sabato 9 gennaio 2021

La vita davanti a sé – film

Recensione di Gemma Pardocchi

 

Il film mi è piaciuto nel suo complesso, l’ho guardato con interesse e ammirato la Loren per la sua spontaneità e immersione nel ruolo. L’ho trovato gradevole, con una buona fotografia e buona ambientazione: la trasposizione in una città meridionale italiana (Bari la location ma non determinante) affollata, con quartieri popolosi ha contribuito a confezionare un prodotto certamente diverso dall’originale romanzo dal quale è tratta la storia, o per meglio dire si è ispirata la storia. Una diversità che non ha nociuto al film anzi ha proiettato la storia in una dimensione molto  attuale e vicina a noi, che stiamo vivendo ora e  in modo drammatico i problemi dell’immigrazione.

Ma…il film non ha la ricchezza del libro, in temi e espressioni. Non c’è denuncia sociale, la varietà del mondo della banlieue è sostituita da gruppetti anzi singoli spacciatori che giocano a fare ‘gomorra’, mentre i comportamenti di Momò e la sua evoluzione sia verso il ‘male’ che verso il ‘bene’ non sono sufficientemente sviluppati. Cosi come il crescente affetto e rispetto per  madame Rosà. Il suo mistero, il mistero della sua vita e del suo rifugiarsi nella stanza ebrea segreta, che attrae Momò tanto dal distoglierlo dal giro dello spaccio per dedicarsi al suo svelamento e conseguentemente a lei, ci pare almeno all’inizio un po' fuori tema. Momò è diverso quì, è un ‘arrabbiato’, sfidante, contro tutto e tutti, non ha quello sguardo ironico e  candido col quale guarda al mondo. La regia ne ha voluto fare l’emblema dei pericoli che un giovane  immigrato sradicato, pieno di dubbi e rimpianti per la sua esistenza perduta, corre  nel mondo di oggi e nelle nostre periferie urbane. Che qui sono rappresentate solo dal boss e dal suo delfino: troppo poco per rappresentare la multietnicità e culturalità che tanto arricchiva il libro e quindi la vita e l’educazione del protagonista nel libro.

Certo il film é centrato principalmete sulla figura di madame Rosà, o meglio sulla attrice icona, Sofia Loren, che appare una donna stanca, con la vita che si è sempre accanita contro di lei, stanca anche di fuggire i fantasmi, e malata…l’ultima parte dele film con Rosà malata in ospedale, la fuga con Momò, e la veglia e il lento accompagnare di Momò alla morte è forse la parte migliore dove il sentimento che anima questo rapporto, che conduce Momò alla vita adulta e Rosà alla morte,  si chiarisce e si dispiega come centrale nel film e nel libro.

Un applauso alla Loren per l’interpretazione, ma soprattutto per avere coraggiosamente esposto le sue rughe, la sua camminata esitante, la sua debolezza di ottantenne, lei che fu una delle attrici piu acclamate per la sua bellezza statuaria, e prorompente,  dando prova di amare più il suo mestiere che la sua immagine patinata.

Il regista non ha voluto sceglier Napoli per lo sfondo, per evitare l’ovvietà, probabilmente, ma Napoli e il suo tessuto sociale e architettonico avrebbe contribuito sicuramente a creare quella ‘atmosfera’ di epopea di diseredati e di corte dei miracoli, fornendo anche più spunti narrativi a sceneggiatore e regista.

 

Diverso e più in linea col romanzo,    il film del 1977, ( su You Tube, in francese con sottotitoli in inglese), con Simone Signoret, vera icona del cinema francese, vincitrice dell’Oscar per l’interpretazione femminile, ambientato invece poprio in un quartiere popolare di Parigi popolato di emigrati e emarginati. Le generosità e la disponibilità degli abitanti dello stabile e del quartiere per aiutarsi nelle difficoltà è messa ben in luce.

Nell’edificio dove Madame Rosà ha il suo appartamento e custodisce i bambini a lei affidati, le riprese sottolineano le scale e i piani che Rosà deve con fatica salire per raggiungerlo e si pongono quasi come i refrain di una ballata, intervallando lo sviluppo narrativo della storia.

Anche questo film focalizza molto  sulla figura di Madame Rosà, e verso la fine fa risaltare la figura del ragazzo, che stando vicino alla donna malata, compie una maturazione e evoluzione interiore, diventando narratore fuori campo in quell’esercizio di tornare indietro, riavvolgere il nastro,  che aveva tanto apprezzato nella sala di doppiaggio.

Il rapporto fra la donna e il ragazzo è ben sviluppato e si intreccia col progredire della malattia di madame Rosà fino a che i due non possono più fare a meno l’uno dell’altra,: Momò la elegge a madre a tutti gli effetti e lei confida in lui per poter morire tranquilla e in pace nella sua stanza ebrea, vicino alle sie radici, alla sua storia, sottraendosi alla ‘crudeltà’ dell’accanimento terapeutico in ospedale che avrebbe solo prolungato la sua agonia. Qui nella ultima parte del film si focalizza sul problema dell’eutanasia che in una ‘società civile’ come dice il dottor Katz è contro la legge.

Accentuato in maniera positiva e significativa, il lato delle differenze religiose fra ebrei e mussulmani, e la curiosa intercambiabilità che si realizza in Momò, educato alla Mussulmana col Corano (ma anche con letture europee come i Miserabili) ma capace di imparare e recitare la fondametale preghiera ebrea, che viene messo sotto la lente dell’ironia a significare che la preghiera è una, la fede è una, e le divisioni non sono utili alla tolleranza e buona convivenza.

Ho trovato questo film molto bello, con la tipica atmosfera francese nelle ambientazioni, dove la storia si sviluppa in maniera logica e fluida fino alla conclusione finale; bellissimo anche il personaggio costruito dalla Signoret, una madame Rosà stanca e malata  ma capace di sorridere e di un certo ottimismo sulla vita, degno dell’Oscar.

 

 

1 commento:

  1. Grazie Gemma per questa doppia analisi critica su due film distanti nel tempo e nello spazio e che, perciò, raccontano due diverse dimensioni storiche e culturali che s radicano diversamente su un fenomeno mondiale di lungo periodo, ma che si raccoglie con rara efficacia narrativa e stilistica, oltre che etica nel bel romanzo di Roman Gary.Complimenti per la sapiente esposizione!

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