E' ancora là la casetta piccola, a due piani, dipinta di
calce bianca con striature ingrigite dal tempo. L'abbiamo messo in vendita. E'
in vendita già da alcuni anni ma non l'acquista nessuno. E' la casa dei miei
genitori. Sta in una vanedda, una viuzza come ce ne sono
tante, nel mio piccolo paese, in un quartiere cui, non ho mai saputo perché, fu
dato il nome di Tripoli. Ma fu un
nome profetico perché il trascorrere fatidico del tempo ha restituito il
senso a quel nome. Tanti magrehebini lo abitano adesso senza che la loro lingua
si distingua dalla parlata della gente di là. Stessi suoni gutturali, stessa
modulazione vocale, stesse parole , a volte. La lingua siciliana ha tante
inflessioni arabe e, se udita a distanza, sfuma e si confonde con questa e
questa con quella. Da tempo le inflessioni amalgamano quella gente in un'unica
popolazione, senza differenze se non nei nomi.
La mia casa si apriva alla strada e quasi proseguiva in
essa. La strada un tempo, nel mio tempo d'infanzia, non era un luogo diverso.
Era la casa stessa, solo all'aperto. Non un giardino, non un cortile, ma proprio
la casa stessa- solo priva del tetto- dove si andava, noi bambini a continuare
la nostra vita di dentro. Il fuori era sinonimo stesso della casa, e
indicava il suo luogo più fresco, quando
d'estate c'era un gran caldo e tutti non potevamo stare nel chiuso delle mura,
dove non era neppure pensabile un gioco di movimento per me e i miei fratelli,
noi che facevamo a turni intercambiabili gli yankee e gli indiani e ci rincorrevamo
e ci lanciavamo i sassi col tirapietre.
La strada era la nostra casa anche d'inverno, nei tiepidi inverni
siciliani, con le lame di luce nei gialli muri di tufo che a Natale ci facevano
gustare l'effetto dell'affabulazione collettiva all'aperto con distribuzione di
fette di limone col sale, in un giro di ragazzine vocianti e di madri
affacciate all'uscio. C'era in quella casa un terrazzo con le tegole del tetto
consunte per i troppi anni e ricoperte, a dicembre, da un fitto spessore di
muschio. Quello era il muschio di Natale per me che andavo a sollevarlo ,
attaccato com'era fortemente alla creta, con la lama di un coltello. Ce n'era tanto. Insieme ai miei fratelli lo
sdradicavo quasi tutto. E dopo averlo fatto essiccare un po' al sole, tutto
quel muschio diventava il tappeto erboso del nostro presepio. Andavamo poi alla
ricerca di pezzi di sughero, più difficili da trovare. Ma l'effetto finale era
bello: tutto quel sughero addossato alla parete della nostra sala da pranzo
diventava case, stalle, botteghe dell'arrotino e del pescivendolo, piccole
casette dentro le quali stavano a filare le figurine femminili del presepe e il
ciabattino con il martello e la scarpa
in mano. E le stradine di piccola ghiaia dove, vicino alla grotta si collocava
"u spavintatu ru presepiu" un pastorello con le braccia e le mani
alzate in atteggiamento di grande meraviglia per l'evento della nascita del
Bambino . Molto più difficile diventava la collocazione delle luci. Piccole
lucine tutte colorate che dovevano andare ciascuna dentro ogni anfratto di
sughero o dentro ogni casetta. Era lì che avvenivano le sciarre:
c'era sempre chi tra noi pestava il filo o non riusciva a districarlo o rompeva
le lucine. Allora erano sequele di urla dei più grandi e qualche scappellotto volava a filo di
testa.
Il presepio.
Persino l'acqua, quella vera, mettevamo dentro
una piccola vasca camuffata tutt'intorno dal provvidenziale muschio. Acqua che
spesso faceva saltare la corrente precipitando nel buio più completo quel
piccolo paesaggio, magari nel bel mezzo del pranzo di Natale.
Il pranzo non era quel
trionfo di gola che oggi affolla ogni tavola. C'erano gli anelletti col sugo di
carne e piselli, la pasta della festa, e i brocioloni ripieni di pangrattato,
uvetta e pinoli. Ma il segno distintivo della festa c'era sempre: cannoli e
buccellati. In tutte le tavole c'erano.
E quella nostra piccola
casa ci conteneva tutti, nonni, mamme, padri, zii e cugini, in un vociare
festoso e assordante al quale nessuno si sottraeva. La festa era stare tutti insieme nella casa piccola che
spesso si allargava nella strada . Bastava solo aprire la porta. E se qualche
vicino passava, pure lui era invitato a partecipare a mangiare e a giocare con
noi. La nostra piccola casa aveva, nel piano superiore , due piccole camere da
letto con il soffitto dove un qualche imbianchino con vocazione d'artista aveva
trovato il modo di dare un saggio della sua maestrìa: un dipinto con scene
campestri e tralci di edera. E persino una casa di campagna con tanti alberi e
tanto verde intorno, dove io mi rifugiavo immaginandomi avventure regali di
principesse e principi, di re e di regine. Quella era la casa dei miei sogni,
la casa che abitavo ogni notte, dove tra fughe di stanze e vasi di fior c'era
una stanza tutta per me con le tende bianche alle finestra e un letto a
baldacchino deve io dormivo da sola senza il fastidio dei fratelli e di mia
madre che mi costringeva alle faccende di casa. Cosa che odiavo di più al mondo:
non riuscivo a capire perché mai solo io, dei quattro figli che eravamo, dovevo
aiutare la mamma a pulire, rigovernare, lavare i pavimenti e rifare i letti.
Ecco, io questa cosa qui non la volevo
fare. Io volevo leggere e guardare la parete dipinta e immaginarmi principessa
in mezzo alle mie stanze. Ero strenuamente sorda ad ogni rimprovero e la mia
resistenza aveva quasi sempre la meglio.
Era in questa casa che
noi bambini aspettavamo a lungo, nei pomeriggi delle domeniche estive, mio
padre che ci prometteva di portarci al mare. Noi lo aspettavamo , ma quando la
luce del sole lasciava la mano alla azzurra penombra della sera, perdevamo le
speranze e uscivamo a giocare in strada con gli amici. Quelle delusioni
preludevano ai pianti e mia madre,
infastidita dalle proteste nostre e dall'assenza del marito, sfogava spesso il
suo malcontento facendoci rientrare alla svelta e sbarrandoci l'accesso alla strada con il
chiavistello. Spesso cenavamo senza di lui, spesso andavamo a letto senza
vederlo né salutarlo. Ma tardi, ancora sveglia, mi riusciva di sentire i passi
pesanti di mio padre che rincasava a notte fonda e qualche
strillo di mia madre che si lagnava di
aver dovuto, la sera della festa, cenare da sola con i bambini. Non erano
assenze colpevoli. Erano assenze necessarie. Lui, mio padre, il suo lavoro lo
cercava così, nella piazza del paese, nella banchina. La banchina era luogo dell'ingaggio e piazza degli scambi,
sito privilegiato delle transazioni ma pure del libero ritrovo tra uomini. Le donne non vi avevano accesso.
Solo i maschi potevano esercitare questo loro diritto tacitamente riconosciuto.
Anche le bambine non potevano frequentarlo, se non accompagnate dal genitore.
Lui, mio padre, mi portava qualche volta
con sé. Ed io riverberavo l'orgoglio dell'accesso in quel luogo a me proibito ,
se sola. C'era un caffè, poco più di un chiosco coperto in realtà, dove gli
uomini andavano a bere e a giocare a carte. Il bancone aveva una vetrina ricoperta di dolciumi che
variavano ad ogni stagione: cannoli, pasticciotti, iris con crema di ricotta, cartocci
pieni di crema, d'inverno; frutti di martorana, dolcetti biscottati all'anice,
pupi di zucchero per la festa dei morti in autunno; gelati di tutte le specie
in primavera e in estate. Ognuno per una festa . Ognuno col suo turno di
apparizione. Mi incantavo a guardare. Mio padre col suo sorriso appena
abbozzato mi lanciava uno sguardo d'intesa e faceva materializzare nelle mie
mani almeno uno di quei meravigliosi dolci.
E così, nelle mie sere
di festa, quando lui non tornava a casa a saldare la promesse di una passeggiata
, me ne andavo a letto delusa, ma non sconfitta. La mattina dopo, quando mi
alzavo per andare a scuola, mio padre era già andato via da alcune ore, lo
cercavo e non lo trovavo più in casa. Ma
sul grigio marmo del comò della sua camera da letto c'era sempre un
pasticciotto per me.
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