domenica 16 ottobre 2016
Che me ne faccio del latino? Una opinione di Antonella Pingiori
Partiamo dall'amara considerazione di Salvatore Settis: “La radicale marginalizzazione degli studi 'classici' nella cultura generale e nei sistemi scolastici è un processo di profondo mutamento culturale che non possiamo in nessun modo ignorare...”(1)
Già, la cultura classica, nel nostro Paese, ultimamente, si trova relegata in ambiti sempre più ristretti, da un lato; e fatta bersaglio dei più sterili attacchi, dall'altro. I giornali riportano che quest'anno, almeno nella nostra città, Cagliari, i classici hanno registrato un brusco calo di iscrizioni, mentre reggono bene i licei scientifici nei quali va facendosi largo, a tutto danno dell'indirizzo ordinamentale, il corso di scienze applicate, proposto come più appetibile, (in quanto privo dell'insegnamento del latino), a studenti ben disposti a farsi convincere in tal senso. Del resto, i nostri alunni non si chiedono da tempo “Che me ne faccio del latino?”, ignari del fatto che un giovanissimo Gianni Morandi, nel lontano 1967, in uno di quei film noti come musicarelli, rivolgeva fiducioso alle galline dell'aia la stessa domanda esistenziale, cantando a squarciagola?
“Che me ne faccio del latino, se devo dire pane al pane e vino al vino?”, si chiedeva l'eterno ragazzo di Monghidoro. Al latino, infatti, si è sempre rinfacciata la sua inutilità, perché questa disciplina viene percepita come insieme astratto di regole che, acquisite mnemonicamente, non avranno mai alcuna ricaduta nella vita pratica. Ma se partiamo da questa errata convinzione, chiediamoci piuttosto, prima ancora di “Che me ne faccio del latino?”, che cosa è il latino. Ci risponde Nicola Gardini che nel suo bel libro, intitolato ironicamente “Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile”, dice: “Il latino è la lingua dell'antica città di Roma e della civiltà che vi si è originata e di lì si è espansa nel corso di numerosi secoli su un territorio assai ampio, il cosiddetto impero, diventando mezzo di espressione e comunicazione per gran parte dell'umanità, in forma scritta e orale, e fornendo ancora nell'età moderna, pur molto tempo dopo che il latino parlato ha dato luogo a idiomi distinti (le cosiddette lingue romanze), un mezzo espressivo a poeti, letterati e studiosi di varie discipline.
Il latino è la lingua delle istituzioni giuridiche, dell'architettura e dell'ingegneria, dell'esercito, della scienza, della filosofia, del culto e – quel che qui più interessa – di una florida letteratura, che è servita da modello a tutta la letteratura occidentale dei secoli successivi.” (2)
Se riflettiamo su tutte le considerazioni che l'Autore ci propone, appare allora chiaro che se è vero, come sostiene la prof.ssa Giannalia, che per avvicinare i nostri studenti a questo mondo così ricco e straordinario la didattica del latino va completamente ripensata; è anche vero, e qui so bene che risulterò sgradita a molti, che attraverso lo studio del latino, e di tutto quel mondo che esso consente di conoscere, deve passare pure un altro insegnamento: e cioè che non tutto è facile e immediato, che non tutto può essere affrontato con quella superficialità che spesso degenera nella cialtroneria e che certe attività richiedono rigore e disciplina, se si vuole che siano davvero produttive. E qui sono ben consapevole che molti, soprattutto se genitori di dolescenti che decidono in quale tipo di scuola iscrivere i propri figli, storceranno il naso.
Non possiamo infatti nasconderci che, ultimamente, l'educazione che i genitori hanno deciso di impartire ai propri figli è, nella maggior parte dei casi, volta ad evitare qualsiasi ostacolo possa provocare delusione e frustrazione nel ragazzo. Chi legge e insegna sa bene che, da una decina d'anni a questa parte, nelle nostre scuole si assiste ad un continuo trasferimento da un corso all'altro da parte di studenti che vanno alla ricerca di quella classe perfetta, nella quale tutti i docenti dimostreranno di saper riconoscere, e adeguatamente apprezzare, il loro straordinario ingegno. Chi insegna sa bene che questo malcostume, che getta discredito su alcuni docenti che commettono magari l'unico errore di voler valutare le conoscenze e le competenze dei propri alunni, viene avallato dai dirigenti scolastici che, timorosi di un calo delle iscrizioni, sono disposti ad accogliere qualsiasi richiesta e a soddisfare qualsiasi pretesa. Sono quelli stessi dirigenti che esortano i docenti ad accogliere l'indirizzo delle scienze applicate che aumenterà l'offerta formativa dell'istituto, sostengono recitando accuratamente la loro parte, per poi aggiungere, senza vergogna, che gli studenti, del resto, hanno paura della versione di latino... Mi chiedo: ma non hanno paura anche del compito di matematica? Perché non decidiamo, allora, di abolire questa disciplina dal curricolo?
Mettendo da parte una certa vis polemica, alla quale non riesco a sottrarmi del tutto essendo io parte in causa, mi sento però di aggiungere un'ulteriore considerazione. Attraverso lo studio del latino si entra in contatto con una straordinaria civiltà che, ancora oggi, ha tanto da dirci e tanto su cui farci riflettere. Studiare una civiltà, sia antica che moderna, non può che costringerci a interrogare noi stessi sulla nostra civiltà, sui valori nei quali crediamo e che ci sforziamo di seguire. Studiare i testi di autori che ci sembrano tanto lontani ci aiuta a maturare e ad acquisire uno spirito critico che dovremmo imparare ad esercitare sempre, per evitare che siano altri a farlo al nostro posto decidendo per noi.
Che i nostri ragazzi diventino persone consapevoli a chi fa paura?
(1). Salvatore Settis, Futuro del “classico”, Einaudi, Torino 2004, pag.16
(2). Nicola Gardini, Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile, Garzanti, Milano 2016, pag. 19
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