sabato 28 ottobre 2017
"L'Amor che move il sole e l'altre stelle"
Il pubblico è accorso numeroso, come del resto è accaduto per tutti gli altri incontri che sono stati organizzati nell'ambito della rassegna SCRITTORI E SCRITTURE.
martedì 24 ottobre 2017
Vecchiaia: volti e risvolti
Mi ha sempre indotto a riflettere la visione di gente anziana incontrata per strada o in posti pubblici o ancora all'interno della mia stessa famiglia.
Finché sono stata giovane non ho mai seriamente pensato che l'età del crepuscolo sarebbe fatalmente arrivata per me e che anch'io ero parte di quel mondo in cui tutti- tutti- facciamo lo stesso cammino.
Quando, per caso, questa idea mi attraversava i pensieri, evitavo di inciamparci e cercavo di scavalcarla velocemente. Non mi attardavo mai a spenderci su qualche riflessione.
Guardavo agli anziani della mia famiglia: mio padre è andato via troppo presto perché fosse interessato dalla sindrome della vecchiaia. Il suo percorso verso la fine è stato breve. Nel momento in cui si rendeva conto che il suo tempo era per concludersi, si è spento. Non si è accorto della perdita.
Mia madre è rimasta per molti anni senza di lui. Le sono rimasti i figli e i nipoti. Il rapporto con la morte non l'aveva sconvolta del tutto: ha saputo accettare la perdita poiché apparteneva ad una generazione che con la morte si era incontrata diverse volte e sapeva che doveva succedere, che sarebbe successo. Passò il resto dei suoi anni partecipando in silenzio alla vita dei familiari, godendo degli affetti di cui è rimasta circondata e del rispetto che i figli e i nipoti le hanno tributato in forza di una educazione che poneva al massimo livello del sistema valoriale, la famiglia. Certo la solitudine era per lei la condizione quotidiana ma non era la solitudine dell'abbandono, piuttosto quella della mancanza di interessi propri, venuta meno l'esigenza cui aveva votato tutta la sua vita: l'accudimento familiare e l'educazione dei figli.
Se paragono la sua vita alla mia , adesso che l'età che ho raggiunto mi avvicina per contiguità a quella della sua vedovanza, vedo quanta e quale differenza ci sia stata tra il suo modo di essere e il mio. Appartengo ad un'altra generazione, ma ci separavano in fondo solo ventotto anni. E mi scopro a chiedermi, in qualche sera come questa, quando mi fermo a riflettere, accantonando tutti gli interessi, o pseudo tali, che mi sono creata dopo il mio pensionamento, quanto la mia vita attuale possa dirsi appagante e arricchente, quanto il mio mondo possa essere considerato pari al suo in quanto ad affetti e ad appagamento.
Appartengo a quella generazione dei giovani del sessantotto che pensava di potere rivoluzionare il mondo; che presumeva che non dovesse più essere consentito interessarsi e circoscrivere il proprio mondo solo alla famiglia; che fosse giusto fare solo tratti di strada insieme, quando interessi, ideali, sistemi valoriali, potevano incontrarsi; che fosse giusto, viceversa, separarsi allorché l'intesa iniziale avesse perso consistenza; quando cioè, non ci si fosse più identificati in uno "stare insieme" senza parole e senza comunanza di vedute.
Appartengo a quella generazione di donne che ha investito molto sull'idea politica della vita privata e sul significato sociale del proprio lavoro. Ed ho considerato, insieme a tantissime altre compagne, che fosse buono e giusto l'impegno per la realizzazione dei propri progetti di lavoro col dare ad essi priorità. Pensavamo, molte di noi, che in questo risiedesse la realizzazione della nostra vita.
Poi.
Poi il tempo è passato troppo in fretta.
Del lavoro che mi ha pervaso di passione, quel lavoro che ho tanto amato, in cui credevo di avere trovato la chiave di volta per dare una forma accettabile e soddisfacente al mio percorso di vita, non è rimasto che qualche brandello sporadico, cui ogni tanto mi abbarbico per saggiarne la consistenza. E' una fallacia. E' un vuoto che lascia la constatazione che , forse, tanta utilità, tanto valore, tanta affettività non erano come io li vedevo. Che la fatica di vivere non si scardina impegnando la propria mente in problemi pratici da risolvere, in "cose da fare". La fatica quotidiana del vivere, rimane sempre e tutta lì. Ci attende quando dismettiamo il nostro assiduo e totalizzante impegno e dietro ci aspetta un vuoto che a volte trascende qualsiasi altra cosa. Gli affetti non riescono a colmarlo: i figli sono andati per la loro strada, non hanno più bisogno di noi. E questa cosa giusta e naturale però ci dispiace un po'. Ci fa sentire inutili e fuori dalle loro vite.
Semplicemente è così che va.
Non abbiamo il diritto a crucciarcene.
Dobbiamo imparare a bastarci.
E quando non siamo più appetibili per il mercato dei consumi volontari, rischiamo di diventare facili prede dei consumi indotti con ferocia da una società che non ha più tempo per noi.
Finché sono stata giovane non ho mai seriamente pensato che l'età del crepuscolo sarebbe fatalmente arrivata per me e che anch'io ero parte di quel mondo in cui tutti- tutti- facciamo lo stesso cammino.
Quando, per caso, questa idea mi attraversava i pensieri, evitavo di inciamparci e cercavo di scavalcarla velocemente. Non mi attardavo mai a spenderci su qualche riflessione.
Guardavo agli anziani della mia famiglia: mio padre è andato via troppo presto perché fosse interessato dalla sindrome della vecchiaia. Il suo percorso verso la fine è stato breve. Nel momento in cui si rendeva conto che il suo tempo era per concludersi, si è spento. Non si è accorto della perdita.
Mia madre è rimasta per molti anni senza di lui. Le sono rimasti i figli e i nipoti. Il rapporto con la morte non l'aveva sconvolta del tutto: ha saputo accettare la perdita poiché apparteneva ad una generazione che con la morte si era incontrata diverse volte e sapeva che doveva succedere, che sarebbe successo. Passò il resto dei suoi anni partecipando in silenzio alla vita dei familiari, godendo degli affetti di cui è rimasta circondata e del rispetto che i figli e i nipoti le hanno tributato in forza di una educazione che poneva al massimo livello del sistema valoriale, la famiglia. Certo la solitudine era per lei la condizione quotidiana ma non era la solitudine dell'abbandono, piuttosto quella della mancanza di interessi propri, venuta meno l'esigenza cui aveva votato tutta la sua vita: l'accudimento familiare e l'educazione dei figli.
Se paragono la sua vita alla mia , adesso che l'età che ho raggiunto mi avvicina per contiguità a quella della sua vedovanza, vedo quanta e quale differenza ci sia stata tra il suo modo di essere e il mio. Appartengo ad un'altra generazione, ma ci separavano in fondo solo ventotto anni. E mi scopro a chiedermi, in qualche sera come questa, quando mi fermo a riflettere, accantonando tutti gli interessi, o pseudo tali, che mi sono creata dopo il mio pensionamento, quanto la mia vita attuale possa dirsi appagante e arricchente, quanto il mio mondo possa essere considerato pari al suo in quanto ad affetti e ad appagamento.
Appartengo a quella generazione dei giovani del sessantotto che pensava di potere rivoluzionare il mondo; che presumeva che non dovesse più essere consentito interessarsi e circoscrivere il proprio mondo solo alla famiglia; che fosse giusto fare solo tratti di strada insieme, quando interessi, ideali, sistemi valoriali, potevano incontrarsi; che fosse giusto, viceversa, separarsi allorché l'intesa iniziale avesse perso consistenza; quando cioè, non ci si fosse più identificati in uno "stare insieme" senza parole e senza comunanza di vedute.
Appartengo a quella generazione di donne che ha investito molto sull'idea politica della vita privata e sul significato sociale del proprio lavoro. Ed ho considerato, insieme a tantissime altre compagne, che fosse buono e giusto l'impegno per la realizzazione dei propri progetti di lavoro col dare ad essi priorità. Pensavamo, molte di noi, che in questo risiedesse la realizzazione della nostra vita.
Poi.
Poi il tempo è passato troppo in fretta.
Del lavoro che mi ha pervaso di passione, quel lavoro che ho tanto amato, in cui credevo di avere trovato la chiave di volta per dare una forma accettabile e soddisfacente al mio percorso di vita, non è rimasto che qualche brandello sporadico, cui ogni tanto mi abbarbico per saggiarne la consistenza. E' una fallacia. E' un vuoto che lascia la constatazione che , forse, tanta utilità, tanto valore, tanta affettività non erano come io li vedevo. Che la fatica di vivere non si scardina impegnando la propria mente in problemi pratici da risolvere, in "cose da fare". La fatica quotidiana del vivere, rimane sempre e tutta lì. Ci attende quando dismettiamo il nostro assiduo e totalizzante impegno e dietro ci aspetta un vuoto che a volte trascende qualsiasi altra cosa. Gli affetti non riescono a colmarlo: i figli sono andati per la loro strada, non hanno più bisogno di noi. E questa cosa giusta e naturale però ci dispiace un po'. Ci fa sentire inutili e fuori dalle loro vite.
Semplicemente è così che va.
Non abbiamo il diritto a crucciarcene.
Dobbiamo imparare a bastarci.
E quando non siamo più appetibili per il mercato dei consumi volontari, rischiamo di diventare facili prede dei consumi indotti con ferocia da una società che non ha più tempo per noi.
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