sabato 1 aprile 2017

TANINO

Quando mi dissero che sotto casa mia, appena un po’ più avanti, nel marciapiede stretto e sempre bagnato da un rivolo di acqua sporca, avevano trovato Tanino, morto ammazzato, spalmato come un vecchio cannavazzu, io non ci volevo credere. Ma non perché pensavo che quel tipo di ammazzatine non fosse possibile, no. Ma perché non mi capacitavo che era proprio lui, Tanino, con tutti quei capelli a tendina sull’occhio, con tutti quei denti bianchi bianchi, con quelle sue mani che parevano di femmina tanto erano lunghe e delicate e le due fossette ai lati della faccia, una di qua e l’altra di là, che sembrava gli avessero messo dentro un filo che si tirava col sorriso. Proprio no, non poteva essere. Io lo sapevo che lui non aveva niente a che fare con nessuna di quelle male persone che ogni tanto nel paese si sapeva che circolavano. Che poteva avere a che fare lui? A me aveva raccontato sempre tante storie, mi aveva preso in braccio tante volte, mi aveva portato al bar della piazza a mangiare il gelato con la brioscina. Lui lo sapeva che a me piaceva quello alla nocciola e qualche volta pure quello al caffè. Lui mi guardava sempre quando io prendevo in mano il gelato e mi cadeva sulle dita della mano, sul polso e poi pure sul braccio, che si vedeva una lunga striscia scura, specie in estate quando avevo il vestito senza le maniche. Tanino rideva sempre, mi diceva guarda che poi tua madre ti dà legnate se ti vede tutta sporca di gelato, io lo guardavo e ridevo pure io e poi lui si accosciava in terra per vedermi da vicino e rideva e io gli mettevo il mio dito sporco di gelato dentro le sue fossette. Io pensavo che lui lo facesse apposta a farsele venire tutte le volte che rideva e mi immaginavo l’elastico che si partiva da una guancia all’altra dentro la sua bocca e che faceva comparire le fossette. Lo sapevo io sola di quell’elastico, perché quando gli chiesi perché aveva quei due buchi nella faccia quando rideva, lui mi disse sai ho un elastico nella bocca che si tira quando rido, ma tu non lo devi dire a nessuno. Nessuno lo sapeva , oltre a me e lui sapeva che di me si poteva fidare. Anche se sono una femmina io i segreti li so mantenere. Lui, Tanino, era il figlio della zia Caterina. Lei veramente non era mia zia, ma io l’avevo chiamata sempre così. Anche i miei fratelli l’avevano chiamato sempre così e anche le mie cugine che stanno dall’altra parte del paese, l’hanno sempre chiamata così. La zia Caterina era vecchia, aveva tutti i capelli bianchi ma di lato aveva una striscia nera nera che sembrava dipinta di proposito. E dietro la testa aveva una treccia grossa grossa a forma di tuppo. Tutte le mattine si pettinava davanti alla porta di casa e si scioglieva il tuppo e si disfaceva la treccia grossa. I capelli le arrivavano fino alla vita e io pensavo come mai così vecchia e aveva i capelli fino alla vita. Possibile che non se li fosse tagliati mai? Mi piaceva vedere la zia Caterina quando si pettinava quei capelli lunghi lunghi e come poi raccoglieva i fili dal pettine e li attorcigliava tutti e li metteva in un fazzoletto. Io mi chiedevo perché metteva i capelli dentro quel fazzoletto, che bisogno c’era di metterli lì. Un giorno glielo chiesi. Mi avvicinai mentre si pettinava. Io avevo un po’ paura di zia Caterina , era così vecchia e pure alta e aveva tutte le mani con le pieghe. Ma io lo volevo sapere perché ormai erano tanti giorni che la guardavo. Lei mi disse che raccoglieva tutti i capelli perché poi passava l’uomo dei fiammiferi e lei glieli dava e quello le dava in cambio una scatola grande di fiammiferi. La zia Caterina aveva tanti figli, ma non stavano più tutti con lei. Solo Tanino stava ancora con lei perché era il più piccolo di tutti e ancora non se ne poteva andare perché non lavorava tutti i giorni e non era sicuro che poteva mangiare tutti i giorni con quello che gli davano. Lui faceva il cameriere, serviva ai tavoli nei matrimoni. Era un lavoro bello questo, perché poteva anche mangiare tutte le cose che mangiavano gli invitati e magari portarne pure a zia Caterina che era vecchia e queste cose non le sapeva cucinare. Erano molto buone tutte le cose che davano ai matrimoni. Anche a me Tanino dava qualche cosa. Lui lo sapeva che a me piacevano i dolci e me li portava sempre. Però di nascosto di sua madre, perché se lei vedeva che li portava a me, poi gli diceva che le cose le portava ai figli degli estranei invece di darli a sua madre. Ma lui li metteva dentro la tasca dei suoi pantaloni e li nascondeva per darmeli poi. Qualche volta li metteva magari dentro la cesta dei fichi che tra un matrimonio e l’altro andava a vendere per conto suo. Lui ogni tanto andava in campagna e lì c’erano quattro alberi grandi di fichi. Il padrone del giardino neanche se ne accorgeva che Tanino raccoglieva i fichi grandi perché lui era furbo e non si faceva mai vedere. Ci andava sempre dopo che il sole se n’era andato, tutti i giornatari già da un pezzo non c’erano più in campagna e non c’era neanche l’uomo dell’acqua. Perché quello era amico del padrone e se lo vedeva sicuro che glielo diceva e allora Tanino avrebbe preso un sacco di legnate da loro due. Ma lui era troppo furbo. Raccoglieva un paniere di fichi bello grande e se ne tornava in paese che già era scuro e nessuno lo poteva vedere. E così l’indomani mattina se li vendeva in mezzo alle vanedde del paese dove le donne che lo conoscevano gli davano i soldi. E lui non se li teneva tutti per sé. Li portava tutti alla zia Caterina che poi ci comprava il pane , la pasta e i fagioli. E qualche volte anche il caciocavallo e qualche pezzo di carne. A me Tanino mi voleva bene, perché lo vedeva che io giocavo sempre da sola. Io volevo stare con gli altri bambini ma loro non volevano. Io non lo so perché non volevano stare con me. Qualcuno ogni tanto ci stava con me a giocare ma appena venivano gli altri se ne andava con tutti e io non ero veloce e quando correvo mi veniva sempre il fiatone grosso e poi mi fermavo e non li raggiungevo mai. Allora tornavo nel marciapiede vicino a casa mia e giocavo da sola. Tanino era bravo a costruire pure i giocattoli e mi aveva fatto una bambola tutta di legno. Questa bambola aveva tutti i capelli gialli gialli e gli occhi neri perché Tanino li aveva disegnati con la matita di suo fratello che era muratore e che l’aveva sempre sopra l’orecchio. Io un giorno l’avevo visto questo suo fratello e non capivo perché teneva quella matita sopra l’orecchio. Tanino mi diceva che lui ci scriveva sul muro, ma io pensavo cosa mai poteva scrivere sul muro? Boh! Ma ci credevo, perché Tanino a me di bugie non me ne diceva mai. Come quel giorno che era tornato a casa stanco perché c’era stato un matrimonio e l’avevano chiamato per servire ai tavoli. Lui lo chiamavano sempre perché era veloce e poi perché faceva una bella figura. Era alto e poi aveva quelle sue mani lunghe da femmina ed era sempre attento con gli invitati, portava le cose che loro chiedevano presto presto e non li faceva mai aspettare. Non come l’altro cameriere, figlio del padrone, che era lento lento e non si spicciava mai a portare le cose in tavola. A Tanino lo chiamavano sempre nei matrimoni. Quel giorno lui era tornato a casa e si stava lavando tutto perché era sudato, faceva caldo, c’era pure stato tutto il giorno lo scirocco per questo era tutto sudato. Ma non si era neppure messo la camicia pulita che erano venuti i carabinieri a chiamarlo. La zia Caterina restò davanti alla porta mentre lui usciva con i carabinieri. Anche i carabinieri erano alti ma lui era più alto di loro e più bello, anche se loro avevano tutti i bottoni d’oro nella giacca e lui invece la camicia ancora sbottonata. Lo avevano portato in caserma perché dicevano che alla fine del matrimonio , quando tutti gli invitati se n’erano andati, il padrone non aveva trovato più i soldi che aveva lasciato dentro il cassetto chiuso a chiave. Il cassetto era ancora chiuso e poi quando lui l’aveva aperto non c’era più niente. I carabinieri avevano detto che volevano interrogare Tanino su questa cosa dei soldi, ma lui poi quando uscì me lo disse che non ne sapeva niente, che lui non c’entrava niente con quei soldi, che anzi non sapeva neppure che sotto il bancone della verdura c’era un cassetto nascosto. Io ho creduto a Tanino perché lui a me bugie non me ne diceva mai. Però non lo chiamarono più per i matrimoni e lui non poteva sempre andare a rubare i fichi per venderli. Dopo che tornò a casa, ma non tornò subito subito, forse dopo tanti giorni che io non ho potuto contare, passava con me molto tempo. Giocava sempre con me e mi portava anche al bar a comprare il gelato, anzi non me lo comprava lui, perché soldi non ne aveva, ma qualche suo amico che incontravamo ogni tanto lo comprava anche a me. Io volevo bene a Tanino, e quando lui mi costruiva i giocattoli con il legno oppure con il filo di ferro o con le pezze vecchie che sua madre non voleva più, io gli guardavo sempre le mani. Si muovevano leggere le sue dita, leggere leggere e io pensavo che anche alle bambole che mi costruiva piaceva farsi toccare la patatina come piaceva a me. Io volevo bene a Tanino.

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