lunedì 2 dicembre 2013

Riflessioni allo specchio




“Mi aspetto una scuola che possa diventare
 un luogo d’incontro piacevole, dove, oltre
 alle materie scolastiche, si svolgano tante
 attività sportive, teatrali e così via, ma soprattutto
 mi aspetto di imparare.”

Manuela, I liceo scientifico, 14 anni



Manca  solo un  giorno ( ovvero Riflessioni allo specchio )

Manca solo un giorno. Solo un giorno e  questo bailamme si fermerà per un po’.
Così pensava Carla  mentre si recava per l’ennesima volta ad un inutile collegio dei docenti.
Inutile e dannoso. Anzi inutile , dannoso e pericoloso. Per l’integrità sua e di molti altri colleghi.
Il  giorno che mancava era quello dell’inizio delle vacanze di Natale.
Anche quell’anno Natale si avvicinava  provvidenziale.
Carla non sapeva più se poteva considerarsi docente di quella scuola, oppure una studentessa di età molto avanzata  a “rischio” di dispersione.
Pensava quella sera che i progetti contro la dispersione scolastica finanziati dal ministero avrebbero dovuto essere anche contro quella  dei docenti.
Dispersione di se stessi e della propria identità.
A volte non sapeva bene chi fosse ancora o chi fosse mai stata.
Una professionista, no. Una operatrice scolastica, neanche. Non c’era nessuna opera cui sovrintendesse.
Cosa era allora?
Vediamo… avrebbe potuto definirsi una facilitatrice di nascita di pensieri in adolescenti video-audio-lesi.
Di pensieri?  Di qualcosa di simile a pensieri… ecco…, di brandelli di pensieri.
La definizione esatta avrebbe potuto essere questa: facilitatrice della  nascita di brandelli di pensieri in adolescenti video-audio-socio-lesi.
Questa poteva essere una definizione più adeguata del lavoro che effettivamente svolgeva.
Se solo ci fosse un  termine breve per potere definire questa cosa sarebbe stato sicuramente più efficace del pomposo docente, oppure insegnante o, peggio che mai, professoressa.
La consolava però sapere che quello era il giorno prima dell’ultimo giorno prima delle vacanze di Natale.
E così fece a se stessa un mezzo sorriso e parcheggiò la sua utilitaria  in un posto molto defilato dentro il cortile della scuola, a mezzo tra il bordo asfaltato e l’inizio del prato erboso del campetto di calcio. Altro spazio non c’era.
Erano le sette e mezza di sera. Già, perché i doppi turni costringevano le riunioni a ore pre-notturne.
Comunque, Carla chiuse lo sportello , si calcò il berretto sulla testa a causa della sua artrosi cervicale ormai ventennale, attraversò il cortile invaso da una selva di automobili di piccola cilindrata come la sua  e diede una spinta vigorosa alla porta d’ingresso.
La riunione  era già iniziata da una buona mezzora. Dal corridoio si udiva la voce stentorea di un collega, sempre lo stesso, uscire amplificata dal microfono dell’aula magna.
Ormai quella voce si fondeva  per Carla in un’unica sensazione. Di nausea. Nausea ed ansia . Aveva analizzato bene le due sensazioni perché all’inizio non riusciva a definirle. Le ci erano voluti ore di riflessione per potere nominare in qualche modo il nodo alla bocca dello stomaco, l’impulso di urlare basta-facciamola-finita e il senso di fastidiosa vertigine che associava al suono di quella voce.
Infine aveva trovato quelle due parole: nausea e ansia, meglio nausea ansiosa.
Tuttavia a passi veloci doveva recarsi nell’aula magna. Per legge. Non avrebbe potuto sottrarsi se non  attraverso debita certificazione medica.
Quasi non si avvide di una figura piccola e scura che le si avvicinava  dal mezzo del corridoio.
Venne fermata di botto. Si accorse , qualche minuto dopo, che era una collega della quale non ricordava più né il nome  né il volto. Ma doveva essere stata in qualche modo una di quelle colleghe poco visibili e pur tuttavia amabile nella sua quotidiana trasparenza, perché le si avvicinò con fare affettuoso e col sorriso sulle labbra, cosa molto inconsueta in quel posto tetro che tutti si ostinavano a chiamare liceo.  
-Dai, vieni dentro un attimo- le disse invitandola ad entrare in un’aula laterale del corridoio- non ti tratterrò molto, ma devi entrare almeno per  un po’.
Carla non cercò di defilarsi, il sorriso era sincero e la prospettiva della riunione era certo poco allettante. Per questo entrò.
Quattro banchi di fòrmica azzurra erano stati avvicinati tra loro a formare un tavolo quadrato sul quale erano state dispiegate delle grandi tovaglie di carta rossa e sopra di esse sei o sette vassoi ricolmi di pasticcini con crema e frutta e sfogliatine ripiene al prosciutto e formaggio.
Otto bottiglie di bibite varie disposte al centro erano attorniate da pile di bicchieri di plastica bianca.
-Ti prego, prendi qualcosa , bevi un po’ di succo di frutta o di aranciata. C’è anche del tè freddo se vuoi- disse con un sorriso invitante.
-Ma perché, chiese Carla? Come mai questo rinfresco? E gli altri?
-Ma non sai che sono andata in pensione? Al primo di settembre. Sì, sono andata in pensione e stasera volevo fare una sorpresa ai colleghi, volevo salutarvi. Aspetto la fine della riunione.
-Ah, bene, disse Carla, finalmente potrai fare ciò che vuoi, potrai goderti la tua famiglia, potrai stare con i tuoi figli, potrai cucinare, potrai…
-Non ho famiglia, rispose la collega, non ho figli, non ho un marito. Sono sola- rispose con un sorriso ora stirato..
-Meglio, potrai andare, che so, in viaggio. Ecco, potrai viaggiare finalmente non in periodi festivi quando tutto è più caro. Potrai andare dove vorrai- disse Carla con un tono che simulava l’allegria.
-No, non posso andarci. E con chi ci potrei andare? – rispose questa volta seria, la neo pensionata
-Mah, allora non so, potresti fare qualcosa, dedicarti a qualche tuo interesse personale, potresti cercare nuove amicizie, potresti…-Carla cercava nuovi suggerimenti.
-Non so… mi manca la scuola, mi mancano i ragazzi…
-Ma non starai dicendo sul serio? Ti manca tutto questo? Disse Carla allargando il braccio in gesto eloquente, mentre dal fondo del corridoio proveniva ancora una mistura di voci microfonate e indistinguibili.
-Sì, mi sembra di sì- rispose la collega. – Ti prego, prendi ancora un’altra pizzetta, un altro pasticcino…
Carla si fermò ancora in quell’aula più di quanto volesse. Prese un'altra pizzetta, un altro pasticcino e poi ancora un’altra pizzetta e poi bevve un bicchiere di aranciata. Ma era molto tardi, le voci al microfono si avvicendavano tumultuose in un crescendo disordinato di suoni . Doveva proprio andare ormai. La salutò, la baciò su entrambe le guance, e si avviò lungo il corridoio lasciando la collega in compagnia di un’unica bidella che continuava a mangiare i suoi pasticcini.
Carla entrò nell’aula magna o quella che pomposamente era abitudine definire così. In realtà era un padiglione aggiunto al corpo dell’edificio , in un successivo e improcrastinabile momento, quando il numero degli studenti e degli insegnanti, era più che raddoppiato.
In questo locale male illuminato e peggio riscaldato erano stati disposti su venti file parallele una serie di sedie in stoffa azzurra tutte collegate tra loro con un’unica lunga sbarra di ferro che aveva lo scopo perverso e preciso di fare dondolare all’unisono tutti gli occupanti quando uno solo di loro, o per un caso fortuito o per consapevole cattiveria, prendeva a dimenarsi sul sedile per qualche oscuro motivo.
Nella zona centrale a ridosso della parete troneggiava un lungo tavolo in formica, bianco e spoglio, con ai lati da una parte un microfono mobile poggiato sull’asta e una lavagnetta di carta, dall’altra una fila di banchi addossati al muro .
Quello era il tavolo  della dirigente che si disponeva assisa nel mezzo con  ai fianchi i due collaboratori. Le prime tre file di sedie azzurre di fronte a questo tavolo risultavano, come di consueto, sempre vuote. Il pubblico dei professori amava sistemarsi con protervia e singolare pervicacia nelle ultime file, meglio se nelle vicinanze della porta antipanico.Ma ad un occhio allenato quella disposizione non appariva casuale. Faceva parte piuttosto di un rituale ben preciso: a sinistra  del tavolo dirigenziale prendevano posto i barricaderi e le pasionarie. A destra i resistenti e renitenti, nelle ultime file centrali, gli indifferenti.
Carla prese posto in una delle file centrali vuote, da sola, come amava fare, non per rispetto di quella ritualità, ma perché da quella postazione poteva almeno cercare di capire qualcosa, senza essere infastidita dal mormorio di sottofondo che  in quei casi faceva da basso continuo a tutti gli interventi nella discussione. Per quella sera Carla si era persa una buona parte dell’introito. Ma, come sempre, poteva immaginarlo. Prima la lettura del verbale della precedente seduta. Era un lungo prologo ormai di prassi che nessuno stava a sentire . Infatti per i buoni tre quarti d’ora  durante i quali il collaboratore di turno leggeva a voce bassissima , quasi per farsi perdonare dell’increscioso compito, ognuno degli astanti si dedicava ad altre occupazioni. La più diffusa era quella, per esempio, di rivolgersi al vicino di sedia e mormorare qualcosa lanciando brevi sguardi intermittenti all’indirizzo del lettore e atteggiando le labbra a risolini di scherno.
Però c’era anche qualche altra variazione su questo tema: la lettura del giornale , la correzione di compiti, la conversazione al cellulare. Una collega si era spinta una volta graziosamente a cucire abiti di scena per la rappresentazione teatrale incombente. E nessuno ebbe a lamentarsene. Anzi la professoressa in questione beneficiò pure di qualche consiglio estetico e addirittura tecnico da parte di altre sue colleghe. Tra tutte queste piacevolezze la lettura aveva finalmente termine. 
Questo era il punto preciso in cui  Carla era entrò. Un silenzio minaccioso aleggiava sull’aula. Tutti  improvvisamente tacquero. Il momento adesso era solenne: si trattava di votare per l’approvazione del verbale appena letto.  Infatti la dirigente con fare ammiccante e mellifluo invitò  gli astanti ad esprimere il voto di approvazione per alzata di mano. Pochissime mani si tesero verso l’alto con una certa quale esitazione quasi vergognosa davanti all’accigliato e palese dissenso della maggioranza che lanciava sguardi in cagnesco. La dirigente dai capelli d’un colore fulvo d’henné magrebino, sciolti sulle spalle in cascata, in un luccicore di abiti costellati da strass, iniziò a contare le mani. Nonostante l’esiguità del numero , quella conta risultò faticosa: dalla sua poltroncina, con l’indice alzato, contò prima sette, poi dieci, poi dodici, ma infine disse di essersi sbagliata e pretese una controprova. Adesso erano i contro che dovevano essere contati. Una selva di  braccia ben dispiegate verso l’alto che non lasciavano adito ad equivoci, si stagliò nitida nell’aula senza possibilità di errori. Ma anche questa volta la dirigente pretese di contare mani e braccia che qualcuno perfidamente alzava due volte,  perché,   indeciso da quale parte dovesse tendere, aveva pensato ad un no di piaggeria, all’ultimo momento, a causa degli sguardi tetri dei barricaderi. Naturalmente la conta fu anche più difficile: la dirigente dovette contare ben tre volte fino a quando, sfiniti, alcuni colleghi più anziani abbassarono le braccia. E così venne fuori che su centodieci persone, tredici avevano votato a favore, quaranta contro e venti si erano astenuti. Rimaneva sempre un buon terzo degli astanti che non aveva espresso preferenze. Si contentava comunque di qualsiasi risultato.
barricadieri e le pasionarie furono molto soddisfatte anche questa volta, nonostante non avessero ascoltato per niente la lettura del verbale. Ma non ne avevano bisogno. Sapevano già quello che avrebbero dovuto fare: la volta successiva avrebbero preparato una sfilza di correzioni lunga più del verbale stesso per integrare ogni riga letta dal malcapitato collaboratore.
Si erano già fatte le otto e mezza di sera. Quella era l’ora della cena, forse a casa ognuno era atteso da familiari più o meno abituati e chissà magari anche contenti di stare finalmente da soli a godersi in santa pace il TG della sera. Chissà, magari in cuor loro erano anche grati alla dirigente per quelle assenze di mogli e mariti.
Dopo le due conte iniziò immediatamente il rituale degli interventi: quattro mani alzate contemporaneamente si agitarono nell’aria per carpire l’attenzione e richiedere la parola al microfono. La liturgia voleva che per primo prendesse la parola l’erreesseu che nonostante l’età ormai avanzata non aveva dismesso la grinta di vecchio leone sessantottino di cui conservava puntigliosamente anche l’abbigliamento solo un poco (ma poco!) rinnovato nel look del duemila che avanzava. Un paio di jeans azzurri nella bella stagione o di velluto a coste di una gradevole gradazione tendente alla terra bruciata, d’inverno, erano  sempre inevitabilmente sormontati da un perenne gilet a cartucciera adorno di parecchie tasche per custodire chissà cosa. L’erreesseu aveva tutti i capelli bianchi e un paio di occhiali rotondi da miope, ma nonostante ciò, il sorriso dai denti leggermente larghi gli dava un’aria birichina da perenne studente ripetente di quinta.
Tutti sapevano che quando si fosse impadronito del microfono non lo avrebbe lasciato senza approfittarne per una bella arringa popolare sostenuta dalla parte sinistra dell’uditorio, ma rivolta a persuadere e cooptare eventualmente anche quella destra e soprattutto la centrale, notoriamente sorda a qualsiasi stimolo. L’unico risultato però che riusciva ad ottenere era quello di far fare scintille alla dirigente che si autodefiniva piacevolmente la leader del collegio e come tale pretendeva di mettere un certo ordine. Ma finiva quasi per accapigliarsi  con i barricaderi e le pasionarie che le si aizzavano contro  e i resistenti che sbuffavano. In mezzo sempre  la totale indifferenza. Questo era il momento in cui dovevano avvicendarsi altri al microfono. Secondo il rituale prese la parola un  altro collega il cui volto lo si poteva solo immaginare sotto la folta e spessa barba scura e casco di capelli neri sugli occhi. Questi, a differenza dell’altro, era abbigliato nel medesimo modo sia d’estate che d’inverno. Jeans azzurri e camicione casual a maniche corte. Sembrava indifferente agli sbalzi di temperatura. Solo raramente lo si era visto con qualche maglione ma solo in casi estremi. E, inevitabilmente dopo, un gelo terrificante si stendeva su tutta la città. Questo collega era piuttosto simpatico, anzi lo si sarebbe potuto definire un uomo interessante fino a quando però non proferiva parola. La loquela non gli giovava. Infatti la cadenza isolana  gli conferiva una certa aria da bambino viziato e un po’ insolente che poteva piacere, ma non a tutti e che  senz’altro gli alienava lo charme dell’aspetto di bel tenebroso del tempo dei suoi  silenzi.
Egli iniziava il suo discorso con un leggero fluttuare di tutta la persona. Sembrava quasi impacciato e leggermente ritroso a parlare. Poi, con uno scatto istintivo della testa teso a ricacciare indietro il ciuffo di capelli neri incombente sugli occhi, iniziava a parlare. I suoi discorsi, curiosamente in contrasto con la forte cadenza da bambino viziato, disquisivano di raffinati passaggi procedurali sempre disattesi , a suo dire,  dalla dirigente, la quale  per tutta la durata di quell’intervento anelava  spasmodicamente ad impadronirsi del microfono per confutare punto su punto ogni affermazione del docente. E, infatti, puntualmente dopo, iniziava a parlare a raffica, interrompendosi solo dopo un quarto d’ora e non certo di sua volontà.
Questi dialoghi, che avrebbero avuto la pretesa di essere interventi a beneficio del pubblico, lasciavano i discorsi esattamente al punto iniziale, anzi , in verità, li confondevano, talvolta privandoli dei significati primitivi e li esautoravano di qualsiasi messaggio. Tanto che alla fine i più rigorosi e volenterosi tra gli astanti non riuscivano più a seguire il filo del discorso perso tra l’aggrovigliarsi dei gerundi , dei participi e  soprattutto dei congiuntivi stizzosi e capziosi di quei discorsi professorali.  Durante questi interventi di precisazioni e puntualizzazioni la dirigente veniva fatta segno di svariati rintuzzamenti quando non di vere proprie minacce da parte delle pasionarie alla sua sinistra, le quali, forti del consenso dei colleghi schierati dalla loro parte, non si peritavano di inveire , senza alzarsi dalle loro postazioni, protestando per le scorrettezze formali di conduzione dell’assemblea. Spesso a questo punto interveniva una di esse, la più infervorata e sinceramente convinta della necessità di una raddrizzata a tutto quel disordine. E allora, richiesta la parola e presala di autorità, si avvicinava con fare calmo e persuasivo al tavolo della presidenza.
Costei, con voce pacata, iniziava in sordina una disquisizione con i toni conativi di un gesuita, rivolta solo apparentemente alla generalità dei colleghi, ma in effetti ad una sola persona, la dirigente,  che avrebbe dovuto intenderne tutta la portata pregnante e risolutiva. Alla fine del suo discorso rivolgeva all’uditorio uno sguardo circolare come di chi sa di avere tutto il consenso e di non avere fatto altro che dire bene tutto ciò che gli altri pensavano sicuramente in cuor loro ma che mai avrebbero saputo dire meglio. Infatti il coro delle pasionarie approvava all’unisono. La dirigente, durante tutto il discorso, si rivolgeva un po’ a destra verso la sua prima collaboratrice che nella sua  impassibile indifferenza non si sforzava ormai più neanche di fingere il benché minimo cenno di attenzione, e un po’ a sinistra verso il secondo collaboratore che , viceversa, assentiva ad ogni sua parola. In effetti ella non coglieva se non le ultime parole dell’intervento e quelle stesse, decontestualizzate, divenivano subitamente oggetto della sua riprovazione.
Ogni tanto dal fondo dell’aula, tra il gruppo di coloro che stavano addossati alla porta antipanico, proveniva una richiesta di parola. Allora una docente dall’abbigliamento dimesso, quasi sempre in jeans e maglioncino, con i capelli legati a coda di cavallo cominciava a esternare i suoi pensieri.
Questa donna dalle guance sanguigne e dall’aria perennemente imbronciata, seguitava l’opera della collega che l’aveva preceduta, spiegando con registro più modesto gli stessi ragionamenti della prima, casomai non fossero stati bene recepiti. Negli intervalli tra un intervento e l’altro il numeroso pubblico dei docenti continuava  nelle sue occupazioni di sempre, interrompendosi ogni tanto per acclamare o contestare qualcosa, ma sempre  dalle stesse postazioni.
Qualcuno ogni tanto chiedeva alla vicina di cosa si stesse parlando, ma veniva messa  a parte di frammenti di discorsi di cui, pur sforzandosi, non riusciva a ritrovare il bandolo . Ma mostrava di fidarsi e alla successiva votazione si sarebbe senz’altro orientata per il no.
Nelle precedenti assemblee la prima collaboratrice si era assunto il compito di chiarire ogni tanto, nel corso delle arringhe furibonde che si succedevano, qualche motivazione fondata e ne dava una lettura sintetica con poche parole. Ma dopo gli ultimi accadimenti che l’avevano vista protagonista suo malgrado di una lotta accanita con la dirigente, durante la quale c’erano stati soltanto vinti, si era ritratta in un silenzio ostentato durante tutti i collegi e non interveniva se non per chiedere licenza  di andar via.
Peccato, perché la sua presenza aveva dato un tocco di levità a quel grigiore senza fine che neanche i lustrini e i merletti della leader avevano avuto la forza di intaccare. Infatti ella spiccava per il suo abbigliamento così leggiadro ed elegante, e senza neppure un lustrino, che tuttavia si segnalava per il buon gusto. Era la sola in tutto quel consesso di professori e professoresse anche più giovani, che nessuno aveva mai sentito alzare la voce. Adesso invece si era come un pochino spenta e non portava che pantaloni  e maglioni scuri adeguandosi al look generale. Da quel momento nessuno l’aveva vista più poggiare le sue borsette adolescenziali sul tavolo della presidenza. Probabilmente le aveva buttate via in un impeto di furore. Senza quelle sue mediazioni, adesso i collegi erano ingovernati e irredimibili.
Pasionarie e barricadieri si succedevano ormai l’un l’altro accavallando i discorsi. Le parole perdevano la loro pregnanza semantica per ricondursi a puri suoni che evocavano solo emozioni e non delle migliori. Dopo due ore tutti si guardavano in cagnesco, chi sbuffava, chi rideva rabbiosamente, chi insultava il collega della parte opposta, chi alzava furiosamente le braccia e le mani per chiedere la parola , a suo dire, negata dalla dirigente la quale da parte sua continuava da sola a urlare al microfono la minaccia ormai routinaria di chiusura della seduta e di aggiornamento a data da destinarsi. Ma nessuno se ne preoccupava, anzi sembrava quasi che quel protrarsi ad libitum delle riunioni fosse diventato il più grande divertimento dell’anno, atteso addirittura con trepidazione e preparato  puntigliosamente nei giorni precedenti con discorsi clandestini di corridoio. A questo punto  Carla decise di andarsene.
Approfittando di un momento di particolare disquisizione su un passaggio dell’ultimo discorso dell’ultimo collega che era intervenuto, sul quale tutti, anche gli indifferenti, stavano discutendo animatamente, guadagnò l’uscita e a gambe levate si avviò verso il portone
aperto.
Attraversando il corridoio le sovvenne la collega neopensionata e il suo rinfresco apprestato per tutti i colleghi. Si fermò un istante, entrò nell’aula dove era stata prima, ma non vide nessuno. Solo una bidella ferma un poco più avanti nel corridoio, le si appressò.
-Dov’è la mia collega che era qui prima? , chiese Carla  con apprensione.
-E’ andata via, professoressa, rispose tranquilla la signora in camice azzurro.
-E tutti i pasticcini? Chiese Carla con sincera curiosità.
-Li ha regalati a noi, rispose la bidella con un sorriso radioso.

Maria Rosa Giannalia

Ogni riferimento a fatti e persone è puramente casuale.  ( N.d.A.)

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