martedì 31 marzo 2015
Ancora a proposito della "Buona scuola"
Una bella analisi dettagliata del documento sulla "buona Scuola" è quella di Giuseppe Bagni, presidente nazionale del CIDI , il cui segmento, qui di seguito riportato, è solo la parte conclusiva.
Chi voglia leggere l'intero documento lo potrà fare qui
Il rischio di chiusura e la vera risorsa
...Ma ciò che più preoccupa è l'effetto che questa incoerenza politica produce su quegli insegnanti che da sempre hanno rappresentato la componente riflessiva delle scuole, capace di guidare i cambiamenti amplificandone gli aspetti positivi e minimizzando i danni delle le scelte sbagliate.
Oggi si percepisce una spaccatura nel loro agire, come l'apertura di un solco profondo che interrompe ogni scambio tra la scuola vera, che essi vivono quotidianamente, e quell'idea di scuola più generale che si sente "desiderabile" per tutti.
Se gli insegnanti più appassionati rinunciano ad alzare lo sguardo per guardare oltre la cattedra e i banchi dei propri alunni perdiamo la risorsa più preziosa della scuola. L'aula allora diventa il confine di senso del proprio lavoro, l'unico luogo dove ci si sente capaci di incidere, in cui la scuola "pensabile" può ancora diventare "possibile". Oltre quelle pareti cresce un disinteresse per le scelte più generali che spinge al massimo a farsi un'opinione, ma accompagnata dalla rinuncia a farla contare.
Stiamo spingendo chi ama davvero la scuola ad amare sempre più solo la propria.
La scelta di chiudere la porta dell'aula per restare all'interno del rassicurante microcosmo che si è costruito viene vissuta come l'unica via di fuga possibile dalle costanti delusioni, ma sempre di una fuga si tratta, oltre che di una sconfitta per tutta la scuola.
Se non si ferma questa deriva anche gli insegnanti che sentono la scuola come una seconda pelle cominceranno a contare gli anni che mancano alla pensione. Invece il loro entusiasmo e la capacità di lavorare nel pensando in grande è la principale risorsa per la buona scuola.
Che c'è già, e chiede solo di essere accompagnata.
lunedì 30 marzo 2015
Troppe vacanze per i nostri figli: un problema sostanziale?
Dopo tanti annunci e notizie di Riforma della scuola, il documento governativo "La buona scuola" è arrivato in forma ufficiale in tutti gli istituti scolastici per la sua attuazione.
Se i docenti, almeno coloro che si sono dati la briga di leggerlo ed esaminarlo per intero, avessero avuto qualche dubbio in proposito, ormai possono avere la certezza: nulla è veramente cambiato nella scuola per il miglioramento effettivo della qualità degli apprendimenti.
Qui e là corrono voci che spostano il problema di fondo verso altri tangenziali aspetti, come ad esempio la questione se sia opportuno o meno che gli studenti facciano tre mesi di vacanza, o se sia giusto che i nostri figli rimangano in estate con le mani in mano, senza potere usufruire di una struttura che li accolga e che contribuisca alla loro educazione e formazione. Come se la scuola avesse, tra tutte le miriadi di altri compiti, quello di risolvere i problemi dei genitori che non sanno dove piazzare i figli durante il periodo estivo. Un discorso del genere nato da gruppi di genitori e sicuramente sollecitato dal bisogno succitato, anziché produrre una costruttiva analisi su quanto si potrebbe fare per concorrere anche nei mesi estivi alla formazione degli studenti, svia del tutto l'attenzione del pubblico su questioni di carattere demagogico che nulla c'entrano con il compito effettivo della scuola: l'istruzione e la formazione dei giovani.
I docenti sono veramente stufi di sentirsi oggetto di vituperio da parte di coloro che, attenti solo ai propri bisogni pratici, e confortati in questo da alcune voci politiche, sono pronti a demandare ulteriormente responsabilità, precipue del ruolo genitoriale, sugli operatori della scuola. I quali, viceversa, dovrebbero essere messi in grado attraverso una serie di vere riforme radicali, di svolgere l'importante ruolo che ricoprono e che spesso non riescono ad attuare al meglio delle loro possibilità. Per esempio, che fine ha fatto la formazione dei docenti in servizio, quella seria per intenderci? Quali risorse sono state messe in campo? Le modalità della formazione dei docenti non sono cambiate in seguito al documento della buona scuola. La formazione è diventata obbligatoria? Si è pensato ad una formazione in servizio che sia di qualità?
Su questo dovrebbero interrogarsi i vari politici che si avvicendano al MIUR.
Riporto qui di seguito un interessante articolo nel merito.
Tullio De
Mauro,
linguista
Proviamo a dire il più brevemente possibile, per tratti essenziali, qual è il
quadro della scuola italiana oggi: oltre 9 milioni di alunne e alunni
dall’infanzia all’adolescenza e prima giovinezza; quasi un milione di dipendenti
pubblici al lavoro come tecnici amministrativi e insegnanti distribuiti in
categorie diverse per materie di insegnamento e per tre o forse quattro ordini o
gradi o livelli di scolarità; oltre diecimila istituti, sparsi in un numero ben
maggiore di edifici in altissima percentuale fuori norma e vetusti; un dedalo di
canali di studio mediosuperiori, oltre venti (anche dopo il prosciugamento
introdotto da Maria Stella Gelmini); assai diversa efficienza degli
apprendimenti nelle diverse regioni del paese e nei diversi livelli, dalla molto
buona efficienza delle scuole dell’infanzia e primarie alla mediocrità di
risultati delle secondarie superiori; fenomeni persistenti di disaffezione e
abbandono degli alunni; natura assai composita e tutta da rivedere nei
meccanismi di formazione e selezione dei diversi tipi di insegnanti, a non
parlare dei presidi; riduzione del numero e del fondamentale ruolo degli
ispettori centrali; carenza cronica di attrezzature bibliotecarie,
laboratoriali, sportive e di risorse finanziarie; impatto disordinato degli
sviluppi dei campi del sapere sui contenuti degli insegnamenti; scarsa stima
sociale per la lettura, lo studio, la cultura intellettuale e, quindi, per gli e
le insegnanti; riflessi inevitabili dei bassi livelli di competenza della
popolazione adulta (ultima o penultima in Europa) sul cammino scolastico
(torniamo a loro) di alunne e alunni.
L’elenco è approssimato per difetto e lascia in ombra il fatto che ciascuno degli elementi elencati ha connessioni multiple e intrecci con gli altri. Dovrebbe bastare però a spingere chi parla di scuola a esser cauto dinanzi a una realtà così complicata prima di avventurarsi in proposte rivoluzionanti questo o quell’aspetto.
Non sembra di questa opinione il ministro Giuliano Poletti. In un convegno organizzato a Firenze dalla Regione Toscana sui fondi europei e la condizione dei giovani italiani il ministro, secondo un virgolettato comune a più giornali, ha detto:
L’elenco è approssimato per difetto e lascia in ombra il fatto che ciascuno degli elementi elencati ha connessioni multiple e intrecci con gli altri. Dovrebbe bastare però a spingere chi parla di scuola a esser cauto dinanzi a una realtà così complicata prima di avventurarsi in proposte rivoluzionanti questo o quell’aspetto.
Non sembra di questa opinione il ministro Giuliano Poletti. In un convegno organizzato a Firenze dalla Regione Toscana sui fondi europei e la condizione dei giovani italiani il ministro, secondo un virgolettato comune a più giornali, ha detto:
Un mese di vacanze va bene. Ma non c’è obbligo di farne tre. Magari uno
potrebbe essere passato a fare formazione… I miei figli d’estate sono sempre
andati al magazzino della frutta a spostare le casse. Sono venuti su normali,
non sono speciali.
Secondo la
cronaca di Repubblica queste parole sono state accolte da uno scroscio di
applausi. Consensi sono venuti anche da esponenti del governo e della
maggioranza, dissensi dal mondo della scuola, presidi, studenti, docenti, da
Susanna Camusso e da sindacati. Il rapporto tra gli apprendimenti scolastici e
le attività pratiche, operative, di cui anche l’esperienza del lavoro sotto
padrone può essere una parte, è un tema serio. Un ministro, specie quello del
lavoro, non dovrebbe ridurlo alla vicenda dei suoi figli verdurai in vacanza né
al tema delle vacanze. Ma così ha fatto e la cosa ha fatto notizia. L’eccesso di
vacanze della nostra scuola è un luogo comune ricorrente. È fondato?
Una pubblicazione della rete europea Eurydice, Le cifre chiave dell’istruzione in Europa (qui il pdf), consente di estrarre un quadro dei tempi scuola nei diversi paesi. Tutti i sistemi scolastici (non la scuola di Barbiana) concordano nell’alternare a periodi di attività periodi di vacanza. Una caratteristica comune è riservare il periodo più lungo di vacanze all’estate. I periodi estivi sono di durata un po’ diversa per inizio e fine, tutti però includono il luglio e in generale anche l’agosto. Mettiamo dunque anzitutto i paesi in ordine decrescente di durata delle vacanze estive misurata in settimane:
13 settimane Lettonia, Lituania, Turchia
12-13 settimane Italia
12 settimane Cipro, Estonia, Grecia, Portogallo
11 settimane Ungheria, Croazia, Spagna
10-11 settimane Finlandia
10 settimane Svezia
9 settimane Austria, Belgio, Irlanda, Regno Unito-Irlanda del Nord, Repubblica Ceca, Francia
8 settimane Norvegia
7 settimane Danimarca
6 settimane Germania, Liechtenstein, Paesi Bassi, Regno Unito-Inghilterra e Galles
Le vacanze estive sono le più vistose, ma non le sole. In generale c’è una compensazione tra vacanze estive e vacanze intercalate durante l’anno con modalità diversa a seconda dei paesi. Dopo grandi discussioni la Francia è per ora il paese che ha più sistematizzata l’alternanza di periodi didattici e periodi di vacanze. Oltre che d’estate le scuole si fermano ogni sei, sette settimane per quindici giorni. Per le Petites vacances il paese si divide in tre fasce che di anno in anno alternano i periodi per evitare eccessivi affollamenti nelle località di villeggiatura.
Nel resto d’Europa i periodi di vacanze intercalate cadono in autunno, a Natale (due e anche tre settimane), Carnevale, Pasqua (una settimana in Italia, due nel Regno Unito). Tenendo conto di feste religiose o nazionali di durata minore, decise, a seconda dei paesi, o dagli stati o dai comuni o, come in Inghilterra, dalle singole scuole, il risultato è che nei paesi europei in generale la somma complessiva di giorni di vacanza nell’anno è di 120 giorni circa e quindi circa 185 sono i giorni di scuola. Ma alcuni paesi restringono i giorni complessivi di vacanza e toccano i duecento giorni di scuola: Danimarca, Liechtenstein, Paesi Bassi e Italia.
Ma per valutare il tempo scuola non basta assumere a riferimento la “settimana” come se fosse dappertutto eguale. La settimana scolastica è in generale di cinque giorni con esclusione quindi del sabato, è di quattro giorni in Francia, di sei in Italia e in alcuni Länder tedeschi. Infine un’ultima variabile: anche “ora di lezione” è un riferimento comune, ma, come mostra e avverte Eurydice, l’ora di lezione varia tra i 40 o i 50 minuti nella generalità dei paesi e i 60 minuti in Italia.
Chi ha avuto pazienza di seguire l’esposizione capisce che una cosa non può e non dovrebbe dirsi: che l’Italia si segnali per un eccesso di vacanze scolastiche e per un difetto di durata complessiva del tempo scuola.
Occorre infine fare almeno due considerazioni.
La prima, se si hanno presenti le indagini Ocse sulle competenze di base, si ricava anche da un’occhiata d’insieme ai dati fin qui riportati: non c’è una correlazione positiva diretta tra tempi scuola, del resto tendenzialmente nel complesso poco diversi, e scarti significativi nei livelli di apprendimento di alunne e alunni e di efficienza dei sistemi scolastici.
Lo spiegava tanti anni fa Aldo Visalberghi e, come altri suoi insegnamenti, anche questo merita d’essere ricordato. Il fattore qualità domina sul fattore quantità e il fattore qualità è dato anzitutto dalla qualità degli insegnanti, insegnanti cioè dalla loro adeguata formazione e reclutamento e dalla loro motivazione largamente dipendente dalla stima sociale che vien loro assegnata. Chi blatera sugli insegnanti sfaccendati e privilegiati dalle troppe vacanze non soltanto dice sciocchezze ma, contribuendo ad abbassarne la stima sociale, concorre alla loro demotivazione e danneggia quindi l’intero sistema dell’istruzione.
Seconda e ultima considerazione. Non si spiegherà mai abbastanza che un solido apprendimento non può essere un apprendimento verbalistico, ripetitivo di formule e discorsi, ma deve essere operativo, consistere e mettersi alla prova non nel ripetere, ma nel fare, e possibilmente nel fare in modo nuovo cose nuove e utili.
Su questa via le scuole possono incontrare utilmente anche attività di lavoro purché ciò avvenga all’interno di un progetto educativo. Che hanno ricavato di conoscenze e competenze i ragazzi di Giuliano Poletti dagli spostamenti estivi di cassette del fruttarolo, ortolano, erbivendolo, erbaiolo o come altrimenti si dica?
Negli Itis, gli istituti industriali di stato, ci sono state eccellenti esperienze di integrazione progettuale e regolata (e coperta assicurativamente) tra formazione nelle aule e progetti di collaborazione a imprese o servizi pubblici. Andrebbero considerate con attenzione, riprese negli anni finali di tutti i venti e più canali scolastici, licei classici compresi. Ci aiuterebbero sulla via del trasformare le aule da auditorium in laboratorium.
Probabile che di ciò sappiano avvantaggiarsi anche gli imprenditori, ma se ne avvantaggia soprattutto la qualità degli insegnamenti e del contributo che le scuole danno all’intera vita sociale.
Una pubblicazione della rete europea Eurydice, Le cifre chiave dell’istruzione in Europa (qui il pdf), consente di estrarre un quadro dei tempi scuola nei diversi paesi. Tutti i sistemi scolastici (non la scuola di Barbiana) concordano nell’alternare a periodi di attività periodi di vacanza. Una caratteristica comune è riservare il periodo più lungo di vacanze all’estate. I periodi estivi sono di durata un po’ diversa per inizio e fine, tutti però includono il luglio e in generale anche l’agosto. Mettiamo dunque anzitutto i paesi in ordine decrescente di durata delle vacanze estive misurata in settimane:
13 settimane Lettonia, Lituania, Turchia
12-13 settimane Italia
12 settimane Cipro, Estonia, Grecia, Portogallo
11 settimane Ungheria, Croazia, Spagna
10-11 settimane Finlandia
10 settimane Svezia
9 settimane Austria, Belgio, Irlanda, Regno Unito-Irlanda del Nord, Repubblica Ceca, Francia
8 settimane Norvegia
7 settimane Danimarca
6 settimane Germania, Liechtenstein, Paesi Bassi, Regno Unito-Inghilterra e Galles
Le vacanze estive sono le più vistose, ma non le sole. In generale c’è una compensazione tra vacanze estive e vacanze intercalate durante l’anno con modalità diversa a seconda dei paesi. Dopo grandi discussioni la Francia è per ora il paese che ha più sistematizzata l’alternanza di periodi didattici e periodi di vacanze. Oltre che d’estate le scuole si fermano ogni sei, sette settimane per quindici giorni. Per le Petites vacances il paese si divide in tre fasce che di anno in anno alternano i periodi per evitare eccessivi affollamenti nelle località di villeggiatura.
Nel resto d’Europa i periodi di vacanze intercalate cadono in autunno, a Natale (due e anche tre settimane), Carnevale, Pasqua (una settimana in Italia, due nel Regno Unito). Tenendo conto di feste religiose o nazionali di durata minore, decise, a seconda dei paesi, o dagli stati o dai comuni o, come in Inghilterra, dalle singole scuole, il risultato è che nei paesi europei in generale la somma complessiva di giorni di vacanza nell’anno è di 120 giorni circa e quindi circa 185 sono i giorni di scuola. Ma alcuni paesi restringono i giorni complessivi di vacanza e toccano i duecento giorni di scuola: Danimarca, Liechtenstein, Paesi Bassi e Italia.
Ma per valutare il tempo scuola non basta assumere a riferimento la “settimana” come se fosse dappertutto eguale. La settimana scolastica è in generale di cinque giorni con esclusione quindi del sabato, è di quattro giorni in Francia, di sei in Italia e in alcuni Länder tedeschi. Infine un’ultima variabile: anche “ora di lezione” è un riferimento comune, ma, come mostra e avverte Eurydice, l’ora di lezione varia tra i 40 o i 50 minuti nella generalità dei paesi e i 60 minuti in Italia.
Chi ha avuto pazienza di seguire l’esposizione capisce che una cosa non può e non dovrebbe dirsi: che l’Italia si segnali per un eccesso di vacanze scolastiche e per un difetto di durata complessiva del tempo scuola.
Occorre infine fare almeno due considerazioni.
La prima, se si hanno presenti le indagini Ocse sulle competenze di base, si ricava anche da un’occhiata d’insieme ai dati fin qui riportati: non c’è una correlazione positiva diretta tra tempi scuola, del resto tendenzialmente nel complesso poco diversi, e scarti significativi nei livelli di apprendimento di alunne e alunni e di efficienza dei sistemi scolastici.
Lo spiegava tanti anni fa Aldo Visalberghi e, come altri suoi insegnamenti, anche questo merita d’essere ricordato. Il fattore qualità domina sul fattore quantità e il fattore qualità è dato anzitutto dalla qualità degli insegnanti, insegnanti cioè dalla loro adeguata formazione e reclutamento e dalla loro motivazione largamente dipendente dalla stima sociale che vien loro assegnata. Chi blatera sugli insegnanti sfaccendati e privilegiati dalle troppe vacanze non soltanto dice sciocchezze ma, contribuendo ad abbassarne la stima sociale, concorre alla loro demotivazione e danneggia quindi l’intero sistema dell’istruzione.
Seconda e ultima considerazione. Non si spiegherà mai abbastanza che un solido apprendimento non può essere un apprendimento verbalistico, ripetitivo di formule e discorsi, ma deve essere operativo, consistere e mettersi alla prova non nel ripetere, ma nel fare, e possibilmente nel fare in modo nuovo cose nuove e utili.
Su questa via le scuole possono incontrare utilmente anche attività di lavoro purché ciò avvenga all’interno di un progetto educativo. Che hanno ricavato di conoscenze e competenze i ragazzi di Giuliano Poletti dagli spostamenti estivi di cassette del fruttarolo, ortolano, erbivendolo, erbaiolo o come altrimenti si dica?
Negli Itis, gli istituti industriali di stato, ci sono state eccellenti esperienze di integrazione progettuale e regolata (e coperta assicurativamente) tra formazione nelle aule e progetti di collaborazione a imprese o servizi pubblici. Andrebbero considerate con attenzione, riprese negli anni finali di tutti i venti e più canali scolastici, licei classici compresi. Ci aiuterebbero sulla via del trasformare le aule da auditorium in laboratorium.
Probabile che di ciò sappiano avvantaggiarsi anche gli imprenditori, ma se ne avvantaggia soprattutto la qualità degli insegnamenti e del contributo che le scuole danno all’intera vita sociale.
sabato 28 marzo 2015
Due poesie di Eva Lipska
Le città
Cara signora Schubert, ci sono città che
potrebbero testimoniare contro di noi. Le abbiamo abbandonate
all’improvviso e senza motivo. Ci hanno inseguito in
autostrada indirizzi atterriti e letti d’albergo.
Ricorda le pupille dilatate di Venezia?
potrebbero testimoniare contro di noi. Le abbiamo abbandonate
all’improvviso e senza motivo. Ci hanno inseguito in
autostrada indirizzi atterriti e letti d’albergo.
Ricorda le pupille dilatate di Venezia?
Manhattan offesa? L’ambiziosa Zurigo, parente
di Thomas Mann? Le città natali ce l’avevano con noi, ma
si sono comportate con orgoglio. Sapevano che saremmo tornati.
Come tutti I bambini di vecchiaia penitente.
di Thomas Mann? Le città natali ce l’avevano con noi, ma
si sono comportate con orgoglio. Sapevano che saremmo tornati.
Come tutti I bambini di vecchiaia penitente.
*******
Il protagonista del romanzo
Cara signora Schubert, il protagonista del mio romanzo
trascina un baule. Nel baule ci sono la madre, le sorelle, la famiglia,
la guerra, la morte. Non sono in grado di aiutarlo.
Si tira indietro quel baule per duecentocinquanta pagine.
Non si regge più in piedi. E quando finalmente esce dal romanzo
viene derubato di tutto. Perde la madre,
le sorelle, la famiglia, la guerra, la morte. In un forum su Internet
gli scrivono che gli sta bene.
Forse è un ebreo o un nano? I testimoni
trascina un baule. Nel baule ci sono la madre, le sorelle, la famiglia,
la guerra, la morte. Non sono in grado di aiutarlo.
Si tira indietro quel baule per duecentocinquanta pagine.
Non si regge più in piedi. E quando finalmente esce dal romanzo
viene derubato di tutto. Perde la madre,
le sorelle, la famiglia, la guerra, la morte. In un forum su Internet
gli scrivono che gli sta bene.
Forse è un ebreo o un nano? I testimoni
affermano che taceranno su questo argomento.
lunedì 16 marzo 2015
Serata letteraria

E' stata una bella serata tra amici quella di sabato 15 marzo 2015 nella sede del VOFS di Cagliari in via Ariosto
In un'atmosfera intima e allietata dal canto di Agnese Becciu e dalla danza di Luisa Oneddu .Bianca Mannu ha presentato il suo libro " I racconti di Bianca", cui ha fatto seguito la lettura di alcune poesie. Si sono alternate nella lettura Giuseppa Sicura, Giuliana Coni, Carlo Onnis, Maria Rosaria Floris, Mariatina Biggio.
La magnifica la recitazione di Maria Luisa Businco ha dato corpo alle figure femminili dei racconti di Bianca, che, nelle parole dell'attrice recitante, si sono materializzate assumendo vita e forma.
La presentazione dettagliata dei racconti si può leggere qui.
Le foto sono tutte di Nazareno Griffi.
lunedì 9 marzo 2015
Le bambine
Nell’una la tremula lacrima
si affianca al sorriso
luminoso
nell’altra il cruccio di diniego
a tutte le richieste offusca il riso
che non tarda a illuminare
gli occhi di stelle pennellati
con l’azzurro di cielo
urla e strepiti invadono la casa
per uno straccio conteso o per un gioco.
Durano poco i pianti
e l’infanzia dei profumi
stupisce l’aria intorno
e abita il mio
esistere
la vostra ilarità.
30 settembre 2012
venerdì 6 marzo 2015
Osservazioni sul libro di Savina Dolores Massa: Cenere calda a mezzanotte ed. Il Maestrale – Nuoro 2013 pp. 424
Nello
scenario di Aristanis, in una Sardegna ancestrale e immobile, si intrecciano i
destini di alcune donne, Bonaria, Rebecca, Peppina, Petronilla,
Maria Carta, e di alcuni uomini che ad esse fanno da sfondo e contraltare, in
un lungo periodo che spazia nell’arco della prima metà del ‘900.
Bonaria e Antonio vivono una felice vita matrimoniale improvvisamente interrotta dalla
morte di lei per un banale incidente. La donna continua a presentarsi nella mente di Antonio che crede di vederla
negli specchi installati nella camera da letto. Altri fatti, tra il reale e il
magico, incombono e permeano le vite e le relazioni tra i personaggi: l’amicizia
beffarda e complice tra Petronilla e Maria Carta che attraversa tutto il romanzo e filtra il
racconto dell’operato di entrambe; Petronilla nel suo triste e pensoso
atteggiamento di donna insoddisfatta, innamorata ancora di Antonio, suo antico
promesso che l’ha abbandonata per la più seducente Bonaria; l’amica Maria,
sempre pronta a rintuzzarla con le sue battute
benevolmente salaci. Le due donne si separeranno solo dopo il matrimonio
della figlia di Petronilla che di malavoglia seguirà il marito a Carbonia,
lasciando per sempre la casa di Aristanis a sua figlia appena sposata. Alcuni
flash sulle vite degli uomini di queste donne, figure minori e di solo
contorno, accentuano il protagonismo femminile di tutto il romanzo.
L’architettura delle vicende è costruita tutta
a partire dagli interni delle case e da una strada , la ruga di Peppi Enna, che
costituiscono lo scenario di eventi evocati e rappresentati come dentro le
quinte di un teatro. Non ci sono vere azioni. Trame e intrecci non si fondono
in una narrazione lineare attraverso il tempo. L’autrice tesse una tela in cui
i personaggi sembrano esistere già ancor prima di essere stati concepiti, in un
mondo statico, dove il tempo ancestrale sviluppa solo percorsi conosciuti,
attesi, temuti ma accettati.
L’amore,
interrotto da una morte occasionale, tra Bonaria e Antonio, rimasto vedovo con
soli figli maschi, il matrimonio di Rebecca e Tommaso ricco di molte
complicità, il rapporto coniugale senza amore ma di soli obblighi, di
Petronilla e Giovanni non hanno bisogno del “racconto”. Sono le donne e gli
uomini, con le loro voci che propongono
al lettore la loro commedia umana. Tutto
quell’amore che sbatteva alla casa le offendeva i capelli avviati su sentieri
opachi,
e gli occhi in principio di caduta di
un fosso,
e i denti troppo deboli per potere
affrontare il morso d’amore rimasto non dato ad un collo maschile
è
il pensiero di Petronilla la bionda, alla comparsa dell’amore di Giomaria per
sua figlia Luisetta.
Le
vicende non si discostano da quelle di molti, o quasi tutti, gli abitanti del
luogo che vivono nei discorsi dei personaggi anche le loro singole vite. E’ la
polifonia delle voci che fa emergere dallo scenario di fondo, sia quella mitica
Aristanis evocata con pennellate di luce nei racconti dei personaggi, sia
le vicende che il lettore è invitato a
ricostruire da sé mettendo in fila i grani della narrazione.
Aristanis
diventa una specie di Macondo, più vicina e palpabile forse, in cui però si
coglie la stessa nostalgica visione del destino che si compie ineluttabile
sempre, senza che le azioni umane riescano a scalfirne una sia pur minima
parte.
I
due differenti registri linguistici adoperati dall’autrice separano l’ambito
della descrizione da quello della narrazione dove la lingua sarda dei parlanti
prevale nella sua intrinseca struttura
sintattica in cui solo il lessico viene reso in lingua italiana. E’
un’operazione pregevole di immersione
nella cultura che si rappresenta, dove tutte le “voci” acquistano credibilità e
vivacità narrativa e dipingono pensieri,
sentimenti, emozioni che entrano dentro il cuore del lettore e lo rendono
partecipe delle vicende narrate universalizzandone la prospettiva e i
significati. Certamente questo espediente letterario ha il limite della geografia.
Il lettore non sardo incontrerà qualche difficoltà a decodificare del tutto i
significati peculiari delle conversazioni tra gli attori delle scene,
costellati dall’abbondante uso dei gerundi. Ma è un piccolo pegno che bisogna
pagare per la scoperta di questa “favola” meravigliosa che la scrittrice sa
rappresentarci. D’altra parte in questa scrittura sembra aleggiare alquanto
forte l’eco di quella di Saramago nella scelta di adottare anche punteggiatura e ortografia non canoniche.
Uscire dal canone classico della punteggiatura fa parte dell’atto creativo
dell’autrice, senza il quale, forse, l’esito e la fruibilità non sarebbero
stati gli stessi. Come anche le
antifrasi caratteristica della lingua del luogo E Peppina, chissà che cosa le farà di regalo: tanto non ci tiene a tua
figlia!... Lo so, confermò Petronilla, era dispiaciuta di non poterle dare la
culla di Giomaria…un lavoro fine, legno intarsiato a stelle di Betlemme, come
diavolo si chiamano?,
Ma cosa quelle con La coda?,
Eh, quelle! Adesso il nome non mi
viene in testa, Antonio Mammaiòni morta la moglie l’ha presa e l’ha bruciata,
…
Ah, adesso mi sono ricordata, stella
con la menta si chiama in italiano…
Il
mondo dei “cortili” rappresentato dalla polifonia è un mondo tragico e
superstizioso, dove magia e realtà non conoscono confini precisi, dove Petronilla
si dice preda di coittèdda (il diavolo) fino a confondere le sue inquietudini
con l’ orribile apparizione in una magica notte di cui conserva il segreto,
estorto con pressanti insistenze dalla
comare e amica Maria Carta ma solo in un altro luogo: il camposanto, dove le
due donne si ritrovano a morte avvenuta con un distacco di vent’anni. Il mondo sotterraneo, affollato dagli spiriti degli stessi personaggi ormai morti, restituisce al lettore in una sorta di reincarnazione impalpabile, la continuità delle forme che si eterna all'infinito senza una vera soluzione di continuità, anche al di là della narrazione stessa.
La storia ha inizio con la morte di una delle protagoniste e arriva alla fine
con una chiusa trionfale che si sostanzia nella terza parte dal titolo voci da
un altro cortile e nel frattempo ne attraversa la trama percorrendo tutto
l’intreccio delle vite dei personaggi. La morte è il fil rouge che emerge qui e
là con acuminate espressioni per concretizzarsi solo alla fine in quell' Ade
sotterraneo in cui Petronilla raggiunge Bonaria che l’aveva
aspettata per vent’anni. Ma anche in questo Ade le due comari non perdono
l’abitudine ai rintuzzamenti, né Maria Carta rinuncia a conoscere il segreto
dell’amica. Ed è qui, solo nella morte, che riesce ad estorcerlo. Petronilla
finalmente racconta …coittedda me lo sono
trovato sopra, e manco il respiro mi è uscito per lo spavento. Era nero come
pece. Antonio?...sei qui finalmente…mi ha spogliata lasciandomi così come mamma
mia mi aveva creato…non andare via. E dal nulla come era arrivato se n’è scappato.
Questa è la storia, Maria Carta.
E
alle incalzanti e maliziose domande dell’amica, Petronilla la bionda, si
schermisce, reiterando la sua convinzione che fosse stato il diavolo in persona
ad averla posseduta e che il suo spavento era stato terribile. Ma l’amica non
si dà per vinta e rincalza Coittettèdda o
non Coittèdda ti ha portato in paradiso, dimmi di no se trovi il coraggio!
Petronilla ammise, Beh, proprio
l’Inferno non era.
Maria Rosa Giannalia
domenica 1 marzo 2015
Oggetto e linguaggio della narrazione
In questa pagina riportiamo una conversazione nata da una riflessione della scrittrice Bianca Mannu sul tema citato nel titolo di questo post.
Invitiamo chiunque voglia partecipare a scrivere le proprie considerazioni nel merito.
Bianca Mannu ha scritto:
Nell’era in cui molte delle nostre informazioni, parecchie nostre impressioni, esperienze e
fantasie vengono mediate dalle immagini – foto, animazioni, documentari,reportage, film, fiction, vignette, fumetti – si tende a sottovalutare la potenza rappresentativa della parola
scritta. Lo scritto, per il fatto stesso di offrire una certa resistenza alla
decodifica immediata, viene spacciato come noioso e astratto, perché, presso il
grande pubblico talora funziona il pregiudizio ingenuo che l’immagine parli
direttamente e sia immediatamente esaustiva, convincente, veritiera e racconti tutto il raccontabile. Non è proprio così. E chi ha anche una piccola infarinatura di tecnica del disegno, della fotografia, della ripresa filmica,della pittura, eccetera, sa quante operazioni comporta anche solo la pretesa di una pura e semplice rappresentazione istantanea di un piccolo oggetto.
L’atto del narrare è anch’esso complesso e per converso la fruizione comporta l’attività del pensiero. in un tempo meno dominato dalle immagini, il narrare era una pratica abituale basata sulla comunicazione vocale; veniva acquisita e trasmessa per imitazione. Ma certo nell’ascolto favoriva coloro padroneggiavano meglio, non solo la lingua, ma la funzione fatica del gesto, ciò che viene meno nello scritto.
Oggi che la diffusa scolarizzazione dovrebbe renderci più avvertiti su questo tema, ci si rappresenta ancora l’atto del narrare in modo elementare. Immediatamente immaginiamo un osservatore neutro che guarda fuori da sé (anche su uno schermo mentale) verso uno spazio degli eventi dove dei personaggi compaiono, si comportano e agiscono. E dal quel suo spazio osservativo privilegiato si pensa che s’industri di applicare ai materiali percettivi provenienti da quelle figure e da quegli eventi-azione il suo repertorio di frasi. In tale modo la scrittura narrativa appare come un abito confezionato a parte, infilabile, estraibile, sostituibile che deve avvolgere il corpo della cosa narrata, fisso e immutato nella sua condizione di dato.
Invece, secondo me,la narrazione nasce già vestita, per dire così; ossia non c’è prima l’oggetto e poi la parola che lo raffigura e/o lo esprime. E quando l’autore è insoddisfatto e apporta delle modifiche, queste non concernono la pellicola verbale, ma proprio lo statuto dell’oggetto/evento di quella narrazione, il quale, se considerato nella sua secca esistenza/scansione (mentale o oggettuale, poco importa), è incomunicabile. Infatti il contenuto di un pensiero come tale non può raggiungere alcun destinatario.
E allora raccontare è un’arte la cui materia prima è già irreparabilmente involta e impastata di parole; ed essa insistentemente esige le sue parole (e quando una siffatta congiuntura non si ottiene, è proprio l’arte a soffrire!). Così è già del discorso quell’altro materiale che appare come non narrato, e che pure lo è, la cui persistenza nell’immaginario di chi legge è un effetto indotto dalla sapiente introduzione di stimoli parola, in un gioco di richiami e di assenze, costituenti un che percepito come “esterno”, come milieu.
Nella narrativa moderna - quella, per intenderci, inaugurata da Kafka, Svevo, da J. Joyce, Pirandello,da Virginia Woolf e altri - non è più riproponibile la sequenza lineare delle vicende che corrono come in un arazzo semovente e perfettamente disegnato verso la/il fine prestabilito; né può più risultare credibile e appagante la scomparsa del narratore, cioè la sua pretesa di cancellarsi come implicato, tuttavia arrogandosi la funzione di “deus” che, ingiustificatamente, tutto vede e prevede, anche le intenzioni di quelli che egli vorrebbe come personaggi vivi e autonomi e che rischiano di essere trasformati invece in fantocci.
La finzione narrativa regge se il “trucco” non viene proposto in modo surrettizio o irriflettuto (non riflettuto/ irriflesso).
Maria Concetta Rosa Giannalia ha scritto:
Effettivamente , cara Bianca, la narrazione come sviluppo della sola parola, oggi non può più essere fruita tout court dalla massa dei lettori. E ciò per motivi che sono anche indipendenti dalla volontà del lettore stesso, nel senso che esiste molta differenziazione tra i diversi livelli di consapevolezza , oltre che gradi diversi di attrezzature culturali. Chi scrive oggi deve considerare a) il suo pubblico e conoscerne le potenzialità, b) la tipologia ( un conto è scrivere per un giornale o per una rivsta, un altro è scrivere un racconto o un romanzo, un altro ancora è scrivere saggi ecc.), c) il mezzo adoperato ( blog o sito, scrittura a video, libro cartaceo, e-book e altro) , d) il tempo che il lettore ritiene di dovere investire nella decodifica dello scritto che ha davanti. Il lettore è sempre "costretto" in qualche modo, nel momento in cui legge, a fare quelle operazioni intellettuali che tu descrivi nel tuo post. Il problema è "quanto" egli vorrà investire della sua attenzione per capire. Ora io credo che i social in questo senso non aiutano: per sua natura il post deve essere sintetico per una lettura veloce che impatti immediatamente col pubblico. E pertanto tende alla massima semplificazione e alla banalità. Basta fare una piccola prova: vediamo quante risposte otterrà il tuo post. Per concludere, la narrazione lunga che richiede tempi distesi, è un lusso per pochi iniziati. Invece il romanzo commerciale, scritto in modo sincopato e minimalista, che fa parlare direttamente i personaggi e li fa agire senza descriverne i pensieri, ha qualche chance in più per essere fruito da molti lettori. Anche il discorso della narrazione che procede in sequenza lineare, non credo che non sia più proponibile oggi perché i narratori del novecento hanno inventato un altro modo di rappresentare il loro mondo narrativo, ma perché nessun autore oggi potrebbe scrivere una "recherche" tanto per intenderci e pretendere di avere più dei "venticinque lettori". Non è una questione di lunghezza, ma di agilità narrativa. Oggi il romanzo "deve" essere dinamico per avere qualche speranza di lettura. Ma noi sappiamo che i buoni scrittori se ne fregano di adescare il lettore e sanno tirare diritto per la propria strada.Per fortuna.
Roberta Caria ha scritto:
L'atto del narrare è, per sua stessa natura, puro esercizio spirituale. Monologo interiore scevro da manipolazioni visive, stenta a decollare in un mondo in cui la comunicazione visiva spazza via ogni sforzo cognitivo per i più; non è così per tutti, ma per troppi. Sono i nuovi martiri. Vittime del mondo ma prima di tutto di se stessi. È sempre un bel leggere. Ciao, cara.
Giovanni Paolo Salaris ha scritto:
Raccontare è anche parlare con se stessi e parlare anche con un pubblico ipotetico, di se stessi e degli altri. Senza questo scambio, spesso dialettico, non c'è comunicazione e dunque neppure narrazione.
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