di Viola Ardone-
Einaudi Stile Libero 2019
Recensione di Maria Rosa Giannalia
Il romanzo di Viola Ardone
pubblicato nel 2019 da Einaudi stile libero, si ispira ad una storia vera: una
storia di solidarietà organizzata dal partito comunista e dall’UDI che
realizzò lo spostamento temporaneo, nel 1946 dopo la devastazione della guerra,
dal sud Italia verso l’Emilia Romagna di migliaia di bambini, con conseguente
affidamento a famiglie accoglienti, per essere salvati dalla miseria e dalla
fame.
Amerigo, piccolo scugnizzo napoletano, vive con la madre
Antonietta in un basso di Napoli. Passa le giornate osservando le scarpe dei
passanti e attribuendo un punteggio per ogni scarpa sana fino a totalizzare il
massimo dei punti. Questo suo passatempo alternato con i giochi insieme agli
altri suoi amichetti dei bassi, apre lo scenario su una città poverissima
nell'atmosfera del dopoguerra con una grande fame e miseria di tutta la
popolazione povera e senza alcun mezzo di sostentamento.
Per questi bambini viene approntato un treno ad opera delle
donne dell'UDI sostenute dal PCI, che li condurrà verso Modena dove essi
troveranno famiglie accoglienti ed affettuose.
In una di queste famiglie si situa Amerigo, protagonista
del romanzo, il quale, conosciuto il benessere, si accorge di quanto sia
misera la condizione sua e della madre. Per questo, al suo ritorno a
Napoli, si trova a non potere più sopportare quella condizione di estrema
miseria e scappa per raggiungere la famiglia accogliente a Modena dalla quale
si fa adottare col consenso della madre Antonietta.
Da adulto Amerigo tornerà a Napoli per darle l'ultimo
saluto. Ma la madre è già morta e Amerigo si aggirerà per quegli stessi vicoli
dove scoprirà che la povertà e l'infelicità da cui era scappato non potrà
essere risolta se non con un atto d'amore verso quella stessa famiglia che ha
ripudiato per tutta la vita.
L’autrice Viola Ardone è relativamente giovane ed è alla
sua terza esperienza di scrittura. Questo è, a mio avviso, un elemento da
tenere presente nell’analisi del testo.
Non c’è dubbio che la fortuna del libro nasca dal racconto
assai toccante dell’avventura toccata ad un gruppo di bambini dello stesso
rione dei bassi napoletani tra cui si trova lo stesso protagonista, Amerigo,
che narra in prima persona tutta la vicenda occorsa a sé e ai suoi amici,
bambini tra i sei e i dieci anni. Fortuna data anche dal fatto che l’episodio
autentico non era stato mai narrato in chiave romanzata.
La narrazione procede quindi dal punto di vista di Amerigo
per tutte le tre prime parti del romanzo, mentre nella quarta parte è un
Amerigo adulto che parla in un dialogo immaginario con la madre appena morta.
Il narrato, per bocca del piccolo Amerigo, procede attraverso uno stile e
un registro linguistico tipico degli scugnizzi napoletani che, vissuti nella
miseria, devono arrabattarsi anche per il pane quotidiano. E Amerigo non fa
eccezione: egli è perfettamente inserito in questo contesto e assolutamente
inconsapevole della sua condizione di povero figlio di una giovanissima
madre incapace di dargli l’affetto che il piccolo si aspetta. Affetto che la madre
tuttavia sa dargli a sprazzi attraverso gesti quotidiani ben sottolineati dalle
parole del bambino . Antonietta non è una madre anaffettiva, è una madre povera
di beni e di sentimenti. Non sa neppure svelare la sua vera paternità al
piccolo il quale, per questo, andrà per tutta la vita alla ricerca di una
stabilità che solo la cognizione della propria nascita può conferire anche agli
ultimi nella scala sociale.
Le parole che Amerigo usa per narrare sono ingenue,
fresche, costitutive del linguaggio degli scugnizzi, attraversato da
espressioni che conservano il ritmo del dialetto napoletano, come la stessa
autrice afferma in questa intervista.
Questa scrittura conferisce alle prime tre parti del
romanzo un realismo poetico che l’autrice riesce ad organizzare in un unicuum
narrativo nel quale il lettore si immerge con piacere.
L’autrice rende assai bene , con le parole dell’infanzia,
di quella infanzia, il senso della meraviglia di fronte a possibili
altri mondi affettivi ai quali i piccoli non sono abituati e al senso di gioia
e di appagamento nel partecipare di quel mondo diverso, più ricco, dove
predomina abbondanza di cibo e di cure, dove i piccoli possono finalmente
dismettere i panni dei “finti adulti” e diventare quello che realmente sono :
bambini con desideri e aspirazioni da bambini.
Che l’allontanamento dalla loro realtà miserabile dei bassi
napoletani verso un mondo più vivibile, occasione generosamente offerta dalla
popolazione dell’Emilia Romagna, sia un’arma a doppio taglio per questi
piccoli, è tuttavia un fatto ineludibile con il quale essi dovranno, al loro
ritorno, dopo avere conosciuto il benessere, confrontarsi ,immersi nuovamente
in quella vita di stenti che avevano pensato essere scomparsa per sempre.
Nell’immaginario infantile, questo ritorno è tanto più
avvilente quanto più, come è il caso di Amerigo, la”famiglia di origine” è anni
luce lontana dal paradiso che i bambini hanno conosciuto e abitato per
sei bellissimi mesi.
Il caso di Amerigo è eclatante: l’oggetto simbolo della sua
vita rinnovata , un violino che gli era stato regalato dalla famiglia di
accoglienza, sparisce da sotto il letto dove lui l’aveva religiosamente
custodito. La madre ha necessità di cibo e non esita a venderlo, compiendo un
atto la cui conseguenza immagina benissimo ma che tuttavia ritiene
indispensabile per la sopravvivenza sua e del figlio.
Le azioni compiute da Amerigo, consequenziali a questo
episodio ( la fuga da Napoli alla volta di Modena, il rifugio definitivo presso
quella famiglia e il ripudio della madre dopo la nascita del fratellino
Agostino) lo segneranno per tutta la vita. Alla povertà e alla miseria non si
sfugge: entrambe diventano connotative nella vita di Amerigo che ne
porterà i tratti per tutta la vita e non riuscirà a liberarsene neanche da
adulto quando, già affermato violinista, affrancato dal bisogno, ritornerà a
Napoli per un ultimo saluto alla madre morta.
Nella quarta parte del romanzo, meno spontanea e
riuscita forse delle altri tre parti, l’autrice vuole riscattare la condizione
di perdita del bambino Amerigo, perdita con la quale egli ha dovuto fare i
conti lungo il corso della sua vita. Per questo l’adulto Amerigo torna a Napoli
nella speranza di rendere l’ultimo saluto alla madre e attraversa quegli stessi
vicoli, cammina su quelle stesse pietre, riconosce i segni della sua infanzia
passata che gli si rovescia addosso esattamente nella sua integrità.
Egli si difende: mente circa la sua vera identità con
chi fa le viste di riconoscerlo, mente sul suo lavoro, mente sul suo
cognome, ribadendo che lui si chiama Benvenuti, mente sul suo stato civile,
mente persino sulla paternità presunta di due figli per scrollarsi di dosso quel
suo passato di miseria, perché la miseria, quando la si è provata, diventa un
tratto caratteristico dell’anima e si trasforma in paura che non molla mai la
sua preda, pronta a ripresentarsi al solo apparire di un oggetto, di una
persona , di un ricordo.
A questa paura l’adulto Amerigo vuole sfuggire ma senza
successo: essa lo accompagna lungo tutta la sua permanenza in quella sua città
natale.
A questo punto, il romanzo avrebbe potuto avere la sua
conclusione, in coerenza con l’atmosfera evocata nelle precedenti tre parti. In
tal senso in questa parte conclusiva anche l’uso della seconda persona
all’interno del modificato registro linguistico , acquista un senso funzionale
alla storia, perché il colloquio di Amerigo con la madre prescinde anche dal
lettore ed acquista autonomia nella volontà del riscatto attraverso una muta
richiesta di perdono.
Peccato che l’autrice non si sia saputa sottrarre ad
una conclusione scontata: il lieto fine che, con la probabile adozione
del nipotino rimasto solo, dopo l’arresto dei genitori, lo assolve e lo salva.
Il lettore magari ne sarà felice, ma questa conclusione
sottrae autenticità e coerenza alla storia narrata.