Il mio sogno a vent'anni si chiamava Londra, aveva il suono dei Beatles, la spensieratezza dell'isola di White, i colori delle minigonne di Mary Quant, le forme evanescenti di Twiggy, la libertà sessuale, lo shopping a Soho e gli spettacoli a Piccadilly circus.
Quando un sogno concepito a vent'anni si realizza quarant'anni dopo, è necessario che cambi il sogno o l'aspettativa?
Non lo so. Io son partita e basta, pronta a meravigliarmi e lasciarmi incantare come a vent'anni.
L'aspetto più inatteso del mio viaggio mi si rivela subito: per mia scelta vado a stare in una casa nel punto d'incontro del territorio tra Chesam e Amersham, due cittadine situate nella zona nove della metropolitana di Londra. Nella zona dei boschi, dove della città non arriva più nemmeno l’eco. Dove la gente ogni mattina prende il treno, poi la metro, poi cambia treno, e finalmente raggiunge il posto di lavoro. La mia prima Inghilterra è stata la vita nel cottage immersa in un silenzio verde, costellato dai ritmi della natura. Ho visto "gli inglesi" dei due paesini, la loro vita quotidiana, ho condiviso gli stessi supermercati e lo stesso unico pub. E ho mangiato lo stesso gelato.
Mi avevano detto dell'indifferenza degli inglesi, ho trovato invece la differenza, la differenza della civiltà, quando cioè la civiltà passa dall'essere imposta ad essere spontanea. Mentre metto dentro i sacchi della spesa gli alimenti che ho appena acquistato, non c'è nessuno che mi "prega" di farmi in là. Un signore anziano aspetta che io abbia finito di deporre l'ultimo pacco di biscotti prima di avviarsi dietro di me verso l'uscita. Una sorridente ragazza bianca e rossa (sorella di biancaneve, penso) mi serve un gelato rivolgendomi la parola nella sua lingua che io capisco molto all'ingrosso, e poi dopo il mio "grazie" in italiano , mi dice I like Firenze, I like Italy e di quello che mi ha detto dopo ho capito solo il sorriso.
Londra. L'ho vista prima di tutto in metropolitana. Affollata di tutto il mondo. Giovani e meno giovani, silenziosi, rispettosi, non una voce fuori tono. L'ho visto nei volti di indiani, pakistani, africani, giapponesi, cinesi, e qualche inglese, così, uno ogni tanto, giusto per i capelli biondi e la pelle chiara, ma potevano essere anche cittadini europei dell'est o dell'ovest, fa lo stesso. Poi il Big Ben. E' la prima cosa che ho visto e sentito. E Westminster, l’abbazia.
E le tombe dei re e delle regine, le lapidi dei poeti, quella di Geoffrey Chauser, messo lì non perchè abbia elevato la lingua anglosassone a dignità letteraria, come avevo studiato a scuola, ma, come mi ha detto la guida, perché era stato un oculato e attento amministratore dell'Abbazia. Il Tower Bridge, simbolo di questa città operosa, capolavoro di ingegneria meccanica e idraulica, a ridosso dell'area della Torre di Londra fortezza medievale turrita e murata. Piena di ragazzini che si divertivano con gli spettacoli interattivi fatti apposta per loro. Un banditore e un soldato, le parole non le ho capite, mio retaggio culturale della scuola italiana che ci insegnava il francese , lingua di cultura, e non l’inglese, lingua commerciale. E così l’inglese non sono più riuscita ad impararlo. E con le quattro parole rabberciate che conosco ho cercato di comunicare le cose di base. Ma in fondo ho capito lo stesso, perché la lingua non si coglie dalle sfumature eleganti dei ragionamenti , ma dalla necessità di capire e farsi capire.
Vedere Londra dal Tamigi mi fa un effetto spiazzante: tutte le costruzioni a destra e a sinistra del fiume, affastellate in mille stili diversi: l’antico e l’ultramoderno del piccolo “cetriolo”, dei palazzi di vetro, delle costruzioni avveniristiche dalle architetture audaci, mi lasciano basita. Abituata a vedere i centri storici delle nostre città, omogenei nelle linee delle strutture architettoniche e nelle strade, non sono preparata a percepire tutto questo post moderno.
Poi mi accorgo che è una precisa scelta. La città vecchia vive e pulsa all’unisono con quella ultramoderna senza soluzione di continuità. Non ero preparata al traffico, agli autobus e alle miriadi di taxi neri sfreccianti in tutte le strade. In questo che percepisco come caos iniziale, vedo una logica , un senso. E così agli spazi cittadini intensi e vivi di movimento, corrispondono gli spazi verdi, tranquilli dove trovare un momento di quiete anche nella pausa pranzo, come si vede da impiegati di tutti i tipi che, alla una del pomeriggio, stendono sull’erba un plaid e tirano fuori il pranzo dal cestino, sdraiandosi in giacca e cravatta gli uomini e in gonna e tacchi le donne. Sapersi godere la vita, penso, anche in mezzo al lavoro. Ecco. Una cosa così noi non la concepiamo neppure. No, aspetta, noi di Cagliari, sì. Abbiamo il Poetto dove andare a mangiare nelle pause pranzo. Ma nei baretti e sui tavolini, non certo nella sabbia a ridosso del mare.
Vado a vedere il Globe Theater shakespeariano, ricostruito, guarda un po’ con soldi raccolti scrupolosamente da un americano, mica da un inglese. Però eccolo lì. Le spiegazioni sono meticolose fino alla pignoleria, la visita guidata dura un sacco di tempo perché la guida ci tiene a fare bene il lavoro per cui è pagata. E ti dice e ti spiega fino all’ultimo sedile, come è costruito e perché, cose che in fondo non vuoi neppure sapere, non te ne importa, ti basta dare un’occhiata globale. Ma no. La guida il suo lavoro lo deve fare e lo fa e coinvolge i turisti con battute che io non capisco ma che posso solo immaginare.
Poi vai a Windsor, il castello inglese per antonomasia, medievale, imponente. La regina apre i suoi spazi privati a tutti i cittadini inglesi e non, basta che paghino l’ingresso. Ma la gentilezza del personale e l’accoglienza vale tutto il viaggio e i soldi spesi. Tu dici ma si può vedere che una regina apra la sua casa le sue stanze, che si vendano i souvenir con la sua faccia stampata dappertutto, anche sugli strofinacci da cucina? E sì per i suoi novant’anni giubilari, la regina ha fatto questo e molto altro. D’altra parte la gigantografia che la ritrae all’ingresso del castello, non mostra una donna dall’aspetto regale con la corona in testa, ma una donna anziana in blazer e scarpe comode attorniata da tutti i suoi pronipoti.
Ecco questo concetto di regalità mi è stato chiaro solo lì.
L’imponenza del castello, le linee pure dell’architettura medievale, quelle sì, riconducono all’idea di maestà, l’erba verde dei giardini è la stessa però di tutti gli altri parchi cittadini.
Mi colpisce lo slogan nella metropolitana e nei treni: vuoi vedere il mondo? Vieni a Londra. Capisco il perché. Tutto il mondo lì è a casa sua. E allora pensi a come abbiano potuto, gli stessi inglesi, votare per la Brexit. Ma come? Vogliono separarsi dal mondo? O forse il mondo che c’è a Londra è separato già dal resto del Regno Unito? Si dice che gli inglesi ci tengono alle tradizioni.
Il mio sogno erano i Beatles e tutto quanto era dentro l’atmosfera degli anni sessanta e settanta. E adesso? Questo sogno si infrangerà con questa realtà? E tutti i ragazzi di tutti i colori che lavorano nei bar, nei pub, nei ristoranti, nelle librerie, nei fast food, nelle stazioni metropolitane, nei bagni pubblici, non saranno più inglesi degli inglesi? Non tengono pulita la città, non nutrono i milioni di uomini e donne che transitano quotidianamente in questa megolopoli? Beh, io alla BREXIT non ci credo. Non può essere . Forse Londra non è tutta la gran Bretagna.
Sono ormai alla fine del viaggio. Sono nel taxi che da Londra mi porta a Heathrow, sono le cinque del mattino, ai lati dell’autostrada, nell’alba ancora livida, solo fitti alberi gocciolanti di pioggia, canticchio tra me e me la canzone di John Lennon
Imagine there’s no countries
It isn’t hard to do
Nothing to kill or die for
And no religion too
Imagine all the people
Living life in peace…
Anche questo, forse, rimarrà un sogno.
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