di Salvatore Pinna
Aipsa edizioni, Roma
2018

Non si tratta dello sviluppo di una storia:
il libro narra, in 57 capitoli più l’epilogo, tante piccole storie, quelle dei
bambini che nascono e crescono in una comunità separata geograficamente dal resto della città sia
dalla posizione – la rocca in cui sorge il quartiere denominato Castello e chiamato “acropoli”
dall’autore - sia dall’appartenenza sociale – piccola comunità fortemente
stratificata in miseri - i baraccati
all’interno delle rovine dell’ex questura, di cui si parla solo tangenzialmente
per sottolinearne la non appartenenza-, i poveri,
i piccolissimi borghesi e i benestanti.
Tutto questo mondo è visto e descritto
attraverso gli occhi del bambino protagonista e io narrante, che non si nomina
mai ma che, invece, nomina per nome, cognome e talvolta soprannome, tutti i
compagni e gli adulti.
Il protagonista descrive le avventure, tra
gioco, studio ed esperienze d’infanzia, di tutti i suoi coetanei, con i quali
viene a contatto, e dei loro genitori, ma solo quando le storie di quest’ultimi intervengono a
collimare con le avventure dei piccoli. Sullo sfondo La Storia che , in questo caso, coincide con le narrazioni delle
attività dell’associazione parrocchiale di S. Saturnino, collante principale
che tiene insieme tutti i ragazzini conferendo loro una formazione religiosa secondo
i canoni dell’epoca, nella quale essi si identificano. L’azione cattolica e il
circolo S. Saturnino ad essa collegato sono le uniche istituzioni che offrono
loro la possibilità di condividere un tempo ben organizzato, ad opera dei preti,
per i giochi (le partite di calcio) e la
formazione culturale (le proiezioni nel cinema parrocchiale).
Il punto di vista si mantiene costante lungo tutta la narrazione
e il registro linguistico adoperato varia col variare dell’età del protagonista.
Mi è sembrato molto ben costruita la
rappresentazione di questa vita in verticale attraverso le vie di Castello che
si snodano tortuose e strette contornando
la quotidianità dei loro abitanti.
La narrazione ha l’andamento della
descrizione di tranches de vie che non va a sfociare, universalizzandone i
contenuti, in un respiro più ampio. I capitoli si aprono e chiudono come delle
scenografie in cui avvengono i fatti circoscritti alle sensazioni derivate
dalle esperienze fanciullesche, anche se aleggiano, per tutte le pagine,
apprezzabile freschezza e levità che ben si sposano con il narrato. Le parole
accompagnano con precisione i gesti e le imprese dei bambini e degli adolescenti e ne risaltano bene i
contorni. Però il lettore è come uno spettatore che vede attraversare davanti a
sé, su uno schermo, le scene che divertono e alimentano la sua curiosità e l’intrattengono
piacevolmente, ma non lo coinvolgono intimamente.
Solo in alcuni punti la cronaca lascia la
mano a momenti di godimento letterario, come ad es. nel momento in cui l’autore,
identificandosi col narratore, narra al presente e attraverso una
consapevolezza matura, i pensieri del bambino di allora incapace ancora di
tradurre in riflessione consapevole l’esperienza del confronto con altri bambini e del valore della tradizione.
Quanto significato e quanta valenza questa
assuma negli accadimenti della vita sono espressi nel pensiero dell’io narrante adulto: nella raggiunta
consapevolezza, egli si accorge che tali
accadimenti non sono del tutto casuali ma
la casualità che riveste le cose si dà attraverso una forma definita
dall’ambiente di provenienza familiare. Il quale, se non si radica in una tradizione, appunto, non riesce a
fornire elementi di riferimento sicuri:
“Io sapevo che non solo non avevo la memoria della tradizione, ma avevo perso anche quella che, nel bene e nel male, mi avrebbe restituito un po’ di me stesso. Se mio padre avesse continuato a fare il contadino povero senza terra mi avrebbe potuto trasmettere di essere un contadino povero e senza terra. Avrei saputo zappare, seminare, innestare e parlare il sardo. Anche questa è una tradizione”.
Un altro elemento significativo del libro mi
pare si debba ricercare nell’assenza di rilevanti presenze femminili. Anche la
descrizione delle prime innocenti esperienze della sessualità, rendono
bene il gusto della scoperta ma il punto
di vista è sempre e solo quello maschile,
dei bambini, appunto.
Mancano del tutto i padri: i padri non
esistono se non come riferimenti negativi o insignificanti. Queste assenze si possono ben interpretare
come incapacità di quegli uomini di intraprendere un rapporto con i ragazzi e
mantenerlo. Sono esistenze volatili o pesanti e destabilizzanti ( il caso del
padre di Marteddu).
A fronte di queste assenze ci sono ,
viceversa, delle presenze ben marcate, i preti, che necessariamente assolvono
al compito negato dai padri.
Le madri, sono meglio connotate, ma di
sfuggita. Tanto che l’autore ricorre ad un espediente narrativo in cui
direttamente la madre del protagonista si racconta e racconta il suo punto di
vista, sull’ambiente familiare e sulla dolorosa esperienza della perdita di un
figlio. Questa presenza narrativa che appare in “camei” che costellano, a
tratti, la narrazione, hanno, secondo me, la funzione di introdurre uno sguardo
diverso, quello femminile.
Peccato, perché queste pagine non sembrano intrecciarsi
profondamente col resto delle narrazioni, e rimangono come “voce” isolata che non commenta ma
racconta solo di sé.
Il
libro di Salvatore Pinna ha, nel suo complesso, una grande valenza locale: quella di avere
raccontato il territorio di quella parte
importante della città di Cagliari che va a consistere nel Casteddu e’ susu colto nel periodo di passaggio da una
ricostruzione cogente con pochi margini di meta cognizione, alla consapevolezza
di una nuova società il cui inizio è
dato, come significato dal titolo, Fermata
al cinquattotto, lo stesso anno in cui si interrompe per sempre l’innocenza
dei ragazzi di Castello e si chiude definitivamente un’epoca che non avrà più
legami col nuovo mondo , quello delineato dal nuovo corso di cose del circolo di San Saturnino conquistato da
più scafati e politicizzati uomini organici al potere.
Maria
Rosa Giannalia
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