare di avere stipulato il contratto il nove del mese del  maggio precedente e non il tre.
Telefonata immediata al 155 giusto per chiedere lumi. Magari, penso, sono io a non ricordare bene. Voglio  controllare, così per scrupolo.
Finalmente, dopo tante scelte sbagliate tra le innumerevoli opzioni proposte dal risponditore automatico e da me descritte in un precedente  post sullo stesso argomento, finalmente trovo l’operatore di turno che, bontà sua, è disposto ad ascoltarmi e, soprattutto a capire ciò che mi preme sapere. Mi ritengo fortunata  solo per questo.
Scopro così che: il mio contratto stipulato il 9 di maggio 2014 scade esattamente l’8 giugno, perché il 9 è escluso, e così anche il successivo mese l’abbonamento scadrà il 7 e poi il 6 e poi il 5 e poi il 4 e finalmente arriviamo ( il plurale si impone perché la ricerca è stata compiuta insieme al gentile operatore di nome Roberto) a scoprire il perché del 3 novembre, l’unica data che ho controllato.
Ne deduco che nel giro di trenta mesi, Wind si incamera un mese pagato e non fruito da me e, ovviamente, da tutti gli altri clienti che hanno stipulato, come me, lo stesso vantaggioso contratto.
Roberto non ha dubbi sulla giustezza di questi calcoli da parte di Wind e si meraviglia molto della mia meraviglia, quando gli rendo noto che il mese citato dalla pubblicità, lo avevo inteso come mese, cioè un insieme di trenta o trentuno giorni con l’unica eccezione di febbraio.
Quanti saremo tutti i clienti che godiamo del privilegio di questo tipo di contratto? Io non lo saprò mai, ma Wind sì, soprattutto all’atto del bilancio dei profitti annuali.

E noi? Noi, al solito, siamo sempre contenti.  

domenica 26 ottobre 2014

Presentazione del libro di poesie di Bianca Mannu "Il silenzio scolora"


Presso l'Università della terza età di Cagliari, il 24 ottobre 2014 è stato presentato il libro di poesie di Bianca Mannu "Il silenzio scolora" ed. Mariapuntoru, Cagliari.
Nelle foto: La poetessa Bianca Mannu, i due relatori Maria Rosa Giannalia e Carlo Onnis e l'editore Giampaolo Salaris.







Nella foto  la copertina del libro.



Presentazione del libro
(dalla pagina introduttiva de "Il silenzio scolora")


Il silenzio scolora

Presentazione

Il titolo emblematico “Il silenzio scolora” di questa nuova silloge che Bianca Mannu propone al pubblico dei lettori, rimanda ai temi di tutte e  sei le sezioni dell’opera: la sovversione  indotta dall’amore che erompe d’improvviso nella vita di una donna e l’assenza.
Se infatti, l’amore è l’oggetto di tutte le poesie presenti in questa raccolta, è l’assenza il fulcro attorno al quale si sostanzia l’insieme di emozioni e sentimenti di cui la poetessa ci vuole parlare.
Il sentimento primordiale dell’amore  si affaccia prepotente nella sezione incipitaria Preludi,  già presente  in nuce nella donna-bambina  attraverso l’immagine dell’uomo-padre. La stessa bambina che, affrancatasi da tale immagine, porta successivamente a maturazione la sua femminilità insieme all’ineluttabile accettazione, condizione ad un tempo di privilegio per la capacità di scavo emotivo e di sofferenza per la situazione di perenne attesa cui questo sentimento prorompente la destina.
Nella prima sezione,Come inatteso, l’irruenza con la quale si presenta l’amore ( Di colpo. Come una traccia opaca/ nel flusso aurifero del sole…/ s’iscrive la tua assenza) con il  suo irrompere improvviso nel quieto trascorrere dei giorni, crea nell’immaginario femminile un desiderio che, destinato a essere continuamente disatteso, determina uno spazio nuovo, ma uno spazio di assenza, cifra e senso al di là dei quali non può più essere ripristinato il primitivo trascorrere esistenziale. Tale spazio marcherà per sempre la scansione temporale  e non  consentirà all’io lirico di ripararsi da questa prorompente presenza-assenza se non nel canto poetico. Ed è questo canto che può mostrare e dimostrare le attese femminine del rapporto amoroso nel desiderio atteso e disatteso di accogliere e trattenere il corpo dell’altro in perenne ricerca di unità di Eros e Anteros ( Se la calce t’infiora viso e mani / del candore amaro dei pruni- t’amo…) E ancora, la tenerezza e la fragilità con le quali la donna si avvicina ad accarezzare il corpo amato ( …Di ciò che è stato/ avanzerà graffita una scrittura /-vaga- su un pezzo d’umana eternità ) non potranno avere altro esito se non quello della trascrizione poetica in pagine  destinate anch’esse a trasformarsi in una fiaba buona per essere narrata ai piccoli che  sapranno mutarla in flotte di pallidi velieri - per solcare/ in sogno gli acquitrinosi mari dei cortili.

sabato 25 ottobre 2014

Due novembre



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Hanno reciso ai cipressi
la malinconia
e spandono ora sentore
di giardino
nel plumbeo cielo di febbraio.

Nelle stradine le tombe
si affacciano festose
di fiori e foto ovali
donde ognuno racconta
silenzioso la sua storia.

E accade che il giovane
schiantato dagli improvvidi
suoi anni
parli di sé con noi                                                                                                 
insieme al vecchio ciabattino
dei miei sei anni
quando ignara
mi aggiravo col vestito della festa
tra tombe e fiori
a mostrare alla nonna
la mia borsetta nuova.

Mostra di sé fa ancora
l’uomo di  potere
che dall’oro sepolcrale
delle lettere del nome
fu crudamente ristretto
in un sintetico A.no.


E il poeta assertore e cantore
di virtù mi guarda
ignaro di me che lo ricordo
nel fulcro dei suoi anni
coraggiosi
e forse ancora crede
(chissà)
nel riscatto di questa
sua città.

Ancora…un bimbo sgrana
dall’ovale di porcellana
gli occhi azzurri e grandi
con insolita speranza 
in questo sito

La bellissima signora
con gli occhiali
di metallo dorato
mi guarda
incredula anche lei
di esser là
e dietro ai finti fiori rossi 
sorride perché
nessuna angoscia ormai
la tocca più

e rimbombano i miei passi
solitari
nella discesa
donde si scorge il mare
 nel cielo opalescente
in fondo eterno uguale.



domenica 12 ottobre 2014

Dei rumori molesti e di altre idiozie




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Saranno forse le tecnologie a salvarci la vita? O quanto meno a preservarla? Suppongo di sì. Non potrei pensare altrimenti, vista la profusione di macchine elettroniche molto sofisticate, impiegate un po’ in tutti i settori, specie in medicina e bioingegneria. E nella vita quotidiana. Credo che nessuno di noi potrebbe più vivere senza cellulare o senza tablet. Siamo tanto abituati a fruire di queste apparecchiature, che difficilmente potremmo pensarcene privi. Anzi proprio non concepiamo più la nostra vita senza di essi. Che fine farebbero se no le reti di relazioni che siamo stati capaci di intessere durante tutta una vita? Finite. Dimenticate. Nel giro di qualche settimana nessuno si ricorderebbe più di noi.
Per questo ci si frequenta sempre più in chat e wats app che in presenza. Non c’è più bisogno della presenza fisica, se non, forse, quando si va al ristorante. Capita così che quattro-sei persone si diano appuntamento intorno ad un tavolo al ristorante o in pizzeria, con l’intenzione ( io penso) di scambiare quattro chiacchiere, magari anche di farsi quattro risate, raccontando episodi buffi della propria vita e di quella altrui. Ma, una volta sedute, le persone non parlano. Digitano. Guardano con concentrazione un piccolo schermo. Ciascuno seduto al proprio posto. Capita anche che qualcuno accenni ad un vago ,breve, spezzettato discorso. Ma la voce si deve fare spazio attraverso le note di canzoni rock o melodiche, a seconda dei gusti  dei ristoratori, o tra le voci agitate e sincopate dei presentatori televisivi. Il tutto ad altissimo volume. Una volta sono entrata in un caffè. Era un caffè elegante, vicino al mare, arredi bianchi, cuscini color sabbia, piante mediterranee intorno al terrazzo di legno che affacciava sulla spiaggia pulita e, in fondo, il mare appena lucidato a nuovo dal maestrale. Ecco, questo posto mi piace, il solo rumore è quello del vento tra le piante e il brontolio in lontananza dell’acqua. Mi voglio fermare qui. Non c’era nessun avventore oltre a me. La sala bar era completamente vuota. Mi fermai per circa un’ora, lessi una buona parte del libro che avevo con me. In tutto questo scorrere di minuti, non erano entrati che quattro, forse sei persone e non si erano trattenute a lungo. Mi colpì il silenzio. Era bello quel silenzio, invitava a parlare con se stessi. I tre camerieri erano dietro il bancone, parlottavano tra di loro sommessamente. L’avevo subito eletto a unico mio luogo per  i pochi momenti da dedicarmi. Mi piaceva. Questo avveniva tre anni fa. Seppi, più tardi, che quel locale era stato appena aperto al pubblico. Ci sono ritornata all’inizio di quest’estate: l’arredo, i tavoli, la spiaggia, il mare, erano gli stessi, ma era il locale nel suo complesso a non esser più lo stesso posto che avevo apprezzato io: una serie di canzoni a tutti decibel impediva il benché minimo colloquio con tutti, anche con se stessi. E così ho capito. Ho capito che i luoghi pubblici non sono fatti per il benessere , appunto, del pubblico. Anzi di ciascuno di noi, in quanto individui, non gliene importa niente a nessuno, né ai proprietari, né ai fornitori dei locali stessi. Anzi sono quest’ultimi che impongono il dio assoluto dei nostri tempi, il consumo di beni materiali e immateriali, per indurci ad ulteriori altri consumi. Altro che curarsi del nostro benessere o dei momenti che  ci riserviamo ogni tanto per fare il punto della nostra esistenza e ricaricarci con delle piccole pause! Se pause ci devono essere che siano pause sonore, pause senza  soluzione di continuità tra i rumori degli ambienti di lavoro, famiglia e altro e i rumori costanti e indifferenziati dei locali. Stai qui, mangia, bevi, ascolta musica (musica???) PAGA e vattene. Non hai diritto alla parola. Non devi avere niente da dire. Non abbiamo bisogno delle tue opinioni. Anzi, sai che ti diciamo? Neanche tu hai bisogno delle tue opinioni. Non ti devi stare a sentire. Tanto ti dici solo sciocchezze. Quindi è inutile che perdi del tempo per noi preziosissimo. Il tempo che tu passi in questi pensieri oziosi, per noi è tempo perso. Tempo che non ci fa guadagnare. Quindi tempo sprecato.
Questo vale ovviamente per qualsiasi locale pubblico. Avete mai fatto la triste esperienza di finire in un pronto soccorso di qualsiasi ospedale? Io sì. E’ vero, non sono proprio tutti come quelli che adesso descriverò, ma sono sicura che nel giro di qualche anno, lo diventeranno.
Si presume che al pronto soccorso ci si vada perché si sta proprio tanto male che si ha urgenza di ricevere un soccorso immediato. Niente di più falso. La sala d’aspetto è organizzata esattamente per tempi di attesa variabile dalle due ore all’intera giornata. E infatti come sono arredate queste sale? Quando ci si arriva, sembrano persino confortevoli: oltre alle sedie anatomiche in numero molto abbondante, ci sono le macchinette distributrici di bibite e bevande, come se uno, completamente preda di dolori atroci, piegato in due dallo strazio fisico e mentale, dica tra sé e sé: toh, adesso mi faccio un caffeuccio, così, tanto per ingannare l’attesa. Chissà se il dolore, spaventato dal caffè nero, deciderà di lasciarmi in pace! Ma per un conforto ancora maggiore, se non bastassero  caffè,  tè , acqua minerale,  bibite,  merendine, cosa c’è posizionato in bella vista  a troneggiare nella parete più grande della sala? Un MAGNIFICO TELEVISORE che, nel caso in cui non fosse sintonizzato su i TG dei diversi canali nazionali che ci inondano di pessime notizie, così tanto per tiraci sù il morale, ci spara musica a tutto volume! Musica che spazia dai rapper con annessi video, alle canzoni dei gruppi rock che più sono di successo e più assordano i malcapitati pazienti. I quali sono costretti ad esercitare la loro pazienza fino al massimo grado di  tollerabilità.
In queste situazioni io mi sono trovata più volte. Ma la cosa  alla quale non ho mai saputo darmi risposta è questa: ma come fanno i consigli di amministrazione degli ospedali che lamentano scarsità di risorse, a dotare tutte le sale di televisori? Ma perché devono darsi pensiero di alleviare le nostre sofferenze mentre attendiamo di essere ricevuti da un medico?
Vi prego, ve lo dico da questo post, non datevi questo pensiero per noi. Lasciateci ai nostri dolori, alla nostra attesa silenziosa. E se proprio volete aiutarci…liberateci da questi mali aggiuntivi. Riceveteci al più presto e curateci come si deve! Senza licenziarci immediatamente dopo avere distrattamente e di mala voglia ascoltato i nostri bisogni.



mercoledì 13 agosto 2014

Il giudice e il suo boia

Friedrich Durrenmatt- Il giudice e il suo boia- Universale economica Feltrinelli -  Milano 2002
pp.109.

Di genere poliziesco, questo romanzo breve di Durrenmatt  si snoda  nell’atmosfera grigia e fredda di una Svizzera invernale poco accogliente e per niente oleografica, come spesso siamo abituati a pensarla.
Il protagonista della storia, l’ ispettore Barlach, alle prese con le indagini sull’omicidio del tenente della polizia di Berna, ispettore Schmied, è vecchio e malato e animato da un unico desiderio professionale e di vita: mandare in galera un certo Gastmann, uomo altolocato, sostenuto da una rete di relazioni importanti che spaziano dal campo del commercio internazionale, alla politica e alla cultura. Uomo intraprendente ma malavitoso, colpevole di numerosi omicidi per i quali non si sono mai trovate prove.
Barlach ha giurato a se stesso di incastrarlo e prima della sua morte, che il suo amico medico Hungertobel ha previsto da lì a qualche anno, costruisce una tela ampia e sofisticata per realizzare il suo obiettivo. Ma sulla sua strada intervengono degli imprevisti, nonostante i quali l’ispettore, carico di anni  e di esperienza, riesce tuttavia a realizzare il suo  intento.
Durrenmatt in questo suo breve romanzo dà un saggio del suo talento magistrale nell’architettura di un giallo che, nella sua asciuttezza e linearità, nulla lascia alla ridondanza né ai pretesti e ornamenti letterari che in molti romanzi del genere citato, più che allontanare il lettore dalla soluzione del caso, agiscono come espedienti per distoglierlo dall’intreccio e sviarne l’attenzione.
Viceversa Durrenmatt avvinghia il lettore costringendolo all’attenzione più totale al suo testo, nulla concedendo alla divagazione ma, di contro, invitandolo ad esercitare logica e raziocinio per condurlo sullo stesso piano della scrittura. Il lettore così avvinto, viene inchiodato alla pagina scritta fino al disvelamento finale, dove nulla viene tralasciato e ogni oggetto, ogni personaggio, ogni azione trova ragion d’essere nella narrazione coesa e compatta della storia.

Pochi gialli di autori, a noi più vicini, possono vantare lo stesso grado di coerenza tra tutte le componenti stilistiche, retoriche e di intreccio simili a questa di Durrenmatt. L’estrema letterarietà del breve romanzo non inficia la scorrevolezza né il piacere della lettura. Al contrario la qualità dello stile, lo stesso che ritroviamo in altre opere dello stesso autore, è il mezzo attraverso il quale il lettore, anche il meno letterariamente avvertito, può penetrare nei meandri della costruzione archetipica della vicenda e comprenderne le ragioni profonde e motivanti. Da leggere senz’altro anche ad agosto.

lunedì 7 luglio 2014

Alcune riflessioni a caldo...

Condivido qui di seguito l'articolo :

Alcune riflessioni a caldo...


nella rivista on-line INSEGNARE direttore Mario Ambel


Alcune riflessioni a caldo...

di Maurizio Muraglia, Maria Rosa Giannalia
Pubblichiamo alcune considerazioni sul "Piano per la scuola" lanciato in questi giorni dagli organi di stampa...Pubblichiamo alcune considerazioni sul "Piano per la scuola" lanciato in questi giorni dagli organi di stampa...

Qualche domanda pertinente...
Perché il Governo si accinge a varare un piano sulla scuola? Da quali problemi muove? Razionalizzazione della spesa? E in funzione di che? Proviamo a dare una risposta. Gli apprendimenti dei nostri alunni sono insufficienti. Se questo è il problema all’origine dei problemi vediamo di capire se le ipotesi che vengono elaborate sull’organizzazione del lavoro docente servono ad affrontarlo e risolverlo. Ma forse occorre ancora un altro passaggio, diagnostico. A che cosa bisogna attribuire l’insufficienza degli apprendimenti? A una carenza di formazione? A una carenza di impegno? Parliamone.
Il lavoro docente è un mix di motivazione e di competenze. Perché ne aumenti la qualità probabilmente occorre incidere su entrambi gli indicatori che si influenzano reciprocamente (se sono motivato sono bravo e se sono bravo sono motivato) e quindi bisogna vedere se l’ipotesi governativa allo studio è capace di produrre effetti a questo livello. Per esempio, potrebbe influire positivamente la permanenza a scuola per 36 ore? E in quale “scuola”? Ovvero: quali sono i luoghi della scuola che possono consentire a tutti i docenti che non sono in classe di fermarsi a lavorare? Biblioteche? Sale professori? Aule specializzate? E anche in presenza di questi spazi alternativi all’aula, cosa farebbe un insegnante di diverso che a casa propria? Preparerebbe lezioni e correggerebbe compiti? E si direbbe che lo fa bene perché lo fa a scuola con un cartellino timbrato? Chi garantisce che questo lavoro compiuto a scuola inciderebbe positivamente sul mix di motivazione e competenze?
L’incentivo economico. Pare che riguardi chi assume incarichi di coordinamento. Bene. E il fatto che guadagni di più chi è impegnato in ruoli organizzativi in che misura influisce positivamente sul famoso mix, che è poi ciò che incide direttamente sugli apprendimenti dei ragazzi? Ancora. Qualcuno si ricorda che a scuola l’insegnamento è un’impresa collettiva? E che gli apprendimenti dei ragazzi migliorano in virtù del miglioramento di un team? E se nel team c’è quello che si “limita” alle 18 ore accanto a quello che “vuole” fare di più e che per fare di più è costretto a dedicare meno tempo alla didattica come la mettiamo?
Maurizio Muraglia

Le vere priorità
L’articolo di la Repubblica del 2-07-2014  riferisce con chiarezza quali sono le proposte per rivoluzionare il piano orario delle scuole e garantire un’efficienza nel servizio educativo e di formazione dei giovani. Desidererei qui analizzare la questione passo passo per capire, io per prima, in che cosa consisterà questa riforma e quali e quanti saranno i vantaggi di cui beneficeranno gli studenti italiani nel prossimo futuro.
Desidererei qui analizzare la questione passo passo per capire, io per prima, in che cosa consisterà questa riforma e quali e quanti saranno i vantaggi di cui beneficeranno gli studenti italiani nel prossimo futuro.
Trentasei ore di docenza per tutti. In effetti si parla di “docenza”, vale a dire, con le metodologie messe in atto finora, ivi comprese le tecnologie (LIM in tutte le aule, supporti telematici, aule speciali…), che al docente si chiederà di restare in classe o in laboratorio per 36 ore settimanali con la stessa retribuzione.
Analizziamo in cosa consista la “rivoluzione oraria”. Tutti noi docenti sappiamo molto bene che le lezioni vanno preparate adeguatamente alcuni giorni prima della lezione vera e propria. Nel caso, per esempio, dell’uso della LIM ormai entrata nella prassi ordinaria della metodologia didattica (finalmente!),  tutte le lezioni devono, per essere veramente efficaci, essere strutturate nel merito e nel metodo. Vale a dire , facendo un esempio specifico, che, se un docente di italiano deve strutturare per i suoi alunni una lezione, poniamo, sull’uso dei tempi  del modo indicativo, dovrà strutturare:
- una lezione attraverso esempi ben scelti e finalizzati alla classe specifica, tenendo conto di tutte le variabili previste dal caso (alunni con BES, alunni con disagio, differente preparazione degli alunni di quella classe ecc.), per fare in modo che, attraverso l’uso della LIM, tutti gli alunni comprendano l’argomento proposto;
- strutturare delle esercitazioni, auspicabilmente sempre attraverso la LIM, per tutti gli studenti differenziandole per livelli, e proporle alla classe per una durata di almeno un’ora successiva alla lezione succitata.
Quindi, per due ore di attività in classe, necessitano circa quattro ore di preparazione dei materiali. A me, dunque, docente di qualsiasi classe, va benissimo una dilatazione delle ore da potere investire nella preparazione del mio lavoro. Anzi, oserei dire, mi va meglio.  E in tal senso non solo vedrei molto favorevolmente le trentasei ore, ma a queste aggiungerei anche delle altre (pagate come ore di straordinario) che mi consentano di:
- rimanere a scuola a prepararmi le lezioni, a correggere i compiti degli alunni;
-usufruire dei mezzi informatici messi a disposizione dalla struttura scolastica;
- usufruire eventualmente di una mensa che mi eviterebbe di uscire dalla scuola e andare a fare una pausa pranzo a casa (o un semplice buono-pasto da spendere in una tavola calda, così come avviene per tutto il comparto del pubblico impiego);
- confrontarmi con i miei colleghi per avere un riscontro metodologico e ottimizzare il lavoro da svolgere all’interno del consiglio di classe;
- poter pianificare il mio lavoro all’interno di una programmazione generale delle diverse discipline con l’intero consiglio di classe. programmazione che finalmente, come accade nella maggior parte dei casi,  non sarebbe più il farsesco elenco di obiettivi e metodologie che si propina tutti gli anni cambiando solo la data;
-poter concordare con i miei colleghi strumenti e metodi per una valutazione efficace non punitiva ma di monitoraggio meta cognitivo e quindi di miglioramento;
-studiare, magari in gruppi di lavoro per materie affini, nuove metodologie di intervento didattico;
- scegliere e pianificare con i colleghi metodologie didattiche adeguate che tengano conto delle differenze presenti nelle classi di riferimento.
Se mi fosse permesso di fare tutto questo lavoro preparatorio che è lo strumento essenziale per potere effettivamente migliorare l’offerta formativa mia e dei miei colleghi, non solo sarei disposta a lavorare 36 ore  a settimana, ma anche di più.
Cosa propone invece il ministro?
Le trentasei ore andrebbero solo a coprire le eventuali assenze dei docenti, facendo svolgere agli altri docenti non delle attività didattiche secondo quanto sopra descritto, bensì delle semplici “presenze” tali da assicurare la vigilanza in classe, come d’altro canto è stato sempre fatto nei casi di emergenza.
E allora mi chiedo: forse farebbero meglio i nostri decisori politici a dirci chiaramente come stanno le cose senza farcele intuire attraverso i bizantinismi propositivi. Si legge infatti nell’articolo:“i risparmi nelle supplenze interne possono garantire investimenti nei premi ai più disponibili e nell’offerta formativa”.
In che cosa dovrebbe consistere questa maggiore disponibilità dei docenti? Quali attività dovrebbero svolgere in più e più qualificata rispetto al loro specifico ruolo che è prioritariamente quello di formare culturalmente i giovani?
Perché, stando alla normativa attuale, tutte le attività di supporto organizzativo, hanno già una loro collocazione precisa nelle cosiddette figure strumentali e negli incentivi alla collaborazione al team di dirigenza. E allora?
Aspetto di sentire e soprattutto di leggere con chiarezza in un testo di legge quali siano queste attività da premiare.
Le uniche attività da premiare sarebbero quelle che vanno al di là dell’attività sopra esposta, ma quali? Non sono certo quelle di impegnarsi nel ricevimento dei genitori o nel supporto psicologico agli alunni o ancora in altre centomila attività da “inventare” per dare visibilità ai dirigenti e alle autorità degli enti locali.
Sarebbe auspicabile viceversa dare la possibilità reale a tutti i docenti di svolgere bene il proprio ruolo attraverso un aggiornamento e una formazione seri e soprattutto obbligatori per tutti e non solo per chi ne abbia voglia. Qui sta il nodo della questione: la formazione obbligatoria dei docenti. É in tal senso che bisognerebbe investire e incentivare anche i docenti stessi. E se la formazione diventa tale e se soprattutto viene fatta in modo serio e scientifico, non ci sarà certo bisogno di programmare altre ore destinate a chissà quali altre attività.
Credo che i docenti oggi si aspettino di essere messi nella condizione di fare bene il loro mestiere, che è quello di aiutare i giovani nella loro formazione culturale e nell’acquisizione degli strumenti che li pongano nella condizione di essere “critici” nei confronti della società e di “scegliere” in autonomia i loro percorsi futuri.
Ma tutto questo costa. E costa molto. E in questo senso le risorse messe in campo non sono mai state veramente all’altezza del compito Né lo saranno, viste le premesse, neppure questa volta. Infatti non si parla di nuovi investimenti ma solo di risparmi. Intanto, per capire meglio le intenzioni programmatiche, aspettiamo per il momento di vedere quali saranno gli interventi annunciati ma ancora non avviati per la ristrutturazione delle scuole fatiscenti.
Per citare solo un piccolo esempio: a Cagliari lo storico liceo classico "Dettori" ha visto crollare il soffitto di un'aula. Risposta delle autorità preposte? Evacuazione dell’edificio e ospitalità in altre strutture scolastiche ospitanti per tutti gli alunni. L’edificio è ancora lì che attende.
Maria Rosa Giannalia


giovedì 3 luglio 2014

Ancora...il Caffè del Parco






Non si può più fare finta di nulla. Anche il comitato di quartiere cittadino se ne sta già occupando. Non è veramente tollerabile che questo abominio venga ancora perpetrato nel cuore del nostro quartiere di Pitz’e serra. Altri due articoli in questo stesso blog hanno mostrato lo stato di devastazione in cui versa il Fu-Caffè Del-Parco. Come si vede dalla foto, adesso alla spazzatura, all’erbaccia, al giardino incolto, si sono aggiunti le rotture vandalistiche dei vetri, coperti pietosamente con cartoni di recupero.
Il Sindaco Mauro Contini aveva già risposto al primo articolo del blog su questa questione, assicurando che la struttura del caffè del parco sarebbe stata messa in vendita. Quello che però vogliamo chiedere è: a quale cifra è stato messo in vendita? E’ una cifra abbordabile per una piccola cooperativa di giovani? O piuttosto dobbiamo pensare che la struttura venga lasciata marcire a bella posta per non si sa quanto altro tempo in modo che poi si possa cedere al miglior offerente per un piatto di lenticchie? E poi ancora: il giardino deve restare così abbandonato alla mercé dei vandali che non aspettano di meglio che distruggere quel poco di buono che ancora resta?
Il comitato cittadino deve farsene carico, bisogna portare  a conoscenza dell’autorità municipale con la dovuta evidenza questa vergogna. Credo che tutti noi, abitanti del quartiere, avremmo molto interesse a che tale questione venga risolta nel più breve tempo possibile. E se non si riesce a vendere subito ( chiediamo  informazioni circa l’ordinanza municipale in cui si possa vedere questa offerta di vendita con regolamentare cifra richiesta), che almeno si curi un po’ l’aspetto del giardino che è di proprietà comunale e si impedisca in qualche modo che altri atti di vandalismo vengano compiuti ai danni della cittadinanza.

Per tutto questo e per altri problemi di carattere ecologico e di civile convivenza cittadina, chiediamo al comitato di quartiere di intervenire con la sensibilizzazione dei cittadini e con un’eventuale raccolta di firme in calce ad un documento di denuncia di questo stato di colpevole abbandono in cui versa il caffè del parco.

domenica 22 giugno 2014

A proposito di scuola

A proposito di scuola, qui un link che rimanda ad un bell'articolo uscito su "Periodico Libero pensiero"
che parla della considerazione che il liceo classico gode nell'attuale panorama del MIUR:

leggere qui 


A proposito dell'insegnamento della DivinaCommedia, rimando ad un mio articolo apparso su INSEGNARE, rivista del C.I.D.I.
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domenica 15 giugno 2014

Oculisti



 La foto viene da qui



Alcuni mesi fa ho avuto problemi agli occhi. La retina del mio occhio destro ha cominciato a dare forfait. Ad una prima visita oculistica si sono evidenziate diverse rotture.
La mia prima oculista che mi aveva in cura da tempo privatamente, mi ha indirizzato, per il barrage laser delle rotture della mia retina, presso l’ospedale S. Giovanni di Dio a Cagliari, città in cui vivo. Dopo alcuni trattamenti e  tre o quattro barrage laser, la mia oculista è andata in pensione e  per rincuorarmi mi ha affidato al personale dell’ospedale. Il quale mi ha curato come ha saputo. Gli specialisti che si sono avvicendati sul mio occhio non sono in pratica riusciti a barrare tutte le diverse rotture di retina all’occhio destro. Mi hanno quindi fatto visitare dal primario il quale, dopo una visita sommaria,  ha dato il suo referto inappellabile: vitrectomia. Da fare subito!

Non sapevo esattamente di che si trattasse, quindi, abbastanza serena,  sono andata negli uffici amministrativi dell’ospedale per farmi fare l’impegnativa per l’intervento. Ero fiduciosa. Si trattava, mi aveva rassicurato il primario, di un intervento abbastanza ordinario.
Con le pupille dilatate dall’atropina non sono riuscita a leggere immediatamente l’impegnativa e i termini dell’intervento, ma,  una volta a casa, passato l’effetto, ho dato uno sguardo al foglio: primo errore! Qualcuno dalla firma illeggibile, aveva indicato come elemento di intervento l’occhio sinistro anziché il destro.
E’ chiaro che la mia fiducia nella competenza del personale medico, subisce già un primo crollo. Voglio vederci più chiaro ( ça va sans dire). Vado a consultare subito il nuovo nostro santo protettore e cioè Sant’Internet dal quale apprendo di che razza di intervento si tratta: un intervento assolutamente invasivo da fare in casi veramente gravi, quando si siano tentate tutte le altre strade.
Di certo, ho pensato, non farò da cavia ad un primario per farsi la mano sul mio occhio!
Disdico immediatamente l’intervento, non prima però di aver fatto notare l’errore madornale alla firmataria del foglio in questione ( era una specializzanda) la quale,per tutta risposta,  con grande nonchalance mi prende dalle mani il foglio e mi dice: “ Non si preoccupi, correggiamo subito questo errore” e con un tocco di penna  trasforma OS in OD. Rimango senza parole.

Vado subito alla ricerca, fuori dall’isola, di una struttura presso la quale chiedere maggiori lumi sul mio caso e accertarmi bene di cosa si tratta.. Mi indicano il San Raffaele a Milano al quale mi rivolgo per una visita di controllo. Chiedo di un luminare che mi è stato raccomandato, il quale però mi dà appuntamento presso il suo studio privato: centottanta euro per la visita, più il viaggio aereo.
Racconto la mia storia, mi visita, mi dice che il barrage laser può essere sufficiente e, molto onestamente, mi consiglia di rivolgermi ad un bravo oculista nella mia stessa città.
Di ritorno a casa, dopo averne parlato con la famiglia, decido di consultare un altro luminare. Ha uno studio privato.
Detto, fatto. Telefonata, appuntamento immediato, visita il martedi successivo di pomeriggio.  Vado. Mi visita, mi guarda accuratamente, sentenzia: “Signora, Lei ha una retina molto malmessa. L’aspetto domani mattina in ospedale  (non lo stesso di prima, naturalmente. Un altro. ) alle 8.00. Forse la ricovero d’urgenza per un intervento. Non c’è da scherzare! “.
Pago cento euro per la prestazione. Esco.

 Mi crolla il mondo addosso. A nulla valgono le mie pretese possibilità di rimandare alla settimana successiva.
E’ irremovibile. Cosa fare? Vado.
Avevo un impegno importante per il giorno successivo: un laboratorio di scrittura coordinato da me  e gestito da un docente che sarebbe dovuto arrivare da Padova. Quella sera stessa passo da casa di una mia amica interessata all’attività e, in lacrime, le racconto tutto. Tra un singhiozzo e l’altro, ( mi dispiaceva sia per il mio occhio che per il laboratorio nello stesso modo) la prego di pensare a tutto lei e di sostituirmi anche per andare a prendere all’aeroporto il docente.

L’indomani alle 7.30 sono in ospedale in trepidante attesa accompagnata da mio marito più spaventato di me.
Il luminare arriva alle 8.10. Lo vedo. Mi vede.
“Venga”, mi dice, “io devo entrare in sala operatoria. Però l’affido ad una mia collega bravissima e affidabile”. “Va bene”, dico.
La collega affidabile mi mette l’atropina e mi lascia ad attendere. Passano venti minuti. Torna da me e mi  fa mettere da un’infermiera altra atropina. Passano altri venti minuti. Mi chiama e mi fa visitare dal primario. Il quale dopo accurata visita con luce sparata negli occhi dice ai suoi colleghi:
“Tentiamo un barrage laser. La rottura è umida ma il sollevamento di retina non c’è. Vediamo se funziona, altrimenti ricorreremo al metodo che voi conoscete”.
IL ME-TO-DO CHE VOI CO-NO-SCETE??? MA IO PURE LO CONOSCO!!!
Passano altri 20 minuti, la collega bravissima mi chiama e fa:
“ Senta, signora, mi hanno appena chiamato in sala operatoria. E’ necessario che vada. Per il  laser l’affido ad un’altra collega”.
 “E’ brava?”, dico.
“Bravissima”, dice, “non si preoccupi!”
“Va bene”, dico rassegnata.
Passano altri venti minuti. La collega bravissima della collega bravissima del bravissimo luminare  mi chiama e mi fa entrare nella stanza. Sosto in piedi e aspetto che mi dia istruzioni precise.
“Signora, mi dice, cosa deve fare?”
“COSA DEVO FARE?  Ma dottoressa, si rende conto di cosa mi sta chiedendo?”, urlo, “sono io che le devo dire cosa fare? Non l’hanno neppure informata?”
Nessuna risposta. Mi guarda allarmata. Sa dirmi solo: “L’ha firmato il consenso?”
“Quale consenso? Non mi è stato dato alcun foglio. E poi se di consenso si tratta, non crede che io debba leggerlo prima di firmarlo?”, dico oramai fuori di me.
Mi allunga un foglio, mi invita ad andare in sala d’aspetto (un orrendo corridoio con tremila persone accavallate le une sulle altre). Mi siedo. Leggo faticosamente, vista l’atropina. Non firmo.
Dopo dieci minuti mi chiama un altro oculista. Mi fa sedere nella sedia gestatoria del laser, mi dice che il primario l’ha informato di tutto e inizia il laser:  dieci minuti di tortura.
“Non vorrei dirlo per scaramanzia”, signora, “ma a me sembra che possa bastare questa seduta. Non credo ci sia bisogno di intervento. Torni per il controllo tra due settimane”, dice.
Mi sento molto sollevata e contenta. Mi rassicura che posso fare vita assolutamente normale.

Vado in sala d’aspetto, racconto tutto a mio marito che mi aiuta ad indossare il cappotto. Stiamo per andarcene quando incontro per caso il mio luminare che esce dalla sala operatoria.
“Venga , signora”, mi dice, “che le faccio il laser”
“Coooooome?”, dico “Ma l’ho già fatto col dott. xxx!”
“Ah, sì?”
“Sì”
“Ah, bene, allora venga lunedì mattina, che la controllo” dice.
“Ma il dott. xxx mi ha detto di tornare tra due settimane” dico.
“Questo è quello che dice il dott.xxx. Lei deve tornare qui lunedì tre marzo. E mi raccomando: as-so-lu-to riposo”.
Altro mio crollo psicologico.

Vado da Gianfranco, mio marito, che mi aspetta paziente. Torniamo a casa. Sono stremata e avvilita. Alle tre del pomeriggio inizia il laboratorio di scrittura. Gianfranco insiste che vada, dice che mi farà bene e che mi rilasserà. Ha ragione, vado. Non posso guidare, ma fortunatamente c’è una corsista che abita vicino casa mia. Mi darà un passaggio. Bene. Ho passato una giornata e mezza meravigliosa, ho dimenticato tutto, laser, luminari, dottoresse, primari. Tutto. Mi sono immersa nelle trame, nei personaggi, nelle possibili storie da costruire, nelle motivazioni delle urgenze di scrittura, nei generi letterari, insomma nella mia amata letteratura insieme a tanti altri che , come me, amano in modo esagerato le parole e la costruzione di storie.
Passo il venerdì, il sabato e la domenica, rigorosamente a casa. Non esco, non guido, non vado a fare neanche una passeggiata. Ferma a casa tra scrittura, musica e programmi radiofonici.
La mattina del lunedi, alle undici e mezza vado all’ospedale. Del mio luminare  neanche l’ombra. Mi iscrivo nella lista delle visite, sono l’ultima.
“C’è un po’ da aspettare” mi dice l’amministrativa, “il dott.xyy è in sala operatoria”.
“Aspetto”, dico.
“Ma ne avrà per qualche ora”, dice.
“Non importa, dico, aspetto lo stesso. Mi vuole visitare lui  personalmente”
“Bene”, mi dice, “si accomodi in corridoio”.
Mi sono portata un giornale, leggo un po’ di notizie, Renzi, la guerra possibile in Ucraina, le inchieste, l’Oscar a Sorrentino per La grande bellezza, ma il tempo non passa mai. Con Gianfranco andiamo al bar del piano di sotto, un caffè e una pasta, dieci minuti in tutto. Risaliamo al secondo piano. Ci risiediamo. Passa un’ora. Sono le dodici e trenta, un’altra, sono le tredici e trenta, la gente comincia a d andarsene, sono le quattordici, siamo rimasti solo noi due. Il corridoio è deserto. Alle quattordici e quindici mi alzo. Vado in reparto e chiedo a una dottoressa di passaggio se mi fa parlare con il dott.xxx che ho visto passare in reparto due o tre volte.
Passano cinque minuti.
“Si accomodi” mi dice la dottoressa. “Il dott. xxx l’aspetta”.
Entro nella saletta che ormai mi è familiare, e spiego che sto aspettando il mio luminare.
“So tutto” mi dice, “Sono stato informato. Il mio collega Le ha detto di tornare oggi. Si accomodi, la visito io”.
Mi siedo nella solita sedia gestatoria, mi spara la luce nell’occhio.
“ Va tutto bene, la rottura si è rimarginata, non è più umida. E’ tutto a posto.” Mi dice.
Dopo qualche minuto arriva il luminare. Mi trova ancora seduta. Mi visita anche lui.
“E’ tutto a posto, signora. La rottura si è rimarginata, non è più umida” mi dice. “Ma ritorni tra una settimana per un altro controllo, prima di congedarla definitivamente. Ci vediamo giovedì”.
Neanche una scusa per avermi fatto aspettare sei ore.

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