Nella
Repubblica di domenica 17 luglio 2016, un articolo di Mariapia Veladiano ”Quella
scelta al ribasso che alla lunga non paga”, fa riflettere i lettori sul calo di
qualità dei licei italiani dopo la riforma che ha introdotto, nei licei
scientifici, l’abolizione del latino come insegnamento curricolare, a favore di
altri insegnamenti dimensionati più sugli aspetti tecnico-scientifici che su
quelli umanistici. La Veladiano conclude la sua analisi dicendo che una ricerca
di maggiore “leggerezza” della scuola italiana non può prescindere dalla
qualità dei contenuti disciplinari. E in particolare afferma “ qui viene da
pensare che non sia ancora avvenuta nella didattica del latino una rivoluzione
come quella che ha felicemente rivoluzionato la didattica delle lingue moderne”.
Io
vorrei prendere spunto proprio da quest’ultima affermazione per analizzare cosa
si è fatto nella scuola e in particolare nei licei, da una ventina d’anni a
questa parte a proposito dell’insegnamento del latino e del perché, a mio
avviso, ci sia stato un vistoso spostamento degli studenti italiani, prima dai
tecnici verso i licei e poi dai licei tradizionali a quelli riformati.
Inizio
da quest’ultima questione.
L’esodo che abbiamo conosciuto dagli istituti
tecnici verso i licei, inizia intorno più o meno alla fine degli anni novanta,
quando il diploma rilasciato a conclusione del corso di studi tecnici e
professionali, non permetteva più l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro,
così come era avvenuto tra gli anni ’70 e ’80, quando ancora la crisi economica
non si era abbattuta con violenza sulle nostre attività industriali e aziendali.
Il
diploma rilasciato dagli istituti tecnici, che era considerato, nella
seconda metà del secolo scorso, una qualifica abbastanza importante, testimone
effettivo di una competenza teorica e pratica rispondente ai bisogni
del mercato del lavoro, con il precipitare della nostra economia, perse
progressivamente importanza poiché non più spendibile né nell’immediato né nel
futuro.
Pertanto,
una parte degli studenti che fino ad allora afferiva a questa tipologia di
istituti, ritenne di dovere completare la propria formazione con una qualifica
maggiore attraverso un regolare corso di studi universitari e il conseguente
diploma di laurea; un’altra parte, forse la più consistente, abbandonò ogni
velleità di ricerca di lavoro in linea con la propria qualifica e iniziò a
cercare un lavoro qualsiasi, purché retribuito.
Indipendentemente
dalla congruenza tra le preferenze personali e le scelte del corso di studi
medi superiori, una buona parte di giovani continuò il proprio percorso
formativo negli istituti tecnici, perché lo sbarramento nei licei,
rappresentato dalla consistenza oraria dell’insegnamento delle materie
umanistiche, veniva ritenuto sia troppo difficile sia non efficace nella
prospettiva di lavoro.
E’
avvenuto che tali istituti tecnici e ancor più gli istituti professionali,
avendo perduto la loro finalità formativa immediatamente spendibile, prestarono
il fianco ad una svalutazione di quei corsi di studi in senso stretto e ad una
maggiore praticabilità in senso lato da parte di quegli studenti che in un modo
o nell’altro pensavano di dovere concludere col diploma di scuola media
superiore la loro formazione scolastica.
Ed
è a questo punto allora che una certa parte di studenti, magari sollecitati
dalle famiglie che volevano a tutti i costi per i propri figli un diploma di
qualità, iniziano a cambiare rotta, cercando nella frequenza dei licei quello status sociale e formativo che
ormai scarseggiava negli altri istituti superiori. Ma qui naturalmente il
barrage ai licei scientifici era costituito dallo studio del latino.
L’insegnamento del latino in questi licei, non si è mai caratterizzato con un
approccio alla lingua e alla cultura diverso da quello posto in essere nel
liceo classico.
Diciamo
che il curricolo caratterizzante del percorso liceale è stato centrato su due
aspetti essenziali: l’insegnamento della lingua latina che, almeno
nell’intenzione del legislatore, doveva essere finalizzata alla lettura diretta dei classici e lo studio della civiltà latina attraverso percorsi antologici.
Forse
solo una questione di quota oraria dedicata al latino costituiva, di fatto, la
differenza tra classico e scientifico. Meno preponderante è stata invece la
quota-ore nei licei delle scienze umane e nel liceo linguistico, dove pure si
insegna questa materia.
Ogni
docente di latino sa quanto sia ostico il percorso di lingua e grammatica per
gli studenti, basti, per questo, vedere gli esiti finali quadrimestrali della
maggior parte di essi, anche se , di fatto, alla fine dell’anno, motu pede,
molti studenti vengono ugualmente promossi alla classe successiva.
Ma
quanto formativo rimane questo percorso? A detta degli studenti il latino è una
materia inutile che fa perdere tempo, che costringe a spremersi le meningi in
un esercizio tanto inefficace quanto vano, del quale molti di loro non
afferrano la necessità.
A
questo punto allora la domanda che si impone è: ma perchè iscriversi al liceo?
Perché gli studenti non scelgono altri percorsi più consoni alla loro disposizione mentale e
alle loro preferenze?
Da
una parte l’istituzione-scuola ha dato una risposta molto semplicistica e
squalificante abolendo tout court il latino da alcuni indirizzi del liceo
scientifico, con conseguente e graduale svuotamento
e svilimento della strutturazione generale di quell’idea di liceo, dall’altra
non operando una vera e propria rivoluzione nella didattica del latino, di cui
parla la Veladiano.
Sarebbe
come dire che , per evitare gli incidenti automobilistici, dovessimo abolire le
auto e andare tutti a piedi.
Ma
in che modo avrebbe potuto darsi questa rivoluzione?
E’
questo il problema più spinoso e più difficile da affrontare e che , a mio
avviso, né i docenti, né l’istituzione, vogliono e sanno affrontare veramente.
Perché? Quali sono gli impedimenti che frenano tale rivoluzione? Uno solo e
grandissimo forse: il cambiamento di mentalità e di prospettiva, il mettersi in
gioco ogni giorno sperimentando, sulla base degli studi di didattica che pure
sono stati fatti con grande perizia e coraggio da alcuni docenti in questi
ultimi vent’anni ( cito qui solo una delle tante risorse disponibili in rete ).
Studi
che non sono “aria fritta” per dirla con l’espressione che spesso viene
utilizzata da molte parti interessate a
proposito della formazione.
Ma soprattutto, mi chiedo, perché i percorsi di formazione dei
docenti sono così tanto trascurati? Eppure le istituzioni preposte hanno
investito risorse umane ed economiche veramente cospicue in questi ultimi anni,
ma la ricaduta è sempre, inesorabilmente, drammaticamente pari allo zero.
Qualcosa
non va bene.
Più di qualcosa: è l’idea stessa di scuola che lo stato non
potenzia, investendo male e solo attraverso quei pezzettini, quei contentini, quei
pannicelli caldi che sprecano solo risorse ma che non servono a nulla.
Altrimenti
perché ancora oggi una buona parte dei docenti di latino si ostina a insegnare
con protervia la declinazione di rosa-rosae, invece di presentare agli studenti
quel grande, immenso e accattivante patrimonio culturale rappresentato dalla
lettura dei classici in una lingua che gli studenti possano comprendere?
L’italiano, per esempio? E da lì partire per una riflessione a ritroso sulla
cultura e sulla lingua che molte università straniere ci invidiano?
Per
concludere, quindi, le “scorciatoie all’impegno”, di cui parla Mariapia Veladiano, non sono solo quelle degli
studenti, ma di molti docenti e della scuola stessa che non è capace di
ripensare se stessa nei termini di valorizzazione di ciò che c’è nel nostro patrimonio culturale, prima che nei
termini di abolizione di ciò che è faticoso.
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