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Alcuni
mesi fa ho avuto problemi agli occhi. La retina del mio occhio destro ha
cominciato a dare forfait. Ad una prima visita oculistica si sono evidenziate
diverse rotture.
La mia prima oculista che mi aveva in cura da
tempo privatamente, mi ha indirizzato, per il barrage laser delle rotture della
mia retina, presso l’ospedale S. Giovanni di Dio a Cagliari, città in cui vivo.
Dopo alcuni trattamenti e tre o quattro
barrage laser, la mia oculista è andata in pensione e per rincuorarmi
mi ha affidato al personale dell’ospedale. Il quale mi ha curato come ha
saputo. Gli specialisti che si sono avvicendati sul mio occhio non sono in
pratica riusciti a barrare tutte le diverse rotture di retina all’occhio
destro. Mi hanno quindi fatto visitare dal primario il quale, dopo una visita
sommaria, ha dato il suo referto
inappellabile: vitrectomia. Da fare
subito!
Non sapevo esattamente di che si trattasse,
quindi, abbastanza serena, sono andata
negli uffici amministrativi dell’ospedale per farmi fare l’impegnativa per
l’intervento. Ero fiduciosa. Si trattava, mi aveva rassicurato il primario, di
un intervento abbastanza ordinario.
Con le pupille dilatate dall’atropina non sono
riuscita a leggere immediatamente l’impegnativa e i termini dell’intervento,
ma, una volta a casa, passato l’effetto,
ho dato uno sguardo al foglio: primo errore! Qualcuno dalla firma illeggibile,
aveva indicato come elemento di intervento l’occhio sinistro anziché il destro.
E’ chiaro che la mia fiducia nella competenza del
personale medico, subisce già un primo crollo. Voglio vederci più chiaro ( ça
va sans dire). Vado a consultare subito il nuovo nostro santo protettore e cioè
Sant’Internet dal quale apprendo di che razza di intervento si tratta: un
intervento assolutamente invasivo da fare in casi veramente gravi, quando si
siano tentate tutte le altre strade.
Di certo, ho pensato, non farò da cavia ad un
primario per farsi la mano sul mio occhio!
Disdico immediatamente l’intervento, non prima
però di aver fatto notare l’errore madornale alla firmataria del foglio in
questione ( era una specializzanda) la quale,per tutta risposta, con grande nonchalance mi prende dalle mani
il foglio e mi dice: “ Non si preoccupi, correggiamo subito questo errore” e
con un tocco di penna trasforma OS in
OD. Rimango senza parole.
Vado subito alla ricerca, fuori dall’isola, di
una struttura presso la quale chiedere maggiori lumi sul mio caso e accertarmi
bene di cosa si tratta.. Mi indicano il San Raffaele a Milano al quale mi
rivolgo per una visita di controllo. Chiedo di un luminare che mi è stato raccomandato,
il quale però mi dà appuntamento presso il suo studio privato: centottanta euro
per la visita, più il viaggio aereo.
Racconto la mia storia, mi visita, mi dice che il
barrage laser può essere sufficiente e, molto onestamente, mi consiglia di
rivolgermi ad un bravo oculista nella mia stessa città.
Di ritorno a casa, dopo averne parlato con la
famiglia, decido di consultare un altro luminare. Ha uno studio privato.
Detto, fatto. Telefonata, appuntamento immediato,
visita il martedi successivo di pomeriggio.
Vado. Mi visita, mi guarda accuratamente, sentenzia: “Signora, Lei ha
una retina molto malmessa. L’aspetto domani mattina in ospedale (non lo stesso di prima, naturalmente. Un
altro. ) alle 8.00. Forse la ricovero d’urgenza per un intervento. Non c’è da
scherzare! “.
Pago cento euro per la prestazione. Esco.
Mi crolla il
mondo addosso. A nulla valgono le mie pretese possibilità di rimandare alla
settimana successiva.
E’ irremovibile. Cosa fare? Vado.
Avevo un impegno importante per il giorno
successivo: un laboratorio di scrittura coordinato da me e gestito da un docente che sarebbe dovuto
arrivare da Padova. Quella sera stessa passo da casa di una mia amica
interessata all’attività e, in lacrime, le racconto tutto. Tra un singhiozzo e
l’altro, ( mi dispiaceva sia per il mio occhio che per il laboratorio nello
stesso modo) la prego di pensare a tutto lei e di sostituirmi anche per andare
a prendere all’aeroporto il docente.
L’indomani alle 7.30 sono in ospedale in
trepidante attesa accompagnata da mio marito più spaventato di me.
Il luminare arriva alle 8.10. Lo vedo. Mi vede.
“Venga”, mi dice, “io devo entrare in sala
operatoria. Però l’affido ad una mia collega bravissima e affidabile”. “Va bene”,
dico.
La collega affidabile mi mette l’atropina e mi
lascia ad attendere. Passano venti minuti. Torna da me e mi fa mettere da un’infermiera altra atropina.
Passano altri venti minuti. Mi chiama e mi fa visitare dal primario. Il quale
dopo accurata visita con luce sparata negli occhi dice ai suoi colleghi:
“Tentiamo un barrage laser. La rottura è umida ma
il sollevamento di retina non c’è. Vediamo se funziona, altrimenti ricorreremo
al metodo che voi conoscete”.
IL ME-TO-DO CHE VOI CO-NO-SCETE??? MA IO PURE LO CONOSCO!!!
Passano altri 20 minuti, la collega bravissima mi
chiama e fa:
“ Senta, signora, mi hanno appena chiamato in
sala operatoria. E’ necessario che vada. Per il
laser l’affido ad un’altra collega”.
“E’
brava?”, dico.
“Bravissima”, dice, “non si preoccupi!”
“Va bene”, dico rassegnata.
Passano altri venti minuti. La collega bravissima
della collega bravissima del bravissimo luminare mi chiama e mi fa entrare nella stanza. Sosto
in piedi e aspetto che mi dia istruzioni precise.
“Signora, mi dice, cosa deve fare?”
“COSA DEVO FARE?
Ma dottoressa, si rende conto di cosa mi sta chiedendo?”, urlo, “sono io
che le devo dire cosa fare? Non l’hanno neppure informata?”
Nessuna risposta. Mi guarda allarmata. Sa dirmi
solo: “L’ha firmato il consenso?”
“Quale consenso? Non mi è stato dato alcun
foglio. E poi se di consenso si tratta, non crede che io debba leggerlo prima
di firmarlo?”, dico oramai fuori di me.
Mi allunga un foglio, mi invita ad andare in sala
d’aspetto (un orrendo corridoio con tremila persone accavallate le une sulle
altre). Mi siedo. Leggo faticosamente, vista l’atropina. Non firmo.
Dopo dieci minuti mi chiama un altro oculista. Mi
fa sedere nella sedia gestatoria del laser, mi dice che il primario l’ha
informato di tutto e inizia il laser: dieci minuti di tortura.
“Non vorrei dirlo per scaramanzia”, signora, “ma
a me sembra che possa bastare questa seduta. Non credo ci sia bisogno di
intervento. Torni per il controllo tra due settimane”, dice.
Mi sento molto sollevata e contenta. Mi rassicura
che posso fare vita assolutamente normale.
Vado in sala d’aspetto, racconto tutto a mio
marito che mi aiuta ad indossare il cappotto. Stiamo per andarcene quando
incontro per caso il mio luminare che esce dalla sala operatoria.
“Venga , signora”, mi dice, “che le faccio il
laser”
“Coooooome?”, dico “Ma l’ho già fatto col dott. xxx!”
“Ah, sì?”
“Sì”
“Ah, bene, allora venga lunedì mattina, che la
controllo” dice.
“Ma il dott. xxx mi ha detto di tornare tra due
settimane” dico.
“Questo è quello che dice il dott.xxx. Lei deve
tornare qui lunedì tre marzo. E mi raccomando: as-so-lu-to riposo”.
Altro mio crollo psicologico.
Vado da Gianfranco, mio marito, che mi aspetta
paziente. Torniamo a casa. Sono stremata e avvilita. Alle tre del pomeriggio
inizia il laboratorio di scrittura. Gianfranco insiste che vada, dice che mi
farà bene e che mi rilasserà. Ha ragione, vado. Non posso guidare, ma
fortunatamente c’è una corsista che abita vicino casa mia. Mi darà un
passaggio. Bene. Ho passato una giornata e mezza meravigliosa, ho dimenticato
tutto, laser, luminari, dottoresse, primari. Tutto. Mi sono immersa nelle
trame, nei personaggi, nelle possibili storie da costruire, nelle motivazioni
delle urgenze di scrittura, nei generi letterari, insomma nella mia amata
letteratura insieme a tanti altri che , come me, amano in modo esagerato le
parole e la costruzione di storie.
Passo il venerdì, il sabato e la domenica,
rigorosamente a casa. Non esco, non guido, non vado a fare neanche una passeggiata.
Ferma a casa tra scrittura, musica e programmi radiofonici.
La mattina del lunedi, alle undici e mezza vado
all’ospedale. Del mio luminare neanche
l’ombra. Mi iscrivo nella lista delle visite, sono l’ultima.
“C’è un po’ da aspettare” mi dice l’amministrativa,
“il dott.xyy è in sala operatoria”.
“Aspetto”, dico.
“Ma ne avrà per qualche ora”, dice.
“Non importa, dico, aspetto lo stesso. Mi vuole
visitare lui personalmente”
“Bene”, mi dice, “si accomodi in corridoio”.
Mi sono portata un giornale, leggo un po’ di
notizie, Renzi, la guerra possibile in Ucraina, le inchieste, l’Oscar a
Sorrentino per La grande bellezza, ma
il tempo non passa mai. Con Gianfranco andiamo al bar del piano di sotto, un caffè e
una pasta, dieci minuti in tutto. Risaliamo al secondo piano. Ci risiediamo.
Passa un’ora. Sono le dodici e trenta, un’altra, sono le tredici e trenta, la
gente comincia a d andarsene, sono le quattordici, siamo rimasti solo noi due.
Il corridoio è deserto. Alle quattordici e quindici mi alzo. Vado in reparto e
chiedo a una dottoressa di passaggio se mi fa parlare con il dott.xxx che ho
visto passare in reparto due o tre volte.
Passano cinque minuti.
“Si accomodi” mi dice la dottoressa. “Il dott. xxx
l’aspetta”.
Entro nella saletta che ormai mi è familiare, e spiego
che sto aspettando il mio luminare.
“So tutto” mi dice, “Sono stato informato. Il mio
collega Le ha detto di tornare oggi. Si accomodi, la visito io”.
Mi siedo nella solita sedia gestatoria, mi spara
la luce nell’occhio.
“ Va tutto bene, la rottura si è rimarginata, non
è più umida. E’ tutto a posto.” Mi dice.
Dopo qualche minuto arriva il luminare. Mi trova
ancora seduta. Mi visita anche lui.
“E’ tutto a posto, signora. La rottura si è
rimarginata, non è più umida” mi dice. “Ma ritorni tra una settimana per un
altro controllo, prima di congedarla definitivamente. Ci vediamo giovedì”.
Neanche una scusa per avermi fatto aspettare sei
ore.
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