L’ articolo di Melania
Mazzucco ( La Repubblica di domenica 26 luglio 2015) dal titolo eloquente “Se
questo è il volto di una capitale”, mi ha fatto pensare alla dimensione del
degrado non solo di Roma ma di molte città e paesi italiani, piccoli e grandi. La scrittrice, nell’articolo
citato, racconta l’accoramento degli abitanti che vedono
l’insieme degli edifici, delle piazze, delle strutture antiche che provengono
da una storia millenaria, deturparsi pian piano ma costantemente. Vero è che nella storia degli uomini una certa quota di deturpamento fa parte della vita sociale stessa. Ma si tratta
di quel deturpamento connesso all’uso
quotidiano e che rientra nell’ andamento della
costruzione-disfacimento-ricostruzione e che è nell’ordine naturale delle cose.
Il grido accorato della Mazzucco che
si sostanzia nella frase con cui apre l’articolo Che cosa ho fatto di male
(per meritare questo)? ci mostra, invece, l’estrema drammaticità
dell’impossibilità di recupero e di ripristino della passata bellezza di Roma.
E’ quasi un de profundis . Il tanto parlare di questo problema che si è fatto
nei quotidiani e nei rotocalchi, dà anche la misura di una sofferenza di quella
parte di cittadini che non si ritiene responsabile di questa devastazione.
Ma non è proprio così.
Siamo tutti responsabili dell’ambiente in cui viviamo, urbano o naturale che
sia, poiché tutti fruiamo in misura diversa di ciò che è pubblico. Forse Il
degrado di Roma ha raggiunto livelli non più sopportabili, forse perché Roma è
lo specchio del paese, fatto sta che si fa un gran parlare solo adesso, di questo problema.
Ma ci siamo chiesti quante
città vivono da molti decenni la condizione di Roma stessa? E quando mai se n’è
data notizia dei quotidiani nazionali?
Ci sono città, nella
penisola, che per degradazione non sono seconde a nessuna altra.
Anche nel degrado c’è forse
una graduatoria: città più o meno degradate, in procinto di degradazione,
quasi-degradate, degradate parzialmente, irrimediabilmente degradate.
Tra queste ultime annovero
Palermo, mia città natale, o meglio, mia provincia di nascita, essendo io nata in un piccolo paesino, a quasi sei
chilometri dalla grande città, di nome Villabate che ho visto crescere in questi ultimi quarant’anni
almeno del triplo sia per il numero di abitanti che per i fabbricati.
Questa piccola cittadina ha
la sfortuna di trovarsi a ridosso del territorio della grande città di cui è
ormai diventata un' anonima periferia urbana insieme a molte altre frazioni che
circondano la città a nord-est. E' situata nell’importante snodo autostradale che
immette nelle tre principali autostrade Palermo-Catania, Palermo –Agrigento,
Palermo-Messina.
Tuttavia Villabate ha sempre avuto dignità di paese in quanto la sua genesi
storica data al millesettecento in
seguito all’inurbamento di un latifondo
di proprietà di un abate di nome Agnello. Da qui, dunque, la toponomastica: Villa
dell’abate, esitata in Villabate.
Un legame affettivo di più di mezzo secolo mi lega a questo luogo. Ed è di questo paese che
voglio parlare.
Il paese si snoda lungo la
vecchia strada provinciale per Agrigento,
ai cui lati sono sorte le prime case dei contadini che avevano nella
coltivazione degli agrumi della Conca d’oro la loro ragione di vita economica e sociale. Il paese ,
nel corso degli anni, si è ingrandito per accumulo, senza mai un piano
regolatore, senza un ordine che salvaguardasse l’ambiente meraviglioso dei
“giardini”, dove nelle sere tiepide di primavera, il profumo della zagara era sentore di paradiso.
Questo ambiente, invidia dei viaggiatori stranieri, vanto e orgoglio dei contadini, è stato piegato e violentato all’inurbamento senza che
nessun amministratore segnalasse un abuso, perché, in mancanza di
pianificazione generale, non si può parlare di abusi.
A mia memoria questo paese
è stato sempre deturpato dalla spazzatura che non necessariamente è collegata con gli abusi edilizi, ma, come questi, è sintomo di un idem sentire della comunità. Ma se da una parte gli abitanti si sono sempre lamentati della sporcizia
pubblica, dall’altro si sono guardati bene dall' intervenire a livello
privato. Eppure le case, al loro
interno, sono state sempre splendenti per la pulizia meticolosa che le massaie
provvedevano ( e provvedono) a fare quotidianamente senza
trascurare neppure i marciapiedi prospicienti.
Ecco, però finiva qui l’interesse del privato cittadino per la cosa pubblica. Sempre a mia memoria,
ho visto buttare cartacce, sporcizie varie, materiali di risulta e quant’altro
nelle strade pubbliche senza che
qualcuno dei cittadini mai si arrischiasse a fare la benché minima osservazione. Era questo
un modo ordinario di vivere. Nessuno si meravigliava, a nessuno veniva in mente
che forse quello non era proprio un modo civile di stare in una comunità. Persino i bambini, rimproverati qualche rara volta perchè sorpresi a sporcare la strada, rispondevano con una tipica frase, diventata luogo comune, ad eventuali scarse osservazioni di qualche adulto dotato di senso civico: Vossia chi vùali? Picchì cca
u’ sua è? (Lei cosa vuole?Perché questa è proprietà
sua?). Questa frase non si sente più
ripetere certamente, ma la condizione educativa che ci sta dietro era (e forse
ancora è) paradigmatica di un mondo in cui ciò che è pubblico è terra di
nessuno. Quindi si può devastare.
Ebbene, no. A questa
domanda dobbiamo imparare a rispondere: sì, qui è mio ed è anche tuo, dei tuoi
fratelli, dei tuoi cugini, della tua famiglia, della famiglia di tutti noi. E’
nostro e bisogna salvaguardare ciò che è nostro, esattamente come
salvaguardiamo tutto ciò che ci riguarda dentro la nostra casa. L’ambiente che
sta fuori dalla nostra casa, è casa nostra anche quello . Ci appartiene, apparterrà
ai nostri figli cui lo lasceremo in eredità.
E’ di tutti noi anche il
territorio di confine tra il nostro paese e quello della grande città, dove,
pensandolo come terra di nessuno, perché zona industriale e trafficatissima, molti, tra abitanti e passanti, scaricano ogni giorno cumuli di immondizie. E mai nessuno si prende la briga di
raccogliergli, né amministratori né semplici cittadini, i quali, anzi, si sentono
confortati dagli enormi cumuli ad aggiungere carico al carico in un generale
inferno di degrado di cui oramai non si rendono più neanche conto. E così si
continua a vivere dentro una grande pattumiera senza neppure sentirne l’odore.
Questo è il punto di
non-ritorno, l’irrimediabilità del degrado definitivo.
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