di Giuseppe Perricone
Non aveva
bisogno di saperne di più. Temeva che la sua intromissione in quell'ambiente
che probabilmente era stato teatro di chissà quali nefandezze avrebbe procurato
a lui e alla sua famiglia guai maggiori di quelli già sperimentati.
Se mai avesse
avuto dei dubbi sulla veridicità dei racconti della figlioletta, ora non ne aveva
più. Era tutto vero. Se non voleva perderla nessuno del suo nucleo familiare doveva
rimanere un giorno di più in quella casa.
Riammattonò
la stanza e quel giorno stesso, raccolte le cose di prima necessità, si trasferì
in casa della madre dove fin da quella stessa notte dormì con la famiglia.
Nel giro
di una settimana Mastro Gaspare traslocò definitivamente nella dimora che aveva
abitato precedentemente, anch'essa di sua proprietà e questa che lasciava la
mise in vendita speranzoso di concludere l'affare nell'arco di pochissimi
giorni.
Confidava
nel fatto che una casa come quella, centrale, con due accessi e ad un prezzo minore
del suo reale valore (la vendeva allo stesso prezzo d'acquisto, senza
considerare le riparazioni che vi aveva apportato a sue spese) avrebbe allettato
non pochi acquirenti. Ma, inspiegabilmente, senza che né lui, né i figli, né la
madre, cui non aveva potuto fare a meno di raccontare i fatti accaduti, avessero
fatto parola ad alcuno di quegli avvenimenti, in paese si cominciò a sussurrare
che Mastro Gaspare metteva in vendita la casa perché infestata dagli Spiriti.
Questa voce rendeva molto più arduo il compito ai sensali incaricati dell'affare.
A rendere
più ardua la vendita della casa contribuiva il fatto che all'epoca era molto difficile
trovare qualcuno in grado di disporre della cifra necessaria ad un tale acquisto.
Passati
circa sei mesi nell’infruttuosa attesa di un acquirente, Mastro Gaspare decise
di provare a darla in locazione.
Fu a
questo punto che si fece avanti Don Gaetano Arcoleo in qualità di affittuario,
attratto dall'esiguità del canone d'affitto.
Don Gaetano
era un uomo sui quarantacinque anni, alto, magro, buon lavoratore. Era molto
autoritario nei confronti della moglie e dei sei figli, quattro maschi e due
femmine, convinto com'era che il modo più sicuro d'impartire loro la buona
creanza rimanesse la severità, mai poca. Infatti, era convinto che solo così la
sua autorità di pater familias poteva continuare ad essere riconosciuta. Comunque
i suoi modi bruschi e autoritari, in effetti, nascondevano un amore sviscerato
per ogni componente della sua famiglia, in modo particolare per Adelina, la più
piccola dei figli, che aveva otto anni, molto cagionevole di salute e con una
malformazione congenita alla gamba destra che la costringeva a zoppicare. Don Gaetano
soleva sostenere che pur di procurare il massimo del benessere alla propria famiglia
era disposto a vendere anche l'anima al diavolo.
La moglie
di Don Gaetano, Donna Agatina, era un donnone di circa quarant'anni che pesava
almeno il doppio di lui, mora coi capelli crespi che la facevano sembrare una mulatta,
era infatti soprannominata 'a Nivura[1].
A parte Concetta
che essendo la più grande dei figli, diciannove anni, aiutava la madre in
casa, i quattro maschi, Bartolo, Nino, Peppino e Giovanni, coadiuvavano il
padre nella conduzione di un piccolo appezzamento di terra coltivato ad agrumi
che avevano in affitto e quando avevano completato i lavori stagionali in quel
terreno prestavano la loro opera come braccianti presso terzi. Tuttavia, per
quanto il padre coi figli si ammazzassero di fatica, riuscivano a malapena a
sbarcare il lunario, considerando pure che all'epoca dei fatti il salario di un
bracciante era meno di un terzo di quello di un muratore; i ragazzi poi
venivano pagati ancora meno.
La
famiglia Arcoleo, fino ad allora aveva vissuto in una stamberga di due stanze,
dai muri zuppi di umidità, in un vicoletto nei pressi della casa sfitta di Mastro
Gaspare.
Mastro Gaspare,
per mantenersi la coscienza a posto, si sentì in dovere di mettere Don Gaetano
sull'avviso di quanto avveniva la notte in quella casa. Gli confessò che il
vero motivo che lo aveva costretto ad abbandonarla erano le strane "presenze"
che la notte "disturbavano" la figlia e che tutto ciò, presumibilmente,
era da attribuire all'esistenza, sotto il pavimento dell'ultima stanza, di una
Truvatura. Perciò, se, nonostante i suoi avvertimenti aveva ancora voglia di
abitare in quella casa, stesse attento per la piccola Adelina che aveva la
stessa età della sua Rosina.
- Ma come
- rispose Don Gaetano - un uomo come voi crede a queste superstizioni? Io non
ho mai creduto né alle Truvature, né agli Spirdi né a nient'altro. Credo solo
in Dio, la domenica vado a Messa e sono a posto. Non ho paura di niente! Non mi
scanto dei morti, … Mi scantu r’i vivi!.- concluse con una risata.
Senza perdere
tempo in eccessive formalità, i due uomini si misero d'accordo e già all'indomani,
in un solo giorno, gli Arcoleo traslocarono nella nuova abitazione. Infatti,
non ci volle molto a trasportare le poche fatiscenti masserizie di loro
proprietà.
La nuova
abitazione sembrò conferire loro un nuovo status sociale. Cominciarono col
vestirsi in modo più decente e, neanche un mese dopo i vicini assistettero al
primo degli avvenimenti che in seguito avrebbero dato adito a molte illazioni.
Due stràscini[2]
carichi di mobili e di masserizie nuove si fermarono davanti alla casa, dove
scaricarono tutto e se ne ripartirono carichi del vecchio ciarpame che fino ad
allora aveva svolto le funzioni di mobilio.
Non era trascorso
un mese da questo avvenimento quando in paese si seppe che Don Gaetano era divenuto
proprietario della casa di Mastro Gaspare e, nei mesi successivi, pure del
terreno di cui era affittuario, di un altro appezzamento di terra adiacente al
primo, di altre tre case che aveva dato in affitto e di una stalla sul retro
della casa, visto che ora possedeva anche un cavallo e un mulo per il calessino
e il carretto che aveva intanto comprato.
Nell'anno
che seguì gli Arcoleo erano divenuti agiati possidenti. Ai primi si erano aggiunti
altri terreni coltivati ad agrumi. Ormai Don Gaetano e i figli si recavano in
camoagna non più per lavorarvi, ma per controllare l'operato dei braccianti al
loro servizio.
Cosa era
successo? A cosa era dovuta quell'improvvisa ricchezza?
Ogni volta
che qualcuno cercava di farlo pronunciare sulle cause che avevano prodotto un tale
repentino cambiamento nelle condizioni della sua famiglia, Don Gaetano lasciava
cadere il discorso e andava via, oppure intimava seccamente al suo interlocutore
di farsi gli affari suoi. Tutto ciò naturalmente dava maggiore adito alle
dicerie che già circolavano in paese: Don Gaetano stava forse sfruttando la Truvatura cui Mastro Gaspare
Lo Monaco aveva rinunciato per paura di perderci la figlia?
Nonostante
le evidenti ricchezze acquisite in quell'ultimo anno, gli Arcoleo non erano
invidiati da alcuno, poiché tutti in paese erano convinti che prima o poi
qualche sventura si sarebbe abbattuta in quella famiglia quale "pegno"
dovuto per lo sfruttamento della Truvatura.
Quanto inconsciamente
Don Gaetano riservò alla piccola Adelina l'ultima stanza della casa, quella il
cui pavimento nascondeva presumibilmente la Truvatura?
Alla
moglie, che ammetteva apertamente di credere a quanto si diceva in giro su quella
casa e che perciò era contraria a che Adelina dormisse in quella camera, rispondeva:
- Ma credi che se veramente esistesse la minima probabilità che Adelina, la mia
prediletta, corresse il più piccolo pericolo la lascerei dormire in quella
stanza?
Ed era in
buona fede!
Sì, forse
nel più profondo della sua mente, senza rendersene conto, sperava che esistesse
veramente la Truvatura
in quella casa, magari che fosse vero quanto si diceva in proposito, a parte
ovviamente il fatto del "pegno".
Che cosa
era successo?
Quando si
trasferirono nella nuova casa, Don Gaetano e i figli erano impegnati con dei
lavori di ristrutturazione nel terreno di cui erano affittuari. Avevano
deciso, previo il consenso del proprietario, di sostituirvi la coltivazione dei
limoni con quella dei mandarini.
Qualche settimana
dopo il trasloco, durante questi lavori in campagna, Don Gaetano era alle prese
con un tronco, ormai privato di tutti i suoi rami, che opponeva una tenace
resistenza al suo sradicamento. Decise di scavare con la zappa tutto intorno al
ceppo per cercare di liberarne le radici.
Ad un
tratto, da quello scavo vide comparire un pezzo di stoffa; sembrava il lembo di
uno straccio. Si chinò e cercò invano di tirarlo fuori. Infatti, lo straccio
era ancora troppo sepolto nel terreno per esserne tratto con facilità.
Continuò a
scavare e dopo un po’ si rese conto che quello che a prima vista sembrava soltanto
uno straccio, era, invece, un fagotto che a guardar meglio si rivelò essere
quel che rimaneva di una vecchia divisa militare, il cui colore originariamente
doveva essere stato bianco. Probabilmente era una vecchia divisa borbonica.
Incuriosito, l'uomo l'afferrò per quella che doveva essere stata una manica
e fece per sollevare il tutto, ma si accorse subito che era troppo pesante per
essere soltanto un semplice involto di vecchi stracci. Quella vecchia divisa
avvolgeva qualcosa di solido e … pesante.
Don Gaetano
decise di prendersi qualche minuto di riposo e intanto soddisfare la curiosità
che lo strano fagotto gli aveva messo in corpo. Si sedette ai piedi di un
albero lì vicino, con le spalle appoggiate al tronco e prese ad allargare quei
vecchi pezzi di stoffa fino a scoprire l'oggetto che vi era avvolto. Era un vecchio
tegame di alluminio privo di manico.
Quando l'uomo
ebbe completamente allargato gli stracci che lo ricoprivano, il vecchio recipiente
si trovava capovolto, con il fondo rivolto verso l’alto.
Dopo pochi
attimi di esitazione Don Gaetano rivoltò il tegame nel verso giusto e .... una
cascata di monete d'oro si riversò per terra dal suo interno. Non credette ai
propri occhi. Gli mancò il respiro per lo stupore.
Che ci faceva
lì quel tesoro? E chi lo aveva nascosto? E quando?
C'entravano forse i briganti che fino a pochi anni avanti agivano in
quelle campagne? Infatti, dopo l'annessione del Regno delle Due Sicilie al nascente
Regno d'Italia, quella zona era divenuta teatro delle imprese di una banda di
Sanfedisti costituita da disertori dell'esercito borbonico che si erano dati
al brigantaggio e che infierivano, in prevalenza, su reparti
isolati dell'esercito piemontese e su quelle ricche famiglie della zona che collaboravano
con gli invasori.
Dopo avere
imperversato per parecchio tempo in quel territorio, la banda venne distrutta
in seguito ad una cruenta battaglia con i Piemontesi, decisi ormai a debellare
il brigantaggio in tutto il meridione d'Italia e imporre il loro ordine.
Di quella
battaglia se ne parlava ancora.
Ebbene, Don Gaetano
pensò che il tesoro da lui trovato probabilmente era il bottino accumulato dai
briganti e nascosto prima che fossero distrutti. E, se così era, in quel terreno
poteva esserci nascosta ancora altra refurtiva dei banditi.
[1] “La
Nera ”
[2] Lo “strascinu” era un carro con quattro
ruote, le due anteriori più piccole delle posteriori, lungo anche cinque o sei
metri e senza sponde laterali ed era trainato da uno o più cavalli. A
differenza del carretto, più piccolo, con due sole ruote e le sponde, aveva la
cassetta su cui sedeva il conducente.
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