sabato 22 febbraio 2014
martedì 11 febbraio 2014
Morire a diciott'anni per malasanità
Lascia
veramente senza parole la notizia, riportata oggi su tutti i giornali, della
morte di una diciottenne di Palermo, borgata Brancaccio, per un ascesso non
curato e degenerato in una infezione mortale ai polmoni.
Vale
la pena rifletterci su con attenzione. Certo ci sono tanti altri episodi di
cronaca che forse sono anche più terribili di questo, più atroci, se vogliamo,
ma questo è un fatto che si presta ad una analisi sul servizio di sanità
pubblica, quello, per intenderci, col quale tutti noi ci scontriamo ogni giorno
e ogni giorno ne usciamo sconfitti.
Dunque
esaminiamo la situazione quale
probabilmente è stata nella sua banalità: una ragazza in preda ad un
forte mal di denti, si presenta al pronto soccorso: una visita frettolosa, la
prescrizione di banali antidolorifici e il consiglio di recarsi presso la clinica odontoiatrica o da un dentista.
Forse per una buona parte di noi andare dal dentista è una prassi, dolorosa in
termini economici, ma una prassi alla quale siamo più o meno abituati e per la
quale disponiamo di qualche somma per fronteggiare situazioni di emergenza. Dico
noi, ma intendo quelli tra noi, forse più fortunati, che disponendo di un
lavoro, dispongono anche di qualche
soldo per le spese mediche private.
La
situazione narrata qui è invece
paradigmatica rispetto a una tipologia sociale, quella del sottoproletariato urbano di
una grande città come Palermo. Si tratta infatti di una famiglia priva di
sostegno economico sicuro, lavoro precario della madre, ragazzi seguiti poco e
deprivati anche dell’indispensabile. Dovrebbe essere quindi questo il caso in
cui la sanità pubblica interviene con responsabilità e senso civico, dovuto ai
cittadini di una nazione come l’Italia sedicente uno dei paesi industrializzati
e del primo mondo. Cosa succede invece? E’ molto probabile che la ragazza in
questione fosse stata oggetto di attenzione molto distratta da parte del
personale medico peraltro indaffaratissimo perché sotto dimensionato, e che non
sia stata né informata della pericolosità della sua infezione né sia stata
avvertita nei termini dovuti della necessità di prendere un antibiotico e, nella
fattispecie, fatta segno di particolare attenzione. Nel senso cioè che magari
qualche medico avrebbe potuto intuire che questa ragazza non sarebbe potuta
andare da un dentista a pagamento e magari avrebbe potuto fornire subito le cure appropriate o un
antibiotico. Certo l’ascesso non si cura con un semplice antibiotico. E allora
perché gli ospedali pubblici non prestano servizi odontoiatrici diretti senza
che per forza di debba passare attraverso una miriade di ricette e
autorizzazioni? E soprattutto aspettare settimane e mesi per una visita
specialistica?
Insomma
quello che fa specie è questo: se non hai soldi per pagarti i medici
specialisti e le medicine, puoi anche morire, tanto gli ospedali non ti curano,
tanto non potrai mai avere l’attenzione di uno specialista che ti ascolti, che
ti spieghi con dovizia di particolari e ti informi bene sul tuo stato di salute,
che ti tratti come un essere umano e non come una bestia da macello.
Diciamoci
la verità: questo è quello che accade negli ospedali pubblici. Un’orda di
persone in attesa paziente di ore ed ore, una visita frettolosa, risposte
inesistenti, parole biascicate a metà e per la maggior parte incomprensibili,
da parte di medici seccati che non devono perdere tempo con te. Piuttosto
devono avere tempo per sé, e se càpita anche per parlare tra di loro dei fatti
loro.
Sfido
chiunque di noi che abbia avuto un’urgenza , una necessità, a raccontare cose
diverse.
La
domanda che mi pongo è questa: fino a che punto possiamo parlare di malasanità
e non piuttosto anche di mancanza di senso civico da parte del personale
sanitario? Basterebbe poco, basterebbe prestare un po’ più di attenzione, forse
qualche vita in più potrebbe salvarsi.
Altra
considerazione da parte del personale medico col quale ci si confronta spesso
nei mass-media su l problema dell’insufficienza dei fondi e delle strutture: "non
ci vengono erogati fondi sufficienti a coprire il fabbisogno di tutta l’utenza.
I tagli ci costringono a economizzare sulle prestazioni mediche e sulle
medicine". Queste sono le più diffuse giustificazioni. Ma io inviterei il
pubblico a riflettere per esempio sulla notizia fornita in questo sito d ove
si parla di una fornitura quinquennale di
assorbenti ( con corruzione al seguito), per un importo di 50 milioni di euro.
Ma stiamo scherzando? Cin-quan-ta mi-lio-ni di euro per una fornitura di
pannoloni? E poi si nega ad una ragazza l’assistenza sanitaria per la cura di
un ascesso dentario?
Questo è il paese in cui viviamo, questo è il paese dal
quale molti giovani vanno via e dal quale farebbero bene ad andare via tutti
coloro che hanno un’idea di cosa debba essere un paese civile.
Il nostro governo preleva dalle nostre buste-paga (
ovviamente solo dai lavoratori dipendenti che non possono sfuggire alle tasse),
una serie di cifre molto alte per la sanità pubblica, e poi, al momento del
bisogno, noi stessi, che sosteniamo questa sanità, dobbiamo andare a pagare
lauti compensi a professionisti della salute che lavorano anche nel privato,
dando ai loro pazienti quelle cure e quella disponibilità che sottraggono a
quegli altri pazienti degli ospedali, quelli che affollano i corridoi in attesa
di una sola occhiata del medico che magari non arriva neanche dopo una mattinata
di attesa.
Questo è un paese in cui alcuni giornalisti coraggiosi
producono inchieste di fuoco contro la corruzione, la malasanità, ma non
succede mai nulla, tutto viene inghiottito dalla palude verminosa del silenzio.
Questo è un paese dove i politici che dovrebbero prendere le decisioni per
organizzare al meglio la nostra società parlano a ruota libera solo di alchimie
politiche e non di programmi per il miglioramento sociale nell’interesse
pubblico. Questo è un paese dal quale chi può deve andarsene alla svelta, poiché davvero non
c’è più neanche la speranza.
domenica 2 febbraio 2014
-Buono-sconto? -No, grazie.
Oggi
venerdì trentuno gennaio è giorno di spesa. L’ipermercato che frequento per
comodità di parcheggio e non per elezione di qualità, tanto son tutti uguali,
non è affollato. Scelgo un’ora centrale della mattinata quando so che la folla
delle massaie e dei consumatori non si è
ancora travasata dalle case e dal posto di lavoro nelle corsie delle
vettovaglie. Per la spesa settimanale non ho da fare molti acquisti, solo
alcune cose essenziali per le quali non c’è neppure stato bisogno della solita
lista che mi faccio sempre nella speranza di non tralasciare nulla che magari
possa servirmi e la cui dimenticanza mi costringa poi a precipitarmi in ore
impossibili nel negozio sotto casa. Mi
attardo, come sempre, nel reparto biscotti e dolciumi. Chissà perché ho una
particolare predilezione per questi articoli. Più che altro li guardo. Alcune
volte sono tentata, allungo la mano, prendo e metto in carrello. Giro un po’,
acquisto altre cose, poi mi pento e in un impeto di rigore contro me stessa
ritorno sui miei passi, riprendo l’oggetto del desiderio e lo risistemo nello
scaffale magari con un piccolo rimpianto. Mi sono data una regola, per me
difficilissima da osservare: niente dolciumi, niente superfluo, niente di tutte
quelle cose buone che fanno depositare solo dopo qualche settimana, rotoli di
ciccia nei posti più evidenti del corpo, mica solo dove sarebbe opportuno che
stessero, tipo gambe, braccia. Mai in questi punti, ma solo nel punto vita in
modo che nel giro di qualche mese il corpo possa assumere un simpatico aspetto
tipo scaldabagno. Dunque solo l’essenziale. E su questo non transigo. O per lo
meno non transigo quando sono da sola, perché se mi capita, ad esempio, di
andare con il mio goloso consorte allora è proprio finita: il carrello
strariperà del solo superfluo. Ma io non mi rassegno, ed è per questo che
insisto per andare da sola e ho scelto il venerdì mattina, quando tutti sono al
lavoro, persino lui.
Dunque
dicevo del mio girovagare per le corsie. Adesso che ho tutto il tempo, ho
deciso di dedicarmi con calma anche alle incombenze più ordinarie. Perché
affrettarsi? E’ una vita che mi affretto e in questo mio andar veloce mi son
persa chissà quanti momenti per osservare la gente, per interessarmi alla vita
degli altri, per ipotizzare e costruire vite da dettagli apparentemente
insignificanti.
Così
anche stamattina ho visto un’anziana signora scegliere dallo scaffale della
pasta la scatola più grande e meno costosa, la passata di pomodoro dentro una
lattina enorme che probabilmente andrà a male dopo neanche una settimana di
frigo. Il bancone dei salumi, al solito, alletta un discreto numero di
consumatori, in fila col numero taglia coda, in attesa del turno. Una signora
si lamenta del costo del prosciutto crudo pieno di grasso che non viene
eliminato prima della pesatura ma che lei, precisa, eliminerà a casa sua perché
alla linea ci tiene e anche al suo colesterolo. Pezzi di mortadella, di coppa,
di salumi vari che chiamano finalini, vengono ammassati in una cesta per essere
impacchettati e rivenduti a basso costo e comprati da chi non ha evidentemente
il problema del colesterolo o, forse, il borsellino non molto pieno. E ancora
reparto frutta e verdura: mele, pere, kiwi, ananas, banane, manghi e frutta
esotica di ogni tipo che straripa dalle ceste. Arance, mandarini, mandaranci e
limoni, frutta di stagione, che arriva dalla Spagna, dall’Argentina, da
Israele, dalla Sicilia, frutta che odora di stantìo. Pochissimi sono gli agrumi
sardi eppure anche qui in Sardegna noi coltiviamo gli agrumi e sono pure molto
buoni. Ma forse i decisori delle politiche alimentari dei supermercati
ritengono che, se non fanno il giro del mondo, anche gli agrumi non si
impreziosiscono per i nostri palati. L’acqua per esempio. Ci sono almeno dieci,
dodici tipi diversi di acque minerali.
Solo due o tre sono isolane. Per non parlare delle carni: persino i porchetti e
agnelli arrivano come i turisti nella
nostra isola. Comunque non vedo carrelli eccessivamente ricolmi intorno
a me. Una signora guarda con attenzione la carne prima di deporla sul carrello.
La gira tra le mani, la deposita, poi ci ripensa e la rimette a posto. Un’altra
signora con marito al seguito tiene tra le mani il volantino pubblicitario del
supermercato e va scegliendo meticolosamente tutte le offerte speciali fino a
colmare il suo carrello con montagne di pasta, pelati, merendine varie,
biscotti e un sacco di altra roba da tenere in serbo, evidentemente, per tutto
il mese. Nell’aria aleggia un odore fortissimo di pollo arrosto, eppure sono
molto lontana dal reparto rosticceria. Una volta qualcuno mi ha spiegato che ci
sono delle ventole apposite che spandono l’odore per tutte le corsie in modo da
invogliare i clienti all’acquisto. Su di me questo odore sortisce esattamente
l’effetto opposto. Ma io lo so che sono sempre in minoranza, un’eccezione a
tutte le regole, e quindi sono indotta a pensare che sì, magari hanno ragione
loro, i decisori delle politiche alimentari, abilissimi nella persuasione
occulta dei clienti. Penso proprio che sia così anche perché, finalmente vicina
alla cassa, vedo almeno quattro persone avanti a me che hanno acquistato per il
loro pranzo pollo e patate al forno, il tutto all’interno di contenitori di
alluminio grondanti di grasso e odorosi fino alla nausea.
Adesso
ho proprio ultimato i miei acquisti. Sono in fila alla cassa anch’io e aspetto
il mio turno. Vengo fulminata da un pensiero: il buono-sconto che la cassiera
mi aveva consegnato la settimana scorsa. Lo cerco nel borsellino, non lo trovo
subito, guardo meglio, niente da fare, non c’è. Eppure era uno sconto di cinque
euro su una spesa del costo di cinquanta euro. Sto per chiudere rassegnata la borsa, ma ecco che,
no, ecco è proprio qui inserito tra la patente e la carta d’identità. Lo tiro
fuori trionfante e lo tengo da parte per mostrarlo alla cassiera al momento del
saldo. Cinque euro di questi tempi non sono proprio da buttare, penso.
Finalmente tocca a me. La cassiera con le velocissime dita allenate mi fa il
conto: totale trentotto euro. Eh, no, il buono sconto non vale!
-Va
bene, dico, lo utilizzo la prossima volta.
-
No, fa la cassiera, lo sconto è valido solo fino ad oggi. Può andare ad
acquistare qualcos’altro, se vuole.
-
No, dico io, non voglio.
-
Va bene, allora mi dia pure il biglietto di sconto, lo darò ad un altro
cliente.
-
No, no, dico, preferisco darlo io stessa.
Un
po’ perché penso che, nella logica del commercio, probabilmente le cassiere
hanno avuto l’ordine di buttare via gli scontrini non utilizzati, un po’ perché ho veramente visto una signora cui avrebbe potuto far comodo. Quindi pago e
aspetto alla cassa. La signora che ho visto prima arriva finalmente anche lei. Ha un carrello pieno, è molto
probabile che superi i cinquanta euro, dunque potrà utilizzare lei il mio buono-sconto.
Mi avvicino con discrezione.
-Signora,
se vuole ho qui un buono che potrebbe servirle ad avere uno sconto di cinque
euro sul totale della spesa-. Glielo
porgo.
Lei
mi guarda con diffidenza e poi con un
filo di voce mi dice: - No, grazie.
Non
insisto, vado alla cassa successiva e propongo a due signori anziani un po’
male in arnese lo
stesso buono-sconto.
-
No, grazie-. Anche loro.
Non
mi arrendo. Penso che la multinazionale di quel supermercato non dovrà
risparmiarsi quei cinque euro che ha promesso ai suoi clienti dopo avergliene
sottratti chissà quanto nel corso delle spese di una vita. Insisto, quindi con
altre tre, quattro persone. La risposta è sempre la stessa. A questo punto, ho
esaurito quasi tutte le casse, non mi resta che andarmene e rinunciare a quella
che ritengo una sfida all’ultimo euro, impari certamente, ma consolatoria. Vedo
proprio di lato al mio carrello una signora molto elegante, con l’aria
tranquilla, che con calma sta riponendo nelle buste la merce appena acquistata.
Certamente mi dico, il mio buono-sconto con lei è proprio sprecato. In un
attimo tra buttarlo via e proporlo anche
a lei, prevale quest’ultima opzione, così, tanto per potere disporre di una
piccola statistica ad uso personale. Vi avvicino e sempre con discrezione le
chiedo se vuole approfittare del mio buono-sconto.
- Grazie-, mi
dice con un sorriso, sottraendomelo velocemente dalla mano.
Stupefatta continuo a guardarla riporre con gesti calmi e pacati i suoi acquisti nel
carrello. Si volta, mi saluta e se ne va.
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