Apro oggi, in questo mio blog, una sezione etichettata " I CUNTI" che sarà dedicata ad un tipo particolare di narrazione.
I cunti, nella tradizione
popolare siciliana, erano fino a non molti anni fa, i racconti orali, rigorosamente
in dialetto, che, specialmente i nonni, raccontavano ai bambini, durante le
serate invernali, quando, dopo cena ci si sedeva attorno o’
cufularu, il braciere, cioè, che scaldava l’unica stanza dove la famiglia
si riuniva per mangiare e, in mancanza dei mezzi tecnologici , tipo la
televisione o il computer, di cui oggi disponiamo, per passare qualche ora insieme.
Il fascino di questi cunti era
affidato alla capacità di affabulazione degli anziani, che, in questo contesto,
rappresentavano i soggetti privilegiati del divertimento dei nipoti e di tutti componenti
della famiglia i quali spesso si alternavano in questo tipo di intrattenimento.
I cunti in Sicilia, come in tutto il
sud, rappresentavano un vero e proprio genere
letterario orale che prevedeva precise regole in fatto di trama, intreccio
e protagonisti.
I cunti
più seguiti e amati erano quelli che narravano le vicende di spirdi e diavuli capaci di affascinare soprattutto i bambini per l’alone di mistero che contenevano e per la
stimolazione dell’immaginario collettivo conferito proprio dall’uso rigoroso dei tòpoi
(luoghi comuni) condivisi.
Iniziamo con un cunto raccolto e trascritto in lingua italiana da Giuseppe Perricone.
Lo pubblicheremo a puntate con cadenza settimanale.
Nella foto: 'u cufularu ( piccolo museo del Castello di Castelbuono di Sicilia)
La foto è stata fornita dall'autore del racconto e inserita col suo consenso.
'A truvatura
di Giuseppe Perricone
Prima puntata
Un detto che la gente ripete
spesso con tono interrogativo all'indirizzo di qualcuno arricchitosi tanto
improvvisamente quanto inaspettatamente é:
- Ma chi truvò 'a Truvatura? [1]
Ai giorni nostri viene di solito ripetuto con
ironia, a volte anche con sarcasmo e altre ancora con sospetto, quasi a volere
intendere che si nutrono seri dubbi sulla liceità della provenienza di tali
improvvise ricchezze. Fino a qualche tempo fa, invece, non era così che era
intesa quest'espressione. Allora, quando ancora il Magico e il Soprannaturale
facevano parte del quotidiano almeno nelle convinzioni della gente comune,
quanto ora si considera irreale, frutto della suggestione, superstizione o,
peggio ancora, soltanto volgare ciarlataneria, era ritenuto una normale
manifestazione di "presenze" o di fatti che sebbene non si
riuscissero a spiegare empiricamente, tuttavia esistevano e accadevano.
- 1870 A.D. –
Mastro
Gaspare Lo Monaco, era un bell'uomo sui trentacinque anni, alto, biondo,
robusto, occhi cerulei, insomma, un tipico normanno di Sicilia. Giovanissimo
era rimasto vedovo di Donna Giacinta e, nonostante la giovane età, era padre di
quattro figli, tre maschi e una femmina. Il più grande di loro, Ciccio, aveva
circa sei anni, Damiano, il
secondogenito, quattro, Rosina due e Andrea, il più picciriddu, circa sei mesi.
Donna Giacinta purtroppo era morta di parto alla nascita dell’ultimo figlio.
Benché
fosse stato molto innamorato della moglie, tanto che il rimpianto di lei non lo
abbandonò mai, dopo quasi un anno dalla sua dipartita, Gaspare si risposò, ma
solo perché aveva necessità di qualcuno che si occupasse dei bambini mentre lui
era al lavoro.
Anche questa
unione durò poco, infatti, circa quattro anni più tardi, ristò ancora vidovo.
Qualche mese dopo questa seconda vidovanza, ebbe
modo di concludere un buon affare accattando una casa che da anni non era più
abitata.
A quei tempi, Mastro Gaspare era uno dei pochi in
paese a possedere più di una casa; ciò era dovuto al fatto di essere uno dei
mastri muratori più richiesti e canosciuti sia in paese che nel circondario,
Palermo compresa.
La spesa non fu eccessiva rispetto al reale valore
dell'immobile. Era in pieno centro. L'ingresso principale infatti dava
direttamente sulla piazza del paese e il secondario, sul retro, in una stradina
che dopo breve tratto si concludeva in campagna.
La casa aveva quattro càmmare tutte comunicanti; le
prime tre erano perfettamente allineate e dall'ultima di esse si trasiva nella
quarta tramite un ingresso che si apriva nella parete di sinistra. In
quest'ultima cammara era stato ricavato uno stanzino per il cabinetto. Alla
destra di ognuna delle prime tre c'era un cammarino.
Gaspare, dopo avere apportato alla casa alcune
riparazioni resesi necessarie doppo tanti anni di abbandono, vi si stabilì con
la famiglia. Adibì la prima cammara, quella che dava direttamente sulla piazza,
a soggiorno-sala da pranzo e il cammarino adiacente a cucina; la seconda era la
sua cammara da letto col cammarino che fungeva da stanzetta per il piccolo
Andrea; la terza stanza era occupata dai due figli più grandi, Ciccio e Damiano
e nel relativo stanzino venivano riposti gli attrezzi da lavoro. L'ultima era
quella di Rosina. L’arredamento della stanza era costituito da un lettino posto
subito a sinistra entrando, un pesante armadio a due ante, un tavolinetto
appoggiato alla parete di destra, proprio sotto una grande finestra con la
grata, e, ai piedi del letto, una sedia, sulla cui spalliera la bimba, prima di
coricarsi, riponeva i vestiti che aveva indossato durante il giorno.
Era da circa un mese che la famiglia Lo Monaco
dimorava nella nuova abitazione quando una notte furono tutti bruscamente
svegliati dalle grida terrorizzate di Rosina. Solo Andrea, il picciriddo,
continuò a dormire placidamente.
Non appena Gaspare si fu reso conto che quelle urla
provenivano dalla stanza della figlia, saltò giù dal letto e vi si precipitò
come una furia. Ciccio e Damiano erano già lì che cercavano vanamente di
consolare la sorella. Ma questa continuava a urlare disperata e solo quando
avvertì la presenza del padre, senza smettere di piangere e stringendosi a lui,
assunse una espressione rassicurata. Infatti, sentendosi ora al sicuro, prese
a inveire con parole apparentemente sconnesse in direzione della base
dell'armadio:
- Tinni vai ora? Ti scanti r’u papà? Brutto
vigliacco, fai acchianari arreri a Ancilo! (1)
Gaspare immaginò subito che la figlia aveva
"visto" qualcosa o qualcuno che … "non apparteneva a questo
mondo".
Portò la bambina nel proprio letto e invitò gli
altri figli a riprendere il sonno così bruscamente interrotto e per tranquillizzarli,
li convinse che la sorella aveva fatto un brutto sogno.
Quando i picciotti si misiru a letto, l'uomo chiuse
la porta della loro stanza e con fare persuasivo chiese alla bimba di
cuntaricci (2) l'esperienza che aveva appena
vissuto, cosa che lei fece subito.
Già da qualche notte la bambina veniva destata da
strani rumori che sembravano provenire dall'armadio. La paura la costringeva a
rintanarsi sotto le coperte malgrado la curiosità, prerogativa principale dei
bambini, la spingesse a verificarne l’origine.
Quella sera, invece, con un grande sforzo di volontà
riuscì a vincere la paura che la attanagliava. Non appena quei rumori si fecero
risentire, la sua prima reazione fu la solita, ma notando che gli scricchiolii
non accennavano a diminuire d'intensità, facendosi coraggio abbassò lentamente
le coperte fino a lasciare scoperta la testa e, pronta a ricoprirsi subito al
primo accenno di "pericolo", lentamente la sollevò dal cuscino. Ma,
visto che la spalliera della sedia coperta dai suoi vestiti le occludeva la
visuale della parte inferiore dell'armadio, fece leva sui gomiti e si sollevò
fino a ritrovarsi seduta in mezzo al letto.
Solo grazie al chiarore lunare che
filtrava dalla finestra socchiusa riusciva a intravedere il contorno dei
mobili. Fu così che Rosina guardando in direzione dell'armadio indovinò i
contorni di una forma umana accovacciata ai piedi di esso. Stranamente un
misterioso alone, pur lasciando il resto della camera nella consueta penombra,
prese a circondare quell'apparizione fino a renderla completamente visibile e
chiara.
In prossimità del pesante mobile, seduto sul
pavimento a gambe incrociate stava un bambino che dimostrava di avere pressappoco
la stessa età di Rosina. L'abbigliamento lasciava supporre che appartenesse a
una famiglia piuttosto agiata, infatti indossava una candida camicia
abbottonata fino al colletto bordato di fine pizzo; un paio di calzoni corti di
colore blu gli coprivano le gambe fin poco sopra il ginocchio e notò pure che
non portava scarpe ma solo un paio di calzettoni anche essi bianchi.
I capelli, biondi e lisci,
ben pettinati con la riga a sinistra gli incorniciavano il bel viso rotondo,
dai tratti regolari.
(continua)
(continua)
[1] Che ha trovato la
Truvatura(?
[1] Che ha
trovato la Truvatura(?
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