martedì 22 dicembre 2015

Poesia o non poesia?



C'è in Vibrisse, il blog dello scrittore Giulio Mozzi, un interessante dibattito nato intorno ad una riflessione su questa questione:

Non se ne può più delle lamentazioni sulla marginalità della poesia (e anche del loro contrario)

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I pareri espressi da  molti dei followers di questo blog sviluppano riflessioni parecchio articolate intorno a questo  e al più ampio tema di cosa rappresenta la poesia oggi e la bellezza che ne scaturisce. I pareri espressi sono estremamente interessanti e meritano un'attenta lettura per comprendere che la poesia anche in questo nostro tempo così complicato e , a volte, indecifrabile, offre uno spiraglio di godimento e di felicità.
Ne raccomando la lettura.

Qui di seguito l'articolo di Giulio Mozzi, il dibattito è qui

Vabbè, sto esagerando: io non ne posso più. Che la poesia non conti tutto sommato nulla nella vita sociale e civile del Paese, mi sembra una cosa ovvia. Non mi pare che Dante o Petrarca, per tacere di Leopardi e del Berchet, abbiano contato più che tanto – più che nulla – nella vita sociale e civile del Paese. Certo: guardiamo la storia d’Italia, e ci par di vedere una popolazione tutta compresa nei procomberò sol io (tanto per citare il peggio) e tutta intenta ad amoreggiare teologicamente e stilnovisticamente. Ma certo! Peccato che quella popolazione fosse l’un per cento, l’un per mille, l’un per diecimila della popolazione reale, della cui esistenza forse aveva qualche sentore, qualche vaga notizia, qualche rapporto ogni tanto. Oggi viviamo nell’alfabetizzazione universale, ma l’alfabetizzazione non è altro che alfabetizzazione: saper usare almeno al minimo indispensabile l’alfabeto; saper leggere le istruzioni per l’uso della lavatrice; saper compilare in Facebook uno status con la ricetta della parmigiana di melanzane (come la faceva la nonna, la mamma, ec.); e poco più. Notavo l’altro giorno, in uno studio pieno di gente laureata e postlaureata, tutta gente seduta davanti a dei pc e intenta a scrivere, che tutti furiosamente scrivevano usando un dito per mano: che è l’equivalente del tenere una penna come se fosse una vanga. L’alfabetizzazione porta all’alfabeto: non sta scritto da nessuna parte che se oggi metà della popolazione italiana è capace di comperare un libro (o prenderlo a prestito) e provare a leggerlo, perciostesso sia più sensibile alla poesia; o che o una quota maggiore (rispetto a un tempo) di popolazione sia sensibile alla poesia. No, no. E’ vero che Gabriele D’Annunzio vendeva vagonate dei suoi libri di poesia, ma D’Annunzio (allora) era come Fabio Volo (oggi): a prescindere da qualunque giudizio sulla qualità delle opere, tràttasi di autore-star che vende modelli comportamentali e di pensiero a un pubblico mediamente acculturato o aspirante ad acculturarsi mediamente. Che il divin Gabriele abbia cominciato dai libri e il buon Volo ci sia arrivato dopo, poco cambia.
Sono un lettore di poesia, lo confesso. Sono addirittura un compratore di libri di poesia: e talvolta divento matto per riuscire a comperare quel certo libro lì, che lo vendono solo presso il centro sociale occupato nei venerdì dispari dei mesi pari, tra le cinque e le sei di mattina, pagamento in talleri (o che lo pubblica l’Istituzione Solenne la quale, alla richiesta d’acquisto, risponde che loro i preziosissimi libri che stampano in limitatissime tirature li regalano, sì, li regalano soltanto: a un pubblico selezionatissimo: del quale io, volgare compratore, evidente non faccio parte, né posso aspirare). Sono un lettore di poesia antica, quattrocentesca, rinascimentale, barocca, addirittura sette-ottocentesca, e per di più contemporanea. Leggo poesia italiana, francese, inglese: dove ho un minimo di competenza linguistica, ché le traduzioni fanno quello che possono. Nella mia libreria ci sono più libri di poesia che romanzi e racconti, e soprattutto ci sono molti più libri di poesia contemporanea che libri di romanzi e racconti contemporanei.
Quasi tutto quello che so sulla scrittura, l’ho imparato leggendo poesia e leggendo quello che i poeti e certi critici scrivono o hanno scritto sulla poesia. L’intensità che cerco, nello scrivere, è l’intensità della poesia: la parola “intensità” è ingenua, ma spero mi si capisca. Non sono un poeta: non ho quella forza; anche se talvolta mi attento a scrivere in versi (non parlo di quelli scritti per gioco) e addirittura ho pubblicato due libri scritti in versi e tre libri tra le cui prose fanno capolino parti, sezioni, racconti scritti in versi. Un amico, recensendo uno di questi libri, ha generosamente scritto che io non sono un “prosatore”: sono un “versificatore”; ma si è ben guardato – giustamente – dal sostenere che io sia un poeta (vedi); perché i poeti sono bestie d’altra specie, forse d’altra natura.
Che la poesia sia irrilevante; sia marginale; che la poesia non conti (più) nulla; che la poesia sia soffocata dalla prosa; che la poesia si sia ridotta a essere una faccenda di conventicole; che la poesia si sia smarrita tra esperimenti paradossali fin nel nome di “poesia visiva” o “verbo-visiva”, “poesia sonora”, “videopoesia”, “poesia in prosa” o addirittura di “prosa in prosa”; che i poeti siano ormai una microgalassia di piccoli sistemi solari ciascuno contraddistinto da un’incomprensibile (o da una fin troppo comprensibile) poetica; che i poeti siano gentaglia che sta sempre lì a guardarsi, a spiarsi, a contendersi miserabili premietti, a contendersi gli inviti a festival più o meno internazionali e più o meno lussuosi o straccioni (perché ci sono anche i festival lussuosi, non crediate); che i poeti siano sempre lì a creare gruppetti e gruppettini, ciascuno avvinghiato alla propria pretesa rivista miserabilmente online, eventualmente associati in operazioni politicopoetiche di riconoscimento e recensionamento reciproco di rimbalzo e di sostegno: ma di tutto questo, vero o falso che sia (e non è del tutto vero né del tutto falso), che me ne importa?
La bellezza. Ah, la bellezza. Quando mi domandano che cosa cerco nelle opere inedite che quotidianamento scarico, leggo, scorro, scarto (e rarissimamente salvo per una lettura più approfondita, terminata la quale quasi sempre le scarterò), io rispondo: la bellezza. E tutti, dico tutti, quando dico questo, mi guardano straniti. La bellezza, eh sì. Mica l’aderenza a un genere letterario, o a una visione del mondo, o a una certa idea di letteratura, o alle esigenze del mercato (che, sia detto una volta per tutte: se le soddisfa da sé, le sue esigenze, senza che le case editrici possano farci nulla), o alla presenza di tutti i meccanismi narrativi giusti al posto giusto, o alla natura più o meno “di ricerca” o “sperimentale” delle opere, e così via: no, m’importa della bellezza, a me, e che in un’opera ci sia della bellezza me lo dice il mio corpo, semplicemente, perché per finir di leggere un’opera faccio tardi la notte o ci ho voglia di svegliarmi presto la mattina o mi dimentico di scendere alla stazione giusta (leggo molto in treno). Il mio corpo può sbagliarsi, ovvio. Ma se non mi fido di lui, di chi mi fido?
E la bellezza appare. La bellezza appare, qua e là, anche nella profluvie delle opere di poesia pubblicate dai centomila editori di poesia (l’Italia è un Paese di poeti che non leggono poesia, si dice: ma sarà anche un Paese di editori di poesia che non leggono ciò che pubblicano), anche nel pullulare del web, anche nel passaparola della Repubblica delle lettere, anche nei siti pretenziosi o non pretenziosi, la bellezza appare, talvolta, di rado, certo di rado – ma quando mai la bellezza è stata merce comune? Raramente, molto raramente. C’è stato qualche magic moment per la bellezza, nella storia umana: qualche.
La bellezza appare, e farà il suo effetto. Oggi sembra soffocata dalla massa delle produzioni insensate: è vero, la massa delle produzioni insensate copre, nasconde, invisibilizza; peggio: distoglie, deforma, mistifica. E’ forse peggio di quando una donna su cinque moriva di infezioni poco dopo il parto? No, è meglio. Questa è la modernità, o postmodernità, o ipermodernità, fate voi, ma questa è: teniàmocela stretta, teniàmoci stretti noi stessi per quel che siamo, ora, oggi.
Chi se ne importa, dell’irrilevanza della poesia. Mi importa la visibilità della bellezza. Proviamo a smettere di ragionare di poesia, e proviamo a ragionare di bellezza. Lo splendore della verità: ecco la bellezza. (Concetto vecchio, lo so: ma non ne trovo di migliori; anzi, non ne trovo altri, se non bassezze come l’eleganza, l’armonia, la bella maniera, la perfezione tecnica e simili). Lo splendore di un sasso, di un gesto, di una stanza vuota, di un odore di resina, di una visione angelica, dell’impronta di un corpo sul mio corpo, di una macchina perfettamente funzionante, di un bambino morto su una spiaggia, di mia madre immobile un istante dopo l’ultimo respiro, di tutto ciò che volete: lo splendore di ciò che più o meno fuggevolmente appare e sta nel mondo.
Non so se riesco a spiegarmi. E’ così difficile dire ciò che si crede di sapere (ma ci si può sbagliare) immediatamente, per intuizione.
Se avete letto fin qui, secondo me potreste leggere anche l’articolo: Che cosa faccio quando scrivo una poesia (brutta).
(Ah: è uno spinterogeno).

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