mercoledì 11 dicembre 2013

Etichette


Ci dev’essere una forma di perversione nella produzione di tutte le aziende tessili, ma soprattutto di quelle che producono confezioni di tutti i tipi, per adulti, per bambini, per donne e uomini di tutte le età. E’ una perversione che le ditte esercitano in modo democratico, senza distinzione di alcun tipo, proprio come recita l’articolo tre della nostra costituzione. E bisogna dare atto ai manager di queste aziende che, in questo senso che adesso vi dirò, non fanno mai discriminazioni nell’appiccicare le etichette a qualsiasi forma di abbigliamento.
Viene da sé pensare che ciascuna azienda voglia non solo specificare l’origine del prodotto- molti, potendo, ne farebbero volentieri a meno, considerato che  ormai poco o nulla  è prodotto in Italia-, la bontà, la fattura, la qualità ma anche il marchio di fabbrica, il nome o quello che in gergo si chiama la griffe. Si sa che il Consumatore Modello trova molto più chic comprare un capo di abbigliamento griffato, anche se  lo acquista in un qualsiasi outlet a meno della metà del prezzo  pubblicizzato nelle riviste patinate. Ma il Consumatore Modello ci tiene a far bella mostra del marchio, pensano le aziende, quel marchio che  lo distinguerà da tutti gli altri milioni di Consumatori Modello sparsi per il mondo che, a loro volta, vogliono distinguersi come lui nella scelta del loro personale capo di abbigliamento. Questo è più o meno quello che pensano i manager delle aziende di abbigliamento. E qual è il posto più consono per fare trionfare il marchio di fabbrica? Qual è la personale vetrina che ciascun Consumatore Modello deve portarsi in giro  ogni giorno per pubblicizzare il marchio che lo configurerà come acquirente chic, più elegante degli altri consumatori? Facile. Il posto migliore è esattamente alla base del collo, nella parte centrale della scollatura posteriore  di maglie, maglioni, camice, camicette, magliette, abiti, vestiti eleganti, sportivi, vale a dire di tutto  ciò che viene indossato. E nelle canottiere e maglie intime, quando la scollatura posteriore non coincide con la base del collo, allora gli stilisti, i designer o i decisori di politiche di produzione, pensano che sia molto efficace, per pubblicizzare i prodotti, attaccare le etichette o sul centro delle scollature che andranno a posarsi esattamente al centro del dorso, oppure, spingendosi fino alla massima raffinatezza, attaccando le stesse o sotto la scollatura delle maniche in modo che vadano a sfregare con il  loro tocco taumaturgico le ascelle, oppure nella zona tra la vita e l’anca sinistra.
 Perché poi venga scelta questa parte sinistra anziché la destra, rimarrà un mistero o potrà spiegarsi solo con un’analisi storico-morale-religiosa-escatologica che individua in tutto ciò che è sinistro uno strumento e una modalità  di castigo finalizzati a redimere l’anima umana rendendo degno ciascuno di noi della vita eterna. Infatti con l’etichetta-strumento-di-tortura avremo già scontato i peccati in questa vita terrena.
E così ci portiamo addosso tutte le nostre belle etichette. Le quali, a ben pensare e solo dopo l’uso prolungato che facciamo dei nostri capi di abbigliamento, diventano strumenti di tortura tenaci ancorché subdoli e apparentemente innocui, anzi, addirittura gratificanti.
Qualcuno di noi si spinge a osare di tagliarle con le forbicine della manicure, magari dopo avere indossato il capo per una settimana ed essersi grattato il collo o l’ascella o il fianco fino a fare grondare di sangue la pelle e avere macchiato, e non sempre smacchiato, i capi di cui sopra. Ma…non basta. La perversione dei nostri  produttori si spinge ben oltre. Non si deve pensare di potersela cavare con così poco, naturalmente. Che basti cioè l’intervento di un paio di forbicine risolutorie ad eliminare il problema. Le aziende ci tengono molto a che i loro prodotti portino il marchio distintivo fino alla fine. Non si specifica di quale fine si tratti o del capo  o del Consumatore Modello. Ma come fanno questi decisori di politiche di marketing ad assicurarsi che i tentativi di eliminare le malefiche etichette cadano nel vuoto? Semplicissimo: fanno affidamento sulla pigrizia del Consumatore  Modello. Credo anzi che commissionino a stuoli di psicologi lo studio particolareggiato del comportamento del Consumatore e della Consumatrice medi: costoro acquistano i loro capi di abbigliamento dopo una scelta accuratissima di modelli alla moda, marchi, griffe e meno accurata della qualità e della composizione dei tessuti, meglio se sintetici così non si stirano, e che infine non debbano richiedere alcun altro intervento se non quello di entrare e uscire dalla lavatrice e dall’asciugatrice; nei nostri climi, dallo stenditoio sistemato sul balcone o sul terrazzino del soggiorno. Questo è il massimo che ciascun Consumatore Modello si sente di fare per il trattamento dei propri capi di abbigliamento. I quali pervicacemente resistono alle alte temperature, tutt’al più  cambiano colore a seconda della perizia di chi in famiglia si occupa di fare le lavatrici previa rigida o raffazzonata ripartizione sulla base dei colori. Poi più nulla. E le etichette? O non vengono considerate moleste, almeno sulle prime, e allora rimangono attaccate ad libitum o, pur essendo considerate moleste, vengono lasciate sul posto, poiché il Consumatore Modello preferisce soffrire piuttosto che dovere spendere  una decina dei suoi preziosissimi minuti a tagliare le etichette malefiche di cui sopra e, soprattutto, a scucire e ricucire i bordi. Perché, e questa è la perversione sicuramente decisa a tavolino dai manager di cui si è detto, le etichette vengono passate a macchina e attaccate ai capi, non dopo la confezione dei bordi, ma durante. In modo che chiunque si azzardi a tagliarle, dovrà poi scontare una pena ben dura: ricucire i bordi slabbrati dei vari capi. Oppure andarsene in giro con spaventosi buchi dappertutto, financo nelle mutande e nelle canotte intime. E chi di noi, ligio agli insegnamenti di madri e nonne amorevoli non penserà tra sé: e se mi càpita qualcosa in strada, che so, un malessere improvviso, e mi devono portare all’ospedale, che figura ci faccio col buco nelle mutande?
E così i Signori del Nostro Consumo continuano o torturarci. E pure a nostre spese.

Maria Rosa Giannalia

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