Nei
26 capitoli in cui è suddivisa la sua autobiografia, Simonetta Agnello Hornby
ci racconta di una parte della sua vita, quella di un’ adolescente che, per
motivi familiari, vive tra Agrigento e Palermo. Intorno a lei gravitano tanti
personaggi, figure familiari che costellano la vita quotidiana sua e di sua
madre. Uno stuolo di zie, cugine, parenti che, come tutti i siciliani sanno,
costituisce l’essenza del modo di vivere corale dell’isola. L’autrice
racconta episodi, quasi tutti al femminile, dell’atmosfera amorevole e un po’
bizzarra della sua famiglia allargata,
con frequenti ricorsi a pennellate di colore laddove si dilunga con dovizia di
particolari a raccontare l’aspetto fondamentale della vita di ogni siciliano,
quello culinario. La preparazione dei cibi e dei dolci in particolare, assume
un’importanza primaria nel mondo circoscritto della famiglia Agnello. Gli
eventi familiari sembrano ruotare intorno alla cucina, luogo privilegiato dal
quale osservare e interpretare le vite di tutti i personaggi. Lo sguardo
dell’autrice è focalizzato sulle minute rappresentazioni di quanto succede
all’interno delle pareti delle due case
in cui vive la sua vita di adolescente: quella grande, ariosa e patrizia di
Agrigento e poi, con una maggiore insistenza, quella più piccola ma
centralissima della via xx settembre, che dà il titolo al libro, a Palermo. Ed è in quella Palermo alto-borghese che la vita della protagonista
si intreccia con quella di cugini e parenti e di nuove conoscenze cittadine.
L’ambiente descritto è quello degli anni sessanta e settanta, anni in cui la
città era interessata da accadimenti che hanno segnato la storia della seconda
metà del novecento italiano: la selvaggia speculazione edilizia, gli omicidi di
mafia e gli inizi di quella che successivamente
sarà la lotta più lunga e più guerreggiata tra stato e mafia. Anni di fuoco,
importantissimi per la storia del nostro paese.
Ma
nulla di tutto ciò si intravede nel romanzo della Agnello Hornby. Ciò che la
scrittrice racconta non risente che solo
tangenzialmente dell’angoscia di quegli anni. Il suo libro ci racconta di una
classe di piccola nobiltà decaduta e parassita ancorata a vecchi schemi esistenziali
fatti di ritmi e tradizioni che si ripetono meccanicamente nelle famiglie descritte e
che costituiscono forse l’unico elemento di sicurezza cui esse si aggrappano
per non morire di noia.
Sembra
quasi che in quella città negli anni '60 e '70 del novecento ci siano stati due livelli
esistenziali paralleli ma collocati su piani lontani tra di loro anni-luce. La
classe media quasi non esiste nel racconto dell’autrice. Totalmente ignorata è
anche la massa di contadini e operai, artigiani e piccoli impiegati, commessi e
tutta quella popolazione minuta, variopinta, piena di problemi quotidiani che
deve arrabattarsi ogni giorno per la sopravvivenza e che tuttavia sa essere
ironica, leggera, sa essere generosa e talvolta feroce e che costituisce
l’anima di Palermo e che sicuramente era presente anche negli anni in cui si
collocano le vicende familiari raccontate dall’autrice. Nelle parole dell’autobiografia
emerge viceversa la descrizione di una dimensione di vita assolutamente fuori
da questa realtà. La protagonista, come le cugine e gli altri giovani che fanno
parte del suo entourage, vivono in un mondo a parte, non contaminato dai
problemi contingenti e reali di quella città.
Il
tipo di vita, così come veniva vissuta dai giovani e dai vecchi di quella
classe sociale emerge, nelle righe del libro, appiattita su poche e poco
interessanti vicende. E’ una descrizione monca e priva di quella atmosfera che
pure tra gli anni sessanta e settanta del novecento connotava l’ambiente
studentesco di Palermo, impegnato a cogliere l’eco della rivoluzione del sessantotto all’interno
delle aule universitarie. Certo nei modi palermitani, cioè con sottotoni fatti
di umorismo e allegria, dove l’impegno politico si stemperava quotidianamente
con un po’ di cialtroneria tipicamente isolana. Ma nulla di queste atmosfere
si coglie in questo libro. Tutti i personaggi sono appiattiti e come fermi
entro contorni circoscritti e delimitati da imperativi di classe.
Mancano
le emozioni, manca la rappresentazione a tutto tondo anche di quella via XX
settembre dove non è possibile che i destini di quei giovani di cui l’autrice
riferisce, non si intrecciassero con le
vite di quegli altri giovani, che, pur appartenenti alla stessa classe sociale,
si erano coinvolti nella lotte studentesche vivendo il proprio tempo e le
aspettative sociali. Se l’autrice voleva
descrivere anche Palermo e la sua gente, il tentativo è proprio senza effetto.
Perché non si intravede né analisi né approfondimento di quella realtà. Mancano
le emozioni. Manca anche una certa letterarietà, quella, per intenderci, che fa
sì che il racconto, anche del proprio
privato, si universalizzi diventando occasione di riflessione e di meditazione
per il lettore. Il quale, se anche ha avuto la pazienza di arrivare fino in
fondo, si trova a chiedersi incredulo: ma perché questa signora ci ha
raccontato i fatti suoi? Questo è infatti il solo interrogativo che mi son
fatta alla fine della lettura. Anche le frasi e le parole dialettali sanno di
straniamento non artistico ma ingenuo e fuori campo. Lettere e suoni
decontestualizzati. Che non emozionano.
Il
libro strizza l’occhio al lettore di bocca buona e odora parecchio di
commerciabilità.
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